1

RIFIUTO DEL DIPENDENTE AL TRASFERIMENTO CONTESTATO: LEGITTIMA ECCEZIONE DI INADEMPIMENTO O INSUBORDINAZIONE? LA POSIZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

 

di Paolo Galbusera* e Andrea Ottolina*

Come noto, il trasferimento di sede del dipendente disposto dal datore di lavoro deve essere, ai sensi dell’art. 2103 co. 8 cod. civ., motivato da comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, pena l’illegittimità del provvedimento e il diritto del dipendente trasferito a vedersi riassegnato alla sede di provenienza. A questo proposito, secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, in tema di trasferimento vige la libertà di forma e di conseguenza il provvedimento datoriale non deve necessariamente contenere l’indicazione della relativa motivazione, avendo il datore di lavoro esclusivamente l’onere di allegare e provare le fondate ragioni che lo hanno determinato solo nel caso in cui il dipendente trasferito contesti in giudizio la legittimità del trasferimento.

Ma cosa succede se il lavoratore trasferito, ritenendo il provvedimento privo delle ragioni giustificatrici di cui all’art. 2103 cod. civ., si rifiuti di adempiere all’ordine del proprio datore di lavoro contestandone la legittimità e non si presenti alla sede di destinazione alla data indicata? In casi simili, normalmente, il datore di lavoro a sua volta contesta al dipendente l’insubordinazione e la conseguente assenza ingiustificata e, all’esito del relativo procedimento disciplinare, può decidere di licenziarlo per giusta causa. Ebbene, tale licenziamento è da considerarsi legittimo, oppure il lavoratore ha il diritto di rifiutarsi di adempiere ad un ordine di trasferimento non correttamente motivato?

 

Prima di rispondere alla domanda, va innanzitutto osservato che, secondo la pacifica giurisprudenza in materia, il rifiuto del lavoratore di accettare il trasferimento in una sede diversa da quella originaria in assenza di ragioni obiettive che sorreggano detto provvedimento  è  condotta  inquadrabile  come eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., secondo il quale, nei contratti con prestazioni corrispettive (quale è il contratto di lavoro subordinato), ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie la propria. In questo senso, il provvedimento del datore di lavoro avente ad oggetto il trasferimento di sede di un lavoratore, non adeguatamente giustificato ex art. 2103 cod. civ., integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore può trovare giustificazione proprio in quanto configurabile come eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c.

Quindi, il rifiuto del lavoratore è legittimo?

Ebbene, sul punto nell’ultimo decennio si è verificato un contrasto giurisprudenziale partito dai Tribunali locali e dalle Corti d’Appello e arrivato sino alla Corte di Cassazione: da una parte un orientamento più rigoroso, secondo cui un trasferimento disposto in mancanza delle necessarie ragioni tecniche, organizzative e produttive, giustificherebbe in ogni caso la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, dall’altra un orientamento più ponderato, in base al quale un trasferimento non adeguatamente motivato non legittimerebbe in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione lavorativa.

Un esempio emblematico di questo contrasto interpretativo si è verificato recentemente in una vicenda processuale inizialmente decisa nel senso più rigoroso dal Tribunale di Milano Sezione Lavoro e quindi completamente ribaltata in secondo grado dalla Corte d’Appello.

Nello caso specifico, il Giudice di primo grado era stato chiamato a decidere sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento di una dipendente che, trasferita dal proprio datore di lavoro per ragioni di incompatibilità ambientale ad una sede lavorativa distante una decina di chilometri dalla sede di provenienza, si era rifiutata di adempiere all’ordine di trasferimento contestando la legittimità del provvedimento datoriale e mettendo formalmente a disposizione la propria prestazione lavorativa presso la sede originaria.

Ebbene, all’esito del primo grado di giudizio il Giudice del Tribunale di Milano, esperite le prove testimoniali, aveva accertato l’illegittimità del trasferimento in quanto carente delle relative ragioni giustificatrici e, di conseguenza, aveva dichiarato l’insussistenza della giusta causa di licenziamento. Secondo il Giudice, infatti, il rifiuto della lavoratrice di trasferirsi presso la nuova sede di lavoro, essendo stato preceduto dalla tempestiva contestazione del trasferimento e dall’offerta di prestare la propria attività lavorativa presso la sede di provenienza, non poteva ritenersi integrante un’insubordinazione, in quanto detto trasferimento, seppur di pochi chilometri, era stato disposto per un motivo ritenuto insussistente (Tribunale di Milano, sentenza n. 1079 del 19 aprile 2021, est. Dr.ssa Moglia).

Questa decisione del Tribunale di Milano si inserisce quindi nel solco di quell’orientamento del Supremo Collegio in base al quale l’accertamento dell’illegittimità del trasferimento è in ogni caso condizione da sola sufficiente a fondare l’eccezione di inadempimento da parte del dipendente ai sensi dell’art. 1460 cod. civ. (cfr. Cass. sent. n. 11927 del 16 maggio 2013).

Il datore di lavoro provvedeva tuttavia ad impugnare la sentenza avanti alla Corte d’Appello di Milano, la quale riformava integralmente la decisione del Giudice di primo grado, qualificando il rifiuto della lavoratrice al trasferimento come insubordinazione e le conseguenti assenze come ingiustificate, senza che in tali condotte potesse ravvisarsi il legittimo esercizio di un’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.

Secondola Corte d’Appellodi Milano, infatti, nel valutare la fondatezza dell’eccezione di inadempimento del lavoratore, è necessario procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti, avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse. Per queste ragioni il Collegio, considerata anche la breve distanza delle due sedi di lavoro, dichiarava l’illegittimità del rifiuto al trasferimento opposto dalla lavoratrice, in quanto attraverso tale condotta la stessa lavoratrice, oltre ad omettere la prestazione lavorativa, si era sottratta al potere direttivo e gerarchico del datore di lavoro, con ciò compiendo un atto di insubordinazione (Corte d’Appello di Milano, sentenza 1348 del 21 ottobre 2021, est. Dr.ssa Dossi).

La decisione della Corte di Appello di Milano appena commentata  è  conforme  all’orientamento  del Supremo Collegio secondo cui, anche nell’ipotesi di trasferimento non adeguatamente giustificato, ai fini della valutazione della legittimità del rifiuto opposto dal lavoratore deve essere necessariamente valutata la proporzionalità di tale comportamento rispetto all’inadempimento datoriale, procedendo con un giudizio di comparazione in ordine al comportamento di ambedue le parti, per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile della violazione maggiormente rilevante.

Ebbene, proprio questo orientamento, definito sopra più ponderato, è da ritenersi quello oramai consolidato nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, posto che la Corte di Cassazione ha avuto modo di ribadirlo ancora con due recentissime sentenze, la n. 4404 del 10 febbraio 2022 e la n. 7392 del 7 marzo 2022, in base alle quali in ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 cod. civ., l’inadempimento del datore di lavoro non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore ad eseguire la prestazione, ma dovrà pur sempre essere valutato in relazione alle circostanze concrete, onde verificare se risulti contrario ai principi di correttezza e buona fede.

* Avvocato in Milano