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Gli accordi collettivi in deroga alla disciplina delle collaborazioni eterorganizzate: più di una mera eccezione?

di Evangelista Basile* e Marco Azzoni ** 

È opinione generalmente condivisa quella secondo cui, con l’articolo 2 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, il legislatore ha inteso estendere la disciplina del lavoro subordinato al maggior numero possibile di rapporti di lavoro, facilitando anche sul piano probatorio chi agisca per ottenere la conversione del rapporto. La via seguita dalla riforma è stata, come in molti hanno da subito osservato, piuttosto controversa dal punto di vista della tecnica adoperata. Da un lato, infatti, si è deciso di abrogare le norme in tema di lavoro a progetto di cui agli artt. 61 ss. del decreto legislativo n. 276/2003, con ciò rinunciando, in particolare, al meccanismo di presunzioni (di cui all’art. 69 del medesimo testo normativo) che di fatto – in caso di violazione delle prescrizioni in tema di lavoro a progetto – qualificava ex lege il rapporto, (formalmente inquadrato dalle parti come collaborazione coordinata e continuativa) come di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Conseguenza di tale intervento riformatore è stata non solo l’abrogazione del citato meccanismo di conversione, ma altresì l’eliminazione delle tutele sostanziali predisposte per i rapporti di co.co.co. “genuinamente” a progetto e contenute negli artt. 62 ss. del decreto legislativo n. 276/2003. Pareva essere stata abbandonata, almeno momentaneamente (il legislatore è infatti poi tornato ad occuparsi della tutela del lavoro autonomo con la legge 22 marzo 2017, n. 81), la logica della graduazione delle tutele (massime per il lavoratore subordinato, intermedie e mirate per il lavoratore autonomo con particolare bisogno di protezione, come il collaboratore coordinato e continuativo, minime per il lavoratore autonomo “puro”): i rapporti di lavoro autonomo, pure se coordinati, continuativi e prevalentemente personali, tornavano ad essere regolati dallo scarno novero di norme protettive loro destinate (ad esempio, art. 409 c.p.c., art. 2113 c.c.), mentre per quelli esclusivamente personali ed eterorganizzati anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro si è introdotta l’applicazione tout court della disciplina del lavoro subordinato.

L’articolo 2 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 presenta evidentemente importanti problemi esegetici per ciò che concerne l’esatta individuazione del perimetro delle fattispecie: la dottrina (in mancanza di prese di posizioni giurisprudenziali sul punto) si è da subito divisa tra chi ha classificato la novella come “norma di fattispecie”, ovvero come norma che ha inteso modificare l’area della nozione di subordinazione di cui all’art. 2094 c.c., includendovi anche altro rispetto al lavoro eterodiretto (in tal senso si vedano, ad esempio, pur se con sfumature diverse, NOGLER L., La subordinazione nel decreto legislativo n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», ADL, 2016, 47 ss., spec. 61; FERRARO G., Collaborazioni organizzate dal committente, RIDL, I, 2016, 53 ss., spec. 59) e chi ha invece sostenuto che l’art. 2 sia da considerare quale “norma di disciplina”, che non modifica le nozioni di lavoro autonomo e subordinato, ma consente una mera estensione della disciplina protettiva oltre il suo naturale campo di applicazione (si vedano PERULLI A., Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, WP CSDLE. IT 272/2015, 14; PESSI R., Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, WP CSDLE.IT 282/2015, 11; MARAZZA M., Jobs act e prestazioni d’opera organizzate, GC, 2016, 215 ss., spec. 220).

La distinzione non è meramente teorica, ma può avere ricadute applicative importanti. Infatti, se si include la fattispecie di cui all’art. 2 nell’ambito del lavoro autonomo, si pongono due problemi. Il primo, di natura qualificatoria, consiste nel fatto che il legislatore avrebbe indicato quale criterio per individuare una partizione interna al lavoro autonomo quel medesimo criterio (l’eterorganizzazione) che da ormai diversi anni la giurisprudenza impiega come equivalente funzionale dell’eterodirezione per ravvisare il vincolo di subordinazione nelle professioni con ampio margine di discrezionalità tecnica (cfr., ad esempio, Cass. civ., sez. lav., 22 maggio 2013, n. 12572; Cass. civ., sez. lav., 26 novembre 2015, n. 24159; Cass. civ., sez. lav., 9 aprile 2004, n. 6983), e ciò non solo entro i confini nazionali, ma anche in ambito comunitario (si veda, emblematicamente, ICHINO P., Sulla questione del lavoro non subordinato ma sostanzialmente dipendente nel diritto europeo e in quello degli stati membri, RIDL, 2015, II, 566 ss.).

L’altra problematica connessa all’inquadramento della fattispecie di cui all’art. 2 entro l’area dell’autonomia è quella della conciliabilità di tale soluzione con la previsione, contenuta nella medesima norma, secondo cui alle collaborazioni eterorganizzate “si applica la disciplina del lavoro subordinato”, formulazione letterale che pare non lasciare alcun dubbio in merito al fatto che l’applicazione debba essere integrale. E l’estensione totale della disciplina propria del lavoro subordinato a fattispecie autonome comporterebbe non pochi impasse interpretativi e gestionali: che ne sarebbe dei profili previdenziali? E delle norme del codice civile che attribuiscono non tanto diritti al lavoratore subordinato, quanto penetranti poteri di direzione, di controllo e sanzionatori al datore di lavoro, come ad esempio gli art. 2104, 2105 e 2106 c.c.? (per tali considerazioni si veda anche PERSIANI M., Ancora note sulla disciplina di alcune collaborazioni coordinate, ADL, 2016, 313 ss.). Sposando invece la tesi secondo cui l’art. 2 del decreto legislativo n. 81/2015 abbia inteso operare un ampliamento della nozione stessa di lavoro subordinato (e non solo estendere l’applicazione della sua disciplina a fattispecie contigue ma distinte) ci si deve misurare con un dubbio di legittimità costituzionale che, come osservato da più parti in dottrina, nascerebbe proprio con riferimento alle previsioni contenute nel secondo comma della stessa norma, in particolare alla lettera a).

Il comma 2, per l’appunto, contiene una serie di casi nei quali la previsione di cui al primo comma non trova applicazione: una serie di collaborazioni, dunque, a cui, anche se esclusivamente personali ed organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, non trova applicazione la disciplina del lavoro subordinato. Tali sono: quelle per cui gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo in ragione di particolari esigenze produttive e organizzative del settore (lett. a); quelle prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (lett. b); quelle prestate da componenti di organi di amministrazione e controllo delle società e da partecipanti a collegi e commissioni (lett. c); quelle rese a fini istituzionali ad associazioni e società sportive dilettantistiche (lett. d). Come accennato, in ragione di tale sistema di esclusioni, se alle collaborazioni di cui all’art. 2 si riconosce natura subordinata non pare peregrino immaginare che prima o poi possa essere sollevata eccezione di illegittimità costituzionale della norma con riferimento al cd. principio di indisponibilità del tipo contrattuale. Tale principio risale alle due note pronunce (C. Cost. 29 marzo 1993, n. 121; C. Cost. 31 marzo 1994, n.

115) con cui la Corte costituzionale ha precisato che non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento. Inoltre, e a maggior ragione, non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere, direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del lavoro subordinato. La paventata questione di legittimità costituzionale, tuttavia, sembra in concreto destinata a restare confinata a un piano solo teorico: infatti, come detto, è sufficiente valorizzare il dato letterale del primo comma dell’art. 2 per legittimare l’interpretazione secondo cui la norma non avrebbe inciso direttamente sul tipo contrattuale, bensì avrebbe solamente esteso tutele proprie della subordinazione a rapporti comunque privi dei requisiti sostanziali della fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. (ciò pure con le difficoltà interpretative sopra evidenziate quanto a criterio selettivo e ad ampiezza dell’estensione).

Pur con le segnalate problematiche interpretative e applicative, l’art. 2, naturalmente, è oggi perfettamente operativo: anzi, dalla prassi applicativa sembra emergere, quasi paradossalmente, che per gli attori del diritto è al momento il secondo comma della norma a svolgere un ruolo da protagonista, ben più rispetto alla previsione generale di cui al primo comma. Da un lato, infatti, nella pressoché totalità dei casi in cui il lavoratore agisca in giudizio per vedere riconosciuta la natura subordinata del rapporto, la strada seguita è quella che passa per il tentativo di dimostrare la sussistenza dei “tradizionali” indici di subordinazione, senza che si riscontri, almeno per ora, la tendenza a valorizzare invece le soluzioni offerte proprio dal primo comma dell’art. 2. In questo senso, l’operatività della norma sembra per così dire “assorbita” da quelli che erano già gli approdi giurisprudenziali precedenti.

Maggiore impatto ha invece avuto la previsionedicuialsecondocomma, letteraa), secondo cui, testualmente: “La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”. Ci si potrebbe chiedere, vista la natura di norma protettiva della parte debole del rapporto indubbiamente rivestita dall’art. 2, perché mai i sindacati dei lavoratori dovrebbero sottoscrivere accordi in deroga all’operatività di un meccanismo come quello in esame, che, come visto, estende in blocco tutta la disciplina del lavoro subordinato (ovvero quanto di più garantistico esista oggi nel nostro ordinamento a tutela del lavoro).

La risposta, invero, può essere trovata volgendo lo sguardo alle dinamiche che hanno preceduto l’emanazione della norma, con particolare riferimento alle preoccupazioni manifestate da alcuni specifici settori imprenditoriali, nell’ambito dei quali una più ampia e generalizzata applicazione delle tutele proprie del lavoro subordinato avrebbe comportato costi non sostenibili (ricostruisce il quadro dettagliatamente IMBERTI L., L’eccezione è la regola?! Gli accordi collettivi in deroga alla disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente, DRI, 2016, 393 ss., spec. 397). Si consideri, ad esempio, il settore degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), che svolgono anche attività di ricerca in corrispondenza con i finanziamenti all’uopo destinati loro da parte di enti di varia natura, non di rado comunitari. In un settore come questo, la previgente disciplina del lavoro a progetto si prestava quasi fisiologicamente a consentire il reperimento di collaboratori che fossero impiegati per lo studio di volta in volta specificamente commissionato e fossero pagati mediante i fondi ricevuti dall’ente finanziatore del progetto. Tornando alla fase precedente l’approvazione della legge, è allora in ragione delle necessità di tutelare l’occupabilità in settori come questi che il legislatore ha introdotto la delega in esame a beneficio della contrattazione collettiva. Non è un caso che molti accordi ex art. 2, comma 2, decreto legislativo n. 81/2015 siano stati infatti sottoscritti subito all’indomani dell’entrata in vigore della nuova legge, a conferma che anche le organizzazioni sindacali, in determinati settori, hanno ravvisato una forte esigenza di tutela dell’occupazione. Tra i numerosi contratti conclusi si annoverano, ad esempio: nel settore delle telecomunicazioni l’accordo tra Assotelecomunicazioni-Asstel, Assocontact e SLC-CIGL, Fistel CISL, UILCOM-UIL del 22 dicembre 2015; nel settore delle scuole non statali l’accordo tra ANINSEI, Confindustria Federvarie e FLC-CIGL, CISL Scuola, Uil Scuola, Snals- Confsal del 22 luglio 2015; per il settore, appunto, degli enti di ricerca privati, IRCSS e strutture sanitarie private l’accordo tra ARIS e FP CIGL, CISL FP, UIL FLP del 30 dicembre 2015; nel settore, ancora, delle università non statali, l’accordo tra LUISS ed altre università private con FLC-CIGL, CISL Università, UIL RUA del 10 dicembre 2015; nel settore delle radiotelevisioni private l’accordo tra Confindustria Radio Televisioni, ANICA, RNA e FISTEL-CISL, UILCOM UIL del 16 dicembre 2015.

È bene ricordare come la suddetta delega non conceda alle parti sociali un margine d’azione totalmente discrezionale. Infatti l’art. 2, comma 2, lett. a) del decreto legislativo n. 81/2015 contiene numerose condizioni di legittimità degli accordi in deroga ivi previsti. Innanzitutto, il primo limite è quello della rappresentatività dei soggetti stipulanti, con tutti i ben noti problemi interpretativi che il concetto di “comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale” porta con sé, specie in settori in cui dovesse registrarsi la coesistenza di più accordi collettivi. Il secondo limite è quello del livello di contrattazione, che nel caso in esame deve necessariamente essere nazionale. I requisiti di carattere più contenutistico sono invece: quello della necessaria previsione, da parte dell’accordo, di discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, di talché non è ammesso un accordo collettivo che semplicemente escluda l’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato, senza riempire il vuoto così creato con previsioni relative al trattamento sostanziale ad hoc; la necessità di motivare la scelta di stipulare l’accordo con esigenze produttive ed organizzative del relativo settore. Peraltro, se con riferimento al primo dei due requisiti contenutistici illustrato non sembra arduo immaginare la possibilità di un effettivo sindacato giudiziale, i margini di verifica da parte del giudice dell’effettività delle esigenze del settore sembrano davvero di difficile determinabilità (sul punto si esprime anche MAGNANI M., Autonomia, subordinazione, coordinazione (artt. 1, 2, 52, 55, d.lgs. n. 81/2015), in MAGNANI M, PANDOLFO A., VARESI P.A. (a cura di), I contratti di lavoro, Giappichelli, Torino, 2016, 1 ss., spec. 16).

V’è comunque da segnalare che finora gli accordi collettivi stipulati ai sensi dell’art. 2, comma 2, hanno perlopiù provveduto a riproporre i contenuti di specifici accordi già esistenti in precedenza con riferimento alla disciplina del lavoro a progetto, nell’ambito della quale le norme di legge concedevano ampie deleghe alle parti sociali al fine di integrare il nucleo minimo di trattamento di natura appunto legale. Gli accordi in esame, ad ogni modo, sono proliferati subito all’indomani dell’entrata in vigore dell’art. 2, avvenuta nell’estate 2015. Come sottolineato, in quel momento storico, complice l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto, nel sistema delle tutele presente nel nostro ordinamento si era radicalizzata la dicotomia tra lavoratori protetti dalle tutele connesse alla subordinazione e lavoratori autonomi, quasi del tutto privi di tutele specificamente lavoristiche. Ora, a seguito della già citata emanazione della legge n. 81/2017, anche per il lavoro autonomo cd “puro” il legislatore ha introdotto specifiche forme di tutela. Naturalmente, come facilmente si evince anche dalla formulazione di molti degli articoli di tale provvedimento normativo, in generale le tutele pensate per il lavoratore autonomo tout court non possono che risultare qualitativamente diverse da quelle di cui può necessitare il collaboratore eterorganizzato, se non altro perché fisiologicamente visualizzano l’ipotesi del soggetto libero di muoversi sul mercato e non specificamente dipendente dal rapporto con un singolo committente (e che dunque necessita più di favori di natura previdenziale, ad esempio, rispetto a tutele nel rapporto). Tuttavia, non è escluso che anche la recente legge n. 81/2017 possa in qualche modo condizionare ed orientare il contenuto degli accordi ex art. 2, comma 2, lett. a), decreto legislativo n. 81/2015, ciò quantomeno, per esempio, con riferimento alla tutela di gravidanza, malattia e infortunio, per la quale anche il recentissimo provvedimento in tema di lavoro autonomo (all’art. 14) introduce un periodo di sospensione del rapporto (senza diritto al corrispettivo) per il caso in cui il prestatore operi in via continuativa presso un singolo committente.

* Avvocato, socio dello Studio Ichino, Brugnatelli e Associati;

** Avvocato, collaboratore dello Studio Ichino, Brugnatelli e Associati.