SULLA LEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO DISCIPLINARE INTIMATO AL DIPENDENTE PER FATTI OCCORSI PRIMA DELL’ASSUNZIONE PRESSO IL NUOVO DATORE DI LAVORO

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di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta*

Un dipendente dell’Agenzia delle Entrate veniva licenziato per giusta causa all’esito di un procedimento disciplinare avviato dal datore di lavoro.

La contestazione disciplinare riguardava, in particolare, “fatti antecedenti all’inizio del lavoro presso l’Agenzia” ed era stata redatta dal datore di lavoro “con riferimento alle risultanze del processo penale di primo grado celebrato nei confronti del ricorrente” da cui erano emersi “la percezione di un compenso per lo svolgimento di una certa pratica presso l’INPS” e “l’associazione con altri (un impiegato INPS e una persona del patronato), al fine di ricercare potenziali aventi diritto a prestazioni previdenziali e di proporre loro la presentazione della relativa pratica, con successiva consegna della metà degli arretrati percepiti in caso di esito favorevole”. 

Il dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento a lui intimato innanzi al Tribunale di Salerno che rigettava il ricorso. Successivamente anche la Corte d’appello della medesima città confermava la legittimità del provvedimento datoriale ritendendo “provati entrambi gli addebiti” e “valorizzando vari elementi della vicenda penale anche in relazione alla tematica associativa, chiusasi con la declaratoria di prescrizione del reato”.

Avverso tale sentenza il dipendente promuoveva ricorso per cassazione.

Con la sentenza n. 36461 del 13 dicembre 2022 la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del dipendente.

La Suprema Corte conferma il ragionamento del Collegio territoriale nella parte in cui “ha ritenuto che i comportamenti tenuti dal ricorrente prima dell’assunzione fossero di gravità e natura tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario una volta emersi in epoca successiva all’inizio del rapporto con l’Agenzia delle Entrate”.

Secondo la sentenza in commento la Corte d’appello aveva altresì correttamente precisato come fosse “priva di pregio l’ipotesi di collocazione del lavoratore in attività meno a rischio, sia perché era difficile rinvenirne nell’ambito dell’Amministrazione delle Entrate, sia perché il pericolo di replica di condotte illecite sussisteva a prescindere, avendo il ricorrente posto in essere reati, rispetto a pratiche INPS, pur essendo estraneo a tale ente”.

La Corte di Cassazione esclude, infine, un’asserita sproporzione fra le condotte contestate al dipendente e il provvedimento espulsivo adottato, ritenendo che nella valutazione del Collegio territoriale “l’asse centrale della decisione, sul tema della proporzionalità, è dato dalla gravità dei reati commessi e dall’incidenza dell’accaduto sul rapporto fiduciario”.

Il caso esaminato, ferme le sue peculiarità, è senz’altro interessante perché, pur a fronte di fatti relativi a un diverso e antecedente periodo lavorativo in cui il lavoratore era alle dipendenze di altra azienda e in parte prescritti, la Suprema Corte li ha comunque valorizzati rilevandone l’assoluta gravità e ritenendoli idonei a “ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario” con il datore di lavoro.

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio

 

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