CREDITI DI LAVORO: SECONDO LA CASSAZIONE LA PRESCRIZIONE DECORRE SEMPRE DALLA CESSAZIONE DEL RAPPORTO. COSA CAMBIA?

,
di Paolo Galbusera* e Andrea Ottolina*

Conl’importante sentenzan. 26246 del 06.09.2022, la Corte di Cassazione è intervenuta prendendo posizione sul tema della decorrenza della prescrizione dei crediti da lavoro, argomento che negli anni è stato oggetto di un ampio dibattito giurisprudenziale, evolutosi di pari passo con le modifiche normative apportate alle tutele contro i licenziamenti illegittimi. Nello specifico, il tema in discussione riguarda appunto l’individuazione del dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro, che può essere alternativamente individuato nel momento della maturazione del diritto e, quindi, in corso di rapporto, oppure nella data di cessazione del rapporto di lavoro.

Il primo intervento sull’argomento risale al 1966 ed è stato quello della Corte Costituzionale (sentenza n. 63 del 10.06.1966), la quale aveva fissato il principio secondo cui la prescrizione dei crediti di lavoro dovesse decorrere necessariamente dalla data di cessazione del rapporto e ciò nell’interesse del dipendente, il quale, nell’ambito di un contesto normativo non ancora improntato alla tutela contro i licenziamenti illegittimi, poteva essere indotto durante il rapporto di lavoro a rinunciare all’esercizio dei propri diritti proprio per il timore di essere licenziato (il c.d. metus).

Negli anni successivi, l’evoluzione normativa in tema di licenziamenti illegittimi, con la progressiva introduzione di tutele sempre più concrete in favore di lavoratori dipendenti, ha portato la Corte Costituzionale a modificare e ad attualizzare il proprio orientamento.

Già dopo l’entrata in vigore della legge n. 604 del 15.07.1966, il cui art. 1 stabiliva che il licenziamento non potesse avvenire se non per giusta causa o per giustificato motivo, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di fornirne la prova, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 del 20.11.1969, aveva affermato che il principio del decorso della prescrizione dalla data di cessazione del rapporto non dovesse trovare applicazione tutte le volte che il rapporto di lavoro subordinato fosse caratterizzato da “una particolare forza di resistenza”, conseguente alla previsione di appositi rimedi giurisdizionali contro i licenziamenti illegittimi, come ad esempio nel caso dei rapporti di pubblico impiego.

A seguito dell’introduzione della tutela reintegratoria di cui all’art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), la Corte Costituzionale ha quindi ulteriormente rimodulato la propria posizione, affermando, con la sentenza n. 174 del 12.12.1972, che proprio in ragione della stabilità reale dei rapporti di lavoro prevista dalla nuova normativa, non era più giustificato un differimento della decorrenza della prescrizione al termine del rapporto per quei lavoratori che rientravano nell’ambito di applicazione dell’art. 18 e che, nello specifico, potevano godere di una tutela reintegratoria piena. Al contrario, per i lavoratori assunti da aziende con requisito dimensionale inferiore ai 15 dipendenti, quindi esclusi dall’ambito della tutela reale, doveva rimanere fermo il principio della prescrizione decorrente dal termine del rapporto di lavoro.

Questa differenziazione improntata sull’effettiva stabilità dei rapporti di lavoro e basata sull’automatica applicabilità della tutela reale in caso di aziende con più di 15 dipendenti, si è sostanzialmente consolidata nella successiva giurisprudenza sia di merito che di legittimità. Ciò sino alle due importanti riforme che, nel corso degli ultimi dieci anni, hanno modificato la normativa sui licenziamenti illegittimi: per prima la legge 92/2012 (c.d. Legge Fornero), che ha modificato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori limitando la tutela reintegratoria solo ad alcune fattispecie; quindi il d.lgs. 23/2015 (c.d. Jobs Act), che ha disapplicato l’art. 18 introducendo le c.d. tutele crescenti per tutti i rapporti di lavoro instaurati successivamente al 7 marzo 2015 e che ha di fatto relegato la tutela reintegratoria solo a casi residuali.

A quel punto alcuni Tribunali di merito hanno iniziato a modificare il proprio orientamento in tema di prescrizione dei crediti lavorativi, ritenendo che, con il nuovo impianto normativo, fosse venuto meno il principio della stabilità dei rapporti di lavoro, che giustificava appunto la previsione del decorso della prescrizione sin dal momento della maturazione del singolo diritto azionato.

Come detto, con la sentenza n. 26246/2022 in esame, la Corte di Cassazione, chiamata ad esprimersi sul punto, ha ritenuto di aderire a quest’ultimo orientamento, affermando che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del d.lgs. n. 23 del 2015, non è più assistito da un regime di stabilità.

Sulla base di tale premessa, la Corte fissa il principio secondo cui, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 (cioè al 18.07.2012), il termine di prescrizione debba necessariamente decorrere dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, a prescindere dal tipo di tutela applicabile a detti rapporti e dal requisito dimensionale dei rispettivi datori di lavoro.

La nuova impostazione data dalla Cassazione, ha, all’atto pratico, delle evidenti conseguenze nella gestione concreta dei rapporti di lavoro: considerato che, per la generalità dei crediti lavorativi (quali retribuzioni arretrate, differenze retributive, compenso per lavoro straordinario o festivo etc.), il termine di prescrizione è quinquiennale, in caso di rapporti ad oggi ancora pendenti (ovvero cessati da meno di 5 anni, quindi dopo il 10.09.2017) risultano essere prescritti solo i crediti sorti in data antecedente al 18.07.2007 (cioè cinque anni prima dell’entrata in vigore della legge 92/2012). Ciò evidentemente al netto di eventuali atti interruttivi della prescrizione, che chiaramente amplierebbero l’orizzonte temporale e complicherebbero ulteriormente la situazione, imponendo la necessità di un’accurata disanima di ciascun caso al fine di determinare l’effettiva prescrizione o meno dei diritti azionati.

Insomma, l’orientamento fissato dalla Corte di Cassazione con la sentenza 26246/2022 in argomento, se da un lato va letto in un’ottica di semplificazione, in quanto uniforma la decorrenza della prescrizione per tutti i rapporti di lavoro subordinato, dall’altro avrà senza dubbio delle dirette conseguenze sull’attività dei Tribunali del Lavoro e ciò in ragione della notevole estensione temporale delle possibili rivendicazioni e della difficoltà di cause aventi ad oggetto circostanze vecchie di oltre 15 anni.

* Avvocato in Milano – Galbusera & Partners

 

image_pdfimage_print