In assenza dell’informativa ai sensi dell’art. 4 Stat.. Lav., è illegittimo il licenziamento disciplinare del dipendente che insulta il superiore sulla chat aziendale

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di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta*

Una dipendente veniva licenziata dal proprio datore di  lavoro  per  aver  scritto  a  una  collega,  nella  chat aziendale,    contenuti    “pesantemente   offensivi   nei confronti della superiore gerarchica”.

Il Tribunale di Busto Arsizio dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società alla reintegrazione della dipendente.

La Corte d’Appello di Milano, successivamente adita dal datore di lavoro, confermava la pronuncia di primo grado rilevando, fra l’altro, che:

  • la società aveva scoperto la chat “all’esito di un  controllo  effettuato  dal  personale  IT  (tecnico informatico) che doveva verificare – in occasione della   chiusura   della   chat   e   del   conseguente progressivo  suo  abbandono  –  se  vi  fossero  dati aziendali da conservare”;
  • la chat era stata introdotta “anni prima dellassegnazione  a  ciascun  dipendente  di  un indirizzo di posta elettronica e veniva utilizzata per le comunicazioni interne”;
  • le espressioni utilizzate dalla lavoratrice ben potevano  costituire  “uno  sfogo  della  mittente, destinato  ad  essere  letto  dalla  sola  destinataria, privo del carattere di illiceità” e pertanto poteva escludersi un “intento denigratorio.

Il Collegio d’Appello rilevava altresì come l’accesso alla chat da parte del datore di lavoro fosse sì lecito, tuttavia – e ciò è dirimente – “la società aveva omesso di dare la necessaria tempestiva ed adeguata informazione ai dipendentiai sensi dell’art. 4 Stat. Lav.. La comunicazione dell’interruzione del servizio chat, infatti, era stata mandata quando i controlli erano già stati eseguiti e, pertanto, le informazioni reperite dalla Società nell’accesso non avrebbero potuto essere utilizzate ai fini disciplinari.

Peraltro, a detta del Collegio territoriale, i messaggi inviati “potevano essere letti solo dai destinatari” dopo un accesso alla chat eseguito “con password personale. In sostanza, “si trattava di corrispondenza privata svolta in via riservata rispetto alla quale si impone una tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni ai sensi dellart. 15 della Costituzione.

La società proponeva ricorso per cassazione avverso detta pronuncia.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25731 del 22 settembre 2021, ha rigettato il ricorso del datore di lavoro.

Secondo la Suprema Corte, per quanto qui interessa, “la sentenza impugnata ha accertato che era mancata la adeguata informazione preventiva del lavoratore, giacchè la comunicazione aziendale con la quale i lavoratori erano stati informati della soppressione della chat con decorrenza immediata era successiva all’effettuazione dei controlli.

A nulla vale il richiamo della Società a un precedente specifico della Suprema Corte (Cass. 26682/2017) perché, da un lato, riguarda il tema dei cd. controlli difensivi “fattispecie non correttamente introdotta in questo giudizio di legittimità” e dall’altro perché lo stesso afferma “come fatto dalla sentenza impugnata, il principio della necessità, al fine della utilizzabilità dei dati raccolti, della previa informazione dei dipendenti circa le modalità di registrazione dei dati, cioè di un elemento di cui la sentenza impugnata ha accertato il difetto, senza che la relativa statuizione venisse specificamente criticata.

 

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