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Rassegna di Giurisprudenza

di Bernardina Calafiori *e Alessandro Montagna * 

IL PRINCIPIO DI AUTOMATISMO DELLE PRESTAZIONI PREVIDENZIALI DI CUI ALL’ART. 2116, I COMMA, C.C.: VALIDO ANCHE PER I LAVORATORI PARASUBORDINATI? 

La sentenza in commento (causa G. Bosotti – FM 2.0. s.r.l. / INPS – Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, Giudice dott.ssa Maria Grazia Cassia – sentenza n. 2858/2019 del 10.12.2019, pubblicata in pari data) offre lo spunto per una analisi dell’art. 2116 c.c., I comma, in base al quale “le prestazioni indicate nell’art. 2114 c.c. (vale a dire: le prestazioni di previdenza e di assistenza obbligatorie: n.d.r.) sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza …”.

Più precisamente, la sentenza in esame ha affrontato il seguente e delicato tema: se, a fronte del chiaro tenore letterale della suddetta disposizione normativa, questa possa estendersi anche ai cosiddetti lavoratori para – subordinati o titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. 

Con la pronunzia in commento il tribunale di Milano ha stabilito, sulla scorta delle considerazioni che seguono, che il principio dell’automaticità (o dell’automatismo), di cui al citato articolo 2116, I comma, c.c., delle prestazioni trova applicazione anche ai lavoratori iscritti alla gestione separata di cui all’art. 2, co. 26 segg. legge n. 335/1995: in altre parole e più semplicemente, salvo il caso di prescrizione del diritto ai contributi, secondo la sentenza in commento, l’Inps è, comunque tenuto ad assicurare le prestazioni di assistenza e di previdenza obbligatorie, pur nel caso di omissione contributiva del datore di lavoro, il cui inadempimento, dunque, non può negativamente ricadere sul lavoratore.

Al riguardo, si deve anzitutto mettere in rilievo, sul piano dell’analogia juris, come il sistema di versamento dei contributi per i lavoratori parasubordinati sia il medesimo dei subordinati, essendo il committente onerato (al pari del datore) dell’obbligo di provvedere alla trattenuta e al conseguente versamento all’istituto previdenziale, potendo poi rivalersi sul collaboratore per la quota (di un terzo) a suo carico.

Questo carattere generale del principio è – del resto – ben noto al Giudice delle leggi e alla giurisprudenza di legittimità (Cass. lav., 19/8/2004, n.16300), che a tale riguardo ha affermato che:

«Il principio generale dell’automatismo delle prestazioni previdenziali (ai sensi dell’art. 2116 c.c., confermato, per l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti, dall’art. 27, comma 2, r.d.l. 14 aprile 1939 n. 636, nel testo sostituito dall’art. 23 ter d.l. 30 giugno 1972 n. 267, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 1972 n. 485, e rafforzato dall’art. 3 d.lg. 27 gennaio 1992 n. 80, in forza del quale le prestazioni previdenziali spettano al lavoratore anche quando i contributi dovuti non siano stati effettivamente versati, deve essere interpretato, alla luce della sentenza della Corte cost. n. 374 del 1997, nel senso che esso trova applicazione, con riguardo ai vari sistemi di previdenza e assistenza obbligatorie, come regola generale rispetto alla quale possono esservi deroghe solo se espressamente previste dal legislatore e non solo in relazione al raggiungimento del requisito minimo necessario per il conseguimento del diritto alle prestazioni, ma anche ai fini dell’incremento delle prestazioni già spettanti».

In secondo luogo, va evidenziato che l’art. 39, co. 4 della legge n. 183/2010 (c.d. “collegato lavoro”) abbia parificato anche sul piano delle sanzioni la condotta del committente che omette di riversare all’Inps gli importi trattenuti, al pari di quanto si applica al datore che si renda responsabile dello stesso illecito nei confronti dei propri lavoratori dipendenti (con applicazione della reclusione sino ad un massimo edittale di tre anni). Da qui l’evidente sussistenza di una eadem ratio, che non può che determinare l’applicazione della medesima disposizione (e quindi dell’art. 2116 c.c.).

In terzo luogo, l’analogia fra le due fattispecie è resa evidente dalla completa assimilazione sul piano fiscale e dall’allineamento delle percentuali di contribuzione, che rendono evidente come il lavoro parasubordinato abbia diritto alle stesse tutele dei subordinati, mentre del tutto diverse sono le aliquote a carico dei lavoratori autonomi, iscritti alle tre gestioni speciali Inps (commercianti, artigiani e coltivatori diretti).

Del resto, è lo stesso art. 2114 c.c., richiamato dall’art. 2116 c.c., ad omettere ogni riferimento alla condizione di subordinazione, facendo invece un più generale riferimento alle “forme di previdenza e assistenza obbligatorie” previste dalle leggi speciali e dalle norme corporative, e quindi con rinvio assai più ampio al contenuto della sezione III del titolo II del libro V.

La regola dell’automatismo, infatti, non si collega in alcun modo ad una posizione di subordinazione (tanto che i termini di prescrizione sono differentemente regolati rispetto al credito retributivo e gli atti interruttivi non si trasferiscono da una obbligazione all’altra), ma è frutto della natura sociale delle assicurazioni, che consente ad esempio all’Istituto di trattenere gli importi contributivi dei lavoratori che non li abbiano reclamati o che non abbiano raggiunto i requisiti di legge per poter maturare il diritto a pensione.

Nulla, dunque, impedisce alla regola codicistica di cui all’art. 2116 c.c. comma I di trovare applicazione anche ai rapporti di lavoro parasubordinato, come ritenuto anche da una consolidata giurisprudenza di merito (v. ad es. Trib. Bergamo 23.12.2013 e 12.12.2013 in DRI, 2014, 3, 757 ed ancora Trib. Trento 13 marzo 2018, in Jurisdata Giuffrè). 

Pacifici devono apparire gli effetti che discendono dall’applicazione al caso de quo della regola di cui all’art. 2116 c.c., comma I, atteso che questo stabilisce esattamente che: «Le prestazioni indicate nell’articolo 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali [o delle norme corporative]».

Il solo limite, quindi, che può ammettersi sarà costituito dall’eventuale prescrizione dei contributi, giusto quanto previsto dall’art. 40 della legge n. 153 del 1969, che ha integrato l’art. 27 del r.d.l. del 14 aprile 1939, n. 636, stabilendo che:

«Il requisito di contribuzione stabilito per il diritto alle prestazioni di vecchiaia, invalidità e superstiti, si intende verificato anche quando i contributi non siano effettivamente versati, ma risultino dovuti nei limiti della prescrizione decennale. Il rapporto di lavoro deve risultare da documenti o prove certe.

I periodi non coperti da contribuzione di cui al comma precedente sono considerati utili anche ai fini della determinazione della misura delle pensioni». In altri termini, dunque, l’Inps è tenuto a riconoscere i contributi, anche se essi non sono stati effettivamente versati, includendoli nella base di calcolo della pensione (o meglio: nel montante contributivo) ai fini del riconoscimento sia del diritto a pensione, sia dell’ammontare di questa.

VALIDO IL PATTO DI N CONCORRENZA ESTES ANCHE A NAZIONI STRANIERE

Con la pronunzia in commento (Tribunale di Milano, dott. Tullio Perillo, ordinanza cautelare n. 2544/2020 del 30.01.2020), il tribunale di Milano ha colto l’occasione per ribadire importanti principi in tema di validità del patto di non concorrenza tra datore di lavoro e dipendente.

Al riguardo, giova ricordare che la norma di riferimento, ovvero l’articolo 2125 c.c., espressamente prevede che “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.

La durata del vincolo non può essere superiore a cinque anni, se si tratta di dirigenti, e a tre anni, negli altri casi. Se è pattuita una durata maggiore, essa si riduce nella misura su indicata”.

Nel caso in questione, due dipendenti di una importante società finanziaria avevano stipulato due patti di non concorrenza, i cui termini essenziali erano:

  • vigenza del patto: 12 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro;
  • estensione territoriale: Svizzera, Lussemburgo e, in Italia, Regioni Lazio, Lombardia e Toscana;
  • oggetto: obbligo di non svolgere, sostanzialmente, a qualsiasi titolo, attività di gestione di portafogli finanziari,di intermediazione finanziaria e di consulenza finanziaria;
  • corrispettivo: 20% della A.L. (Retribuzione Annua Lorda) mediante conguaglio dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

Sulla base di tali premesse di fatto, il tribunale di Milano ha confermato la vigenza, nel “diritto vivente” giurisprudenziale, di alcuni consolidati orientamenti.

In particolare:

a) quanto al limite di estensione territoriale: la pronunzia in commento ha confermato che un patto di non concorrenza limitato a due Stati Europei (Svizzera e Lussemburgo) e a tre Regioni italiane (Lazio, Lombardia e Toscana) è valido e rispettoso dei presupposti indicati nel citato articolo 2125 c..

La pronunzia in commento si inserisce, sotto tale profilo, nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui, anche in considerazione della crescente “dematerializzazione” delle attività economiche, con possibile dissociazione fra la sede lavorativa ed il luogo in cui l’attività svolta produce i suoi effetti, si considera valido un patto che escluda lo svolgimento di un certo tipo di attività in ambiti anche molto vasti purché determinati, come l’intero territorio nazionale (Cass. 4 aprile 2006, n. 7835), l’Italia settentrionale (Cass. 14 maggio 1998, n. 4891), più Regioni italiane (Tribunale di Genova, 25 febbraio 2002) e persino l’intera Unione Europea (Cass. 10 settembre 2003, n. 13282; Tribunale di Milano 3 maggio 2005 n. 1484; Tribunale di Milano 22 ottobre 2003), escludendo soltanto la validità di una pattuizione estesa “all’Italia e all’estero” (Tribunale di Ravenna, 24 maggio 2005);

b) quanto ai limiti di oggetto:

anche sotto tale profilo, la pronunzia in commento conferma il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è nullo solo il patto di non concorrenza che genericamente vieti al lavoratore di prestare qualsiasi tipo di attività lavorativa per società concorrenti.

In altri termini, l’ampiezza del divieto non può infatti mai essere tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che non salvaguardino un margine di attività sufficiente al soddisfacimento delle esigenze di vita o che compromettano le possibilità del lavoratore di assicurarsi un idoneo guadagno, il tutto in connessione con la durata del patto e la sua estensione territoriale.

Così Cass. 10 settembre 2003, 13282: Il patto di non concorrenza, previsto dall’art. 2125 c.c., può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi alle sole mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto. Esso è, perciò, nullo allorché la sua ampiezza è tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in limiti che ne compromettano ogni potenzialità reddituale.

Facendo applicazione di tali principi al caso di specie, il tribunale di Milano ha dunque rilevato la validità del patto, in quanto limitato ad una specifica e delimitata attività, ossia quella di:

  • svolgere attività di gestione di portafogli finanziari o di intermediazione finanziaria o di consulenza finanziaria;
  • non acquisire e non fare acquisire clienti di xxx già dai dipendenti acquisiti o gestiti nel corso del rapporto di lavoro con xxx;

Pertanto, i due dipendenti, convenuti in giudizio, erano liberi:

  • di svolgere, in Svizzera e Lussemburgo nonché nelle Regioni Lazio, Lombardia e Toscana, qualsiasi attività inerente al settore credito – che non riguardi la gestione di portafogli finanziari o l’intermediazione finanziaria o la consulenza finanziaria e che non comporti l’acquisizione di clienti già da loro gestiti nel corso del rapporto con xxx – e ciò verso qualsiasi cliente o potenziale cliente, compresi i clienti di xxx e compresi i clienti da loro gestiti durante la vigenza del rapporto di lavoro con xxx;
  • di svolgere, al di fuori di Svizzera e Lussemburgo e Regioni Lazio, Lombardia e Toscana, qualsiasi attività inerente al settore credito – compresa l’attività di vendita o gestione di portafogli finanziari o di intermediazione finanziaria o di consulenza finanziaria, compresa, altresì, la possibilità di acquisire o fare acquisire clienti già da loro gestiti presso xxx.

In connessione con la sua limitata estensione territoriale e temporale, il patto stesso consentiva certamente ai due dipendenti di esplicare sufficientemente la loro professionalità in termini adeguati a consentire loro un idoneo guadagno professionale;

c) quanto alla congruità del corrispettivo: sotto tale profilo, è sufficiente ricordare che la giurisprudenza ritiene nullo il patto di non concorrenza soltanto quando il corrispettivo manchi del tutto o sia meramente simbolico o manifestamente sproporzionato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore.

Nel caso di specie, dunque, alla luce di quanto sopra, il corrispettivo erogato ai due dipendenti era in linea con il citato orientamento, atteso che esso ammontava ad un importo annuo pari al 20% della retribuzione annua lorda.

Secondo la pronunzia, dunque, il corrispettivo così erogato era perfettamente in linea con i presupposti di cui all’art. 2125 c.c., anche in ragione del fatto che la valutazione della congruità dello stesso non può prescindere da una ricognizione del sacrificio, in concreto, imposto al dipendente.

Nel caso di specie, dunque, il corrispettivo è stato ritenuto valido, anche rispetto al sacrificio richiesto, soprattutto se rapportato al limitato ambito territoriale (Svizzera e Lussemburgo e 3 Regioni italiane) e temporale (12 mesi rispetto al massimo di legge di 36 mesi).

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio