Il lavoro dipendente svolto all’estero dai residenti italiani: disciplina fiscale e contributiva

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di Paolo Soro*

Dopo avere analizzato la disciplina concernente le prestazioni di lavoro dipendente svolte in Italia dai non residenti in un nostro precedente contributo su questa stessa rivista, come necessario corollario, torniamo a occuparci degli aspetti fiscali e contributivi relativi alle prestazioni di lavoro svolte dai dipendenti in Paesi diversi dal proprio Stato di residenza, focalizzando però ora l’attenzione sugli Italiani che operano all’estero. La presente trattazione non si preoccupa di verificare le posizioni tributarie e previdenziali di quei cittadini italiani comandati all’estero in distacco (che pure presentano evidenti affinità), per le quali si rimanda agli specifici approfondimenti già pubblicati.

Legislazione fiscale

Iniziamo subito col ribadire che, anche di fronte a tali situazioni – per così dire – “inverse” rispetto a quelle precedentemente esaminate, il primo obbligo che abbiamo resta quello di verificare le previsioni stabilite nei trattati internazionali di interesse: ossia, l’articolo 15 del modello convenzionale OCSE. In alcuni trattati (esempio: Italia / Irlanda), l’articolo di riferimento è il 14 (Lavoro subordinato); di regola, però, le disposizioni di interesse sono previste nell’articolo 15 del “Model convention with respect to taxes on income and on capital”.

È, infatti, sempre la norma convenzionale a definire, caso per caso, la potestà impositiva dei rispettivi Stati, individuata la quale, andremo poi ad accertare le differenti previsioni delle varie legislazioni domestiche di interesse. A tal proposito, giova ricordare che sostanzialmente gli elementi dirimenti non possono che rimanere i soliti due:

  1. La residenza fiscale
  2. Il luogo di svolgimento del lavoro

Nello specifico, quanto alla prima, abbiamo già avuto più volte modo di precisare come appaia tutt’altro che agevole, in pratica, individuare esattamente il Paese di residenza fiscale del dipendente interessato. Ciononostante, la questione è centrale al fine di determinare il corretto regime tributario a cui andranno assoggettati i compensi percepiti dal lavoratore.

Come noto, i trattati internazionali fanno di regola salve le disposizioni domestiche che definiscono la residenza fiscale dei contribuenti:

“The term ‘Resident of a Contracting Staté means any person who, under the laws of that State, is liable to tax therein by reason of his domicile, residence, place of management or any other criterion of a similar nature”. Ciò potrebbe portare talvolta a trovarsi di fronte a casi di doppia residenza, per dirimere i quali è necessario ricorrere alle “tie breaker rules” stabilite dall’articolo 4 del modello convenzionale. Questione che, nella pratica, può risultare assai lunga e complessa, senza neppure garantire per tutte le fattispecie un risultato finale chiaro e univoco: molto dipenderà dalla concreta volontà (e dal grado di efficienza operativa) delle autorità nazionali coinvolte.

Se stabilire quale sia la residenza fiscale presenta ostacoli particolarmente difficili da superare, non possiamo per contro affermare che il secondo elemento (quello concernente il luogo di svolgimento del lavoro) risulti scevro di problemi.

Invero, specialmente nell’attuale epoca pandemica, il puntuale ricorso allo smart working, inevitabilmente, comporta una modifica del luogo effettivo in cui il dipendente presta il suo lavoro. Va da sé che, allorquando abbiamo a che fare con lavoratori italiani i quali dovrebbero operare all’estero, ma che invece (trovandosi in smart working) svolgono le loro mansioni stando fisicamente in casa – o in altro posto – nella propria nazione, il luogo di effettivo svolgimento del lavoro varia e, di pari passo, è assai probabile si modifichi anche la normativa fiscale applicabile.

Fermo restando che non tutti i trattati recepiscono alla lettera il modello OCSE (questione che ne impone un’attenta verifica caso per caso), partiamo subito con l’analisi completa dell’anzidetta norma convenzionale relativa al lavoro subordinato (articolo 15). Il testo è in generale suddiviso in tre paragrafi:

Paragrafo 1

I salari, le paghe e le altre forme di remunerazione simili ottenute da un residente di un Paese Contraente con riferimento a un contratto di lavoro dipendente, devono essere tassate solamente in quel Paese, a meno che il rapporto di lavoro non sia esercitato nell’altro Paese Contraente. Qualora sia così, tali remunerazioni possono essere tassate nell’altro Paese.

Pertanto, un dipendente italiano deve essere tassato esclusivamente in Italia, a meno che non svolga il suo lavoro – esempio – in Germania. In questo caso, infatti, il dipendente italiano è tassato sia in Germania che in Italia, poiché non è prevista dalla norma una potestà impositiva esclusiva di uno specifico Paese, come invece indicato nella precedente ipotesi (devono essere tassati solamente in quel Paese).

Paragrafo 2

Nonostante le previsioni di cui al paragrafo 1, le remunerazioni ottenute da un residente di un Paese Contraente con riferimento a un contratto di lavoro dipendente svolto nell’altro Paese Contraente, devono essere tassate solamente nel primo Paese, se:

      3. Colui che riceve le remunerazioni è presente nell’altro Paese per un periodo, o per più periodi, non superiori a            183 giorni complessivamente, conteggiati all’interno di dodici mesi consecutivi che hanno inizio o termine nel            corso dell’anno fiscale di interesse; e

    4. Le remunerazioni sono pagate da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell’altro Paese; e

    5. Le remunerazioni non originano da una stabile organizzazione che il datore di lavoro possiede nell’altro Paese. 

Dunque, indipendentemente da quanto stabilito nel primo paragrafo, è di nuovo prevista una tassazione esclusiva italiana nei confronti di un dipendente italiano che svolge il suo lavoro – nel nostro esempio – in Germania, se si verificano tutte e tre le seguenti condizioni (una o due soltanto, non sono sufficienti):

a. Il dipendente italiano è presente in Germania per un lasso di tempo complessivamente non superiore a 183 giorni, tenendo conto che sono validi agli effetti del calcolo tutte le giornate effettivamente trascorse in Germania che ricadano all’interno di dodici mesi consecutivi, computati anche a cavallo di due differenti anni, purché uno di questi due anni sia quello concernente il periodo d’imposta di interesse.

b. Il soggetto che corrisponde le retribuzioni (o per conto del quale le remunerazioni sono corrisposte) non è residente in Germania.

c. Le remunerazioni non sono corrisposte da un soggetto che, pur non essendo residente in Germania, vi ha comunque una stabile organizzazione.

Paragrafo 3

Nonostante le precedenti previsioni di questo Articolo, le remunerazioni ricevute con riferimento a un rapporto di lavoro dipendente svolto a bordo di un’imbarcazione o di un aereo che opera in traffico internazionale, o a bordo di una barca impegnata in operazioni di trasporto nelle vie navigabili interne, possono essere tassate nel Paese Contraente nel quale è situato il luogo di effettiva amministrazione dell’impresa.

In base a quanto indicato nell’Articolo 3 – Definizioni generali – del modello convenzionale, si ricorda che, con l’espressione “traffico internazionale”, si intende: Qualsiasi trasporto mediante imbarcazione o aereo svolto da un’impresa che ha il luogo effettivo di amministrazione in un Paese Contraente, eccetto quando l’imbarcazione e/o l’aereo operano esclusivamente tra località che sono situate soltanto nell’altro Paese Contraente. 

Quindi, indipendentemente da quanto stabilito nei paragrafi 1 e 2, sono prescritte delle eccezioni riguardo al lavoro subordinato svolto dai marittimi e dagli equipaggi degli aerei. Per tali tipologie di dipendenti, secondo la norma convenzionale non rilevano, né l’eventuale superamento dei 183 giorni, né la bandiera della nave o dell’aereo (ossia, il luogo di immatricolazione/registrazione). Occorre, invece, considerare il Paese in cui è situato il “place of effective management” della società proprietaria dei mezzi (imbarcazione / aereo), e se l’operatività degli stessi rientra nella definizione di “traffico internazionale”. In tali ipotesi, i dipendenti saranno tassati sia nel loro Paese di residenza fiscale, che in quello in cui è appunto localizzato l’anzidetto “place of effective management”, poiché, di regola non è prevista la potestà impositiva esclusiva in capo a uno solo dei Paesi contraenti. A tale ultimo riguardo, giova altresì ricordare che, mentre per certe figure lavorative concernenti il personale delle compagnie aeree esiste la possibilità di fare riferimento alle retribuzioni convenzionali anziché alle remunerazioni realmente percepite, la norma italiana non prevede l’utilizzo delle citate retribuzioni convenzionali nel caso del lavoro svolto dai marittimi. D’altronde, questi dipendenti non sono presenti tra le figure di lavoratori per le quali il decreto ministeriale fissa annualmente gli importi di tali retribuzioni.

Per completezza di esposizione è corretto ricordare che taluni trattati in vigore fra Paesi confinanti prevedono, nello stesso Articolo 15, anche un quarto paragrafo afferente ai c.d. lavoratori transfrontalieri.

Da quanto precede, si potranno verificare due situazioni:

– Una tassazione esclusiva in Italia (ovvero, nel Paese estero)

– Una tassazione concorrente in entrambi i Paesi (Italia e Stato estero)

Ogni qualvolta, in base alla convenzione, il dipendente italiano all’estero è soggetto anche alla tassazione italiana, egli dovrà procedere a dichiarare in patria i redditi esteri, applicando il sistema del credito per le imposte già pagate a titolo definitivo all’estero (articolo 165, c. 1, TUIR). In proposito, l’Agenzia delle entrate ha precisato che le imposte estere si considerano pagate a titolo definitivo quando esse non sono ripetibili, o è stata presentata la dichiarazione dei redditi all’estero, o vi è un’apposita certificazione di definitività dell’imposta, rilasciata dalle Autorità estere. Tale attestazione viene rilasciata dal proprio datore di lavoro (sostituto d’imposta) mediante il relativo modello straniero corrispondente alla nostra CU – Certificazione Unica. Peraltro, in nessun caso, il credito da far valere in Italia nel proprio modello reddituale per le imposte versate all’estero potrà comportare una richiesta di rimborso nei confronti dell’Erario nazionale. Attenzione: il credito d’imposta si può far valere solamente nel caso in cui abbiamo una tassazione concorrente in entrambi i Paesi; laddove la convenzione preveda la potestà impositiva esclusiva italiana, il dipendente non può usufruire del credito per imposte che sono state erroneamente pagate all’estero. Ergo, sarà opportuno che il dipendente interessato, all’inizio del rapporto, verifichi bene la propria situazione con il suo datore di lavoro estero, onde evitare di subire un ingiusto prelievo, difficilmente recuperabile in seguito.

Relativamente al quantum da indicare nella propria dichiarazione dei redditi italiani, al di là dell’eventuale credito per le imposte estere, il dipendente, in luogo dei compensi effettivamente percepiti, riporterà le retribuzioni convenzionali nella misura annualmente aggiornata con decreto ministeriale, sempre che il proprio inquadramento lavorativo rientri tra quelli appositamente previsti dal citato decreto (circolare AdE 20/2011). La disposizione, TUIR, articolo 51, c. 8-bis, prescrive che:

“Il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale”.

Come  si  evince  dall’indubbio  tenore  letterale  della norma,  non  si  tratta  di  una  scelta  del  dipendente, ma di un obbligo: “Il reddito è determinato sulla base delle  retribuzioni  convenzionali”.  Ciò,  evidentemente, comporterà sempre un vantaggio per il contribuente, laddove  il  suo  lavoro  sia  svolto  in  Stati  nei  quali  i contratti di lavoro presuppongono dei livelli salariali maggiori rispetto a quelli esistenti in Italia; e, viceversa, nel caso di Paesi con livelli retributivi inferiori a quelli italiani.

La circolare 207/2000 dell’Agenzia delle entrate ha inoltre chiarito che, per quanto concerne il computo dei giorni, rilevano, nel computo del limite dei 183 giorni, i periodi di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi indicati nel contratto, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi.

Da un punto di vista pratico, il reddito di lavoro dipendente svolto all’estero viene indicato nel quadro RC previsto per tutti i redditi di lavoro dipendente, omettendo il codice fiscale del datore di lavoro estero, e avendo cura di evidenziare le giornate di lavoro (dato indispensabile per calcolare le eventuali detrazioni per lavoro dipendente stabilite dalla nostra normativa).

Nel caso di mancata applicazione delle retribuzioni convenzionali, andranno indicati tra i redditi anche eventuali benefit percepiti nel corso dell’anno (da sommare allo stipendio ordinario contrattuale). Per altro verso, rilevano le trattenute subite per contributi previdenziali obbligatori che vanno dedotti dai redditi. A detto ultimo proposito, la CM 17/E del 24.04.2015, paragrafo 4.7, in risposta alle questioni interpretative prospettatele in materia di IRPEF, ha chiarito:

“Tenuto conto che il legislatore ha fissato la disciplina dei contributi distinguendo soltanto i contributi obbligatori versati in ottemperanza a una disposizione di legge da quelli che, invece, tali non sono, si deve ritenere che [ai fini della loro deducibilità] sia irrilevante la circostanza che detti contributi, obbligatori o facoltativi, siano versati in Italia, sempreché le somme e i valori cui i contributi si riferiscono siano assoggettate a tassazione in Italia”. 

Quindi, seguendo le indicazioni fornite dall’Agenzia:

6. È possibile dedurre sia i contributi obbligatori che quelli facoltativi, a patto che facciano riferimento a redditi assoggettati a tassazione in Italia.

7. Nel caso dei contributi obbligatori, questi possono essere direttamente “pre-dedotti” dall’importo del reddito di lavoro dipendente da indicare nel quadro RC.

8. Nel caso dei contributi facoltativi, questi vanno inseriti nel quadro RP (oneri e spese), fascicolo 1 del modello.

Queste deduzioni contributive saranno pacificamente applicabili anche laddove si indichino le retribuzioni convenzionali, posto che l’unica condizione stabilita dalla legge è che tali contributi facciano riferimento a redditi assoggettati a tassazione in Italia.

Altro elemento da considerare potrebbe essere la valuta, nel caso in cui il dipendente svolga il suo lavoro in uno Stato “non-euro”. Occorrerà, evidentemente, verificare il tasso di cambio alla data in cui:

9. Le imposte trattenute dal datore di lavoro estero (sostituto d’imposta) risultano essere state complessivamente definitive, come poi successivamente anche attestato dalla certificazione annuale di competenza;

10. termina l’anno fiscale italiano.

A parere di chi scrive, tale data non può che essere quella del 31 dicembre, posto che anche in Stati (esempio: Irlanda, UK, etc.) dove il fiscal year è a cavallo [01/04 – 31/03], con la certificazione dei redditi emessa ad aprile si va comunque ad attestare quanto corrisposto nell’anno solare corrispondente al nostro anno fiscale. E sono queste le somme che rilevano per il Fisco italiano.

Infine, si ricorda che, nel caso di utilizzo del credito per le imposte versate all’estero, occorre compilare il quadro CE, inserendo negli appositi righi i dati identificativi dello Stato, del reddito e dell’imposta estera. In genere è poi il software (una volta confermato il quadro NR con l’importo del reddito complessivo del contribuente) a effettuare il ricalcolo e definire l’importo del credito d’imposta effettivamente spettante.

Legislazione previdenziale e assicurativa

Ultimata l’analisi fiscale, passiamo a quella previdenziale e assicurativa. Come sempre, le situazioni variano a seconda che abbiamo a che fare con Paesi dell’area euro o comunque legati da accordi internazionali di natura previdenziale e assicurativa con l’Italia (i cui dipendenti godono di garanzie allorquando si recano a svolgere le loro prestazioni lavorative all’estero), rispetto a quelle nazioni prive di convenzioni, presso le quali, viceversa, non esiste di fatto alcuna tutela.

In questi ultimi Stati, vige il principio generale di territorialità (la legge del luogo di lavoro), sia in ottica contrattuale e retributiva, che con riferimento al sistema di sicurezza sociale applicato. Pertanto, il dipendente italiano che viene assunto da un datore di lavoro straniero localizzato in Paesi privi di accordi con l’Italia, dovrà tenere conto del fatto che non potrà far valere i contributi stranieri, trattenuti e versati sulle sue retribuzioni all’estero, né “totalizzare” tali contributi agli effetti pensionistici. Peraltro, resta possibile computare gli anni in questione come periodo di lavoro maturato, a condizione di ricorrere al riscatto volontario e pagare dunque di tasca propria il costo dell’operazione (costo in genere consistente). Nonostante il costo del riscatto è comunque consigliabile presentare la domanda alla sede dell’Inps della propria zona di residenza per conoscere la quantificazione dei costi (operazione facoltativa). La domanda di riscatto può essere parziale e riguardare solo alcuni anni di lavoro svolti all’estero. Il lavoratore deve provare, tramite documenti originali, l’esistenza e la durata del rapporto di lavoro (anche con dichiarazione del datore di lavoro “fatta ora per allora”, purché convalidata dall’autorità consolare italiana), nonché – se fattibile – l’importo della retribuzione percepita. Non è invece possibile avvalersi di prove testimoniali o di dichiarazioni di responsabilità.

Al fine di “totalizzare” i contributi pensionistici, la situazione diviene meno problematica laddove i dipendenti italiani abbiano lavorato nei seguenti Paesi, con i quali l’Italia ha in essere una convenzione di carattere previdenziale:

Argentina – Australia – Brasile – Canada – Capo Verde – Israele – Isole del Canale (Jersey, Guernsey, Aldernay, Herm, Jetou) e Isola di Man – Messico – Paesi dell’ex- Jugoslavia (Serbia, Montenegro, Bosnia Erzegovina, Macedonia) – Principato di Monaco – Repubblica di Corea – San Marino – Santa Sede – Stati Uniti – Tunisia – Turchia – Uruguay – Venezuela.

Normalmente, la totalizzazione internazionale dei periodi assicurativi non comporta il trasferimento dei contributi da uno Stato all’altro, ma consente di utilizzare i contributi maturati all’estero in Paesi convenzionati con l’Italia per raggiungere il diritto alla pensione, purché il lavoratore possa far valere almeno il periodo minimo di assicurazione e contribuzione previsto dalla nostra normativa. I contributi utili ai fini della totalizzazione internazionale sono quelli obbligatori, figurativi (servizio militare, disoccupazione, etc.), da riscatto e da contribuzione volontaria. Si evidenzia che la normativa è applicabile anche per le prestazioni della Gestione Separata.

Alcune convenzioni bilaterali, inoltre, prevedono la c. d. totalizzazione multipla: ossia, la possibilità di sommare i contributi versati in Paesi terzi che risultano legati a loro volta da accordi internazionali sia con l’Italia che con l’altro Stato contraente. La totalizzazione multipla è prevista in particolare dalle convenzioni stipulate con: Argentina – Canada – Capo Verde – San Marino – Tunisia

11.Uruguay; oltre ai Paesi dell’area euro: Spagna – Svezia

12. Svizzera. In dettaglio:

d. La convenzione con l’Argentina è l’unica che permette la totalizzazione internazionale dei contributi con qualsiasi Stato, anche terzo, basta che sia legato da accordi o con l’Italia o con l’Argentina, e non necessariamente con entrambe. In sostanza, in forza della convenzione, la totalizzazione internazionale considera anche i periodi compiuti nell’anzidetto Stato terzo, purché il soggetto interessato abbia la cittadinanza di uno dei due Stati contraenti.

e. La totalizzazione multipla è prevista anche dalla convenzione che era stata stipulata con la Svizzera, che, in quest’ottica mantiene la sua validità anche dopo il 1° giugno 2002, data a decorrere dalla quale detta convenzione è in realtà stata soppiantata dall’accordo siglato tra la Comunità europea e la Confederazione svizzera.

f. Analogamente, anche relativamente a Spagna e Svezia, permane la possibilità della totalizzazione multipla internazionale in forza alla vecchia convenzione bilaterale che legava ciascuno dei due Paesi all’Italia prima che i regolamenti UE venissero ratificati dai governi di tali Stati.

Le fattispecie che invece concernono rapporti di lavoro svolti all’estero, ma all’interno dell’UE, della Svizzera, o degli Stati SEE (Norvegia, Islanda, Liechtenstein), sono disciplinate principalmente dal regolamento CE 883/2004, il quale prevede parità di trattamento e unicità di legislazione applicabile. In tali casi, si ha un coordinamento pressoché integrale di tutti i singoli sistemi di sicurezza sociale e non soltanto dell’eventuale totalizzazione dei contributi pensionistici. Curioso notare che, in base alle differenti ratifiche effettuate a opera dei vari governi, la disciplina si applica tra UE e Svizzera, nonché tra UE e Stati SEE; ma non si applica tra Svizzera e Stati SEE.

Con espresso riferimento al Regno Unito, dallo scorso 29 aprile, è divenuto pienamente operativo il TCA (L 444/14, in Gazzetta Ufficiale UE 31/12/2020) che, seppure ufficialmente non preveda l’automatica ratifica del regolamento CE 883/2004, di fatto ne eredita pedissequamente i principi fondamentali. Analizziamo, allora, le disposizioni del regolamento per quanto di interesse in questa sede. Le norme generali stabilite dall’articolo 11 prescrivono che:

“Le persone che ricevono una prestazione in denaro a motivo o in conseguenza di un’attività subordinata sono considerate come se esercitassero tale attività”.

Più in particolare:

“Una persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro è soggetta alla legislazione di tale Stato membro”.

Oltre che per i dipendenti pubblici, sono però previste regole specifiche per:

13. Marittimi

“Un’attività subordinata svolta normalmente a bordo di una nave che batte bandiera di uno Stato membro è considerata un’attività svolta in tale Stato membro. Tuttavia, la persona che esercita un’attività subordinata a bordo di una nave battente bandiera di uno Stato membro e che è retribuita per tale attività da un’impresa con sede in un altro Stato membro, è soggetta alla legislazione di quest’ultimo Stato membro, se risiede in tale Stato”

14. Personale di volo

“Un’attività svolta dagli equipaggi di condotta e di cabina addetti a servizi di trasporto aereo passeggeri o merci è considerata un’attività svolta nello Stato membro in cui è situata la base di servizio” 

Possiamo quindi concludere che:

g. I dipendenti del settore privato sono soggetti alla legislazione di sicurezza sociale del luogo effettivo in cui svolgono le loro mansioni.

h. Per i marittimi si deve avere riguardo allo Stato di bandiera della nave (che infatti identifica il territorio nazionale); ma, se il datore di lavoro e il dipendente sono entrambi residenti in un altro Paese membro, si applica la legislazione previdenziale di detto ultimo Stato.

  1. Relativamente al personale di volo, si applica sempre la legislazione di sicurezza sociale della nazione presso la quale gli equipaggi hanno la loro base di servizio.

Le ipotesi concernenti i casi di esercizio dell’attività lavorativa in due o più Stati sono regolamentate dall’articolo 13:

La persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta:

  • se esercita una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro, alla legislazione dello Stato membro di residenza; oppure
  • se non esercita una parte sostanziale della sua attività nello Stato membro di residenza:
    • alla legislazione dello Stato membro in cui ha la propria sede legale il datore di lavoro, se è alle dipendenze di un datore di lavoro; oppure
    • alla legislazione dello Stato membro in cui ha la propria sede legale il datore di lavoro, se è alle dipendenze di due o più datori di lavoro aventi la propria sede legale in un solo Stato membro; oppure
    • alla legislazione dello Stato membro in cui il datore di lavoro ha la propria sede legale diversa dallo Stato membro di residenza, se è alle dipendenze di due o più datori di lavoro aventi la propria sede legale in due Stati membri, di cui uno è lo Stato membro di residenza; oppure
    • alla legislazione dello Stato membro di residenza se è alle dipendenze di due o più datori di lavoro, almeno due dei quali hanno la propria sede legale in Stati membri diversi dallo Stato membro di residenza.

In sostanza, la legislazione applicabile è:

1. Quella del Paese di residenza del dipendente, solo laddove risulti essere quello in cui è svolta la parte sostanziale dell’attività (si rammenta che la “parte sostanziale” si verifica con riguardo all’orario di lavoro e alla retribuzione).

2. Quella del Paese di residenza del principale datore di lavoro, negli altri casi.

Previsioni analoghe sono riproposte nel TCA (c. d. “accordo post-brexit”).

Articolo SSC.10 – Norme generali

  • “Una persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato è soggetta alla legislazione di tale Stato”
  • “Un’attività subordinata svolta normalmente a bordo di una nave che batte bandiera di uno Stato è considerata un’attività svolta in tale Stato. Tuttavia, la persona che esercita un’attività subordinata a bordo di una nave battente bandiera di uno Stato e che è retribuita per tale attività da un’impresa con sede legale in un altro Stato è soggetta alla legislazione di quest’ultimo, se risiede in tale Stato”
  • “Un’attività svolta dagli equipaggi di condotta e di cabina addetti a servizi di trasporto aereo passeggeri o merci è considerata un’attività svolta nello Stato in cui è situata la base di servizio”

Articolo SSC.12 – Esercizio di attività in due o più Stati La persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in uno o più Stati membri e nel Regno Unito è soggetta:

15. alla legislazione dello Stato di residenza se esercita una parte consistente della propria attività in tale Stato; o

16. se non esercita una parte consistente della propria attività nello Stato di residenza:

    • alla legislazione dello Stato in cui ha la propria sede legale il datore di lavoro se la persona in questione è alle dipendenze di un datore di lavoro; o
    • alla legislazione dello Stato in cui hanno la propria sede legale i datori di lavoro se la persona in questione è alle dipendenze di due o più datori di lavoro aventi la propria sede legale in un solo Stato; o
    • alla legislazione dello Stato in cui ha la propria sede legale il datore di lavoro diverso dallo Stato di residenza se la persona in questione è alle dipendenze di due o più datori di lavoro aventi la propria sede legale in uno Stato membro e nel Regno Unito, uno dei quali è lo Stato di residenza; o
    • alla legislazione dello Stato di residenza se la persona in questione è alle dipendenze di due o più imprese, almeno due dei quali hanno la propria sede legale in Stati diversi dallo Stato di residenza. 

Come si evince, le disposizioni del TCA ricalcano quelle del regolamento CE 883/2004.

Il successivo articolo (SSC.13) determina, poi, la disciplina in materia di assicurazione volontaria e facoltativa continuata, precisando che, qualora il dipendente:

“Sia soggetto a un’assicurazione obbligatoria in uno Stato in virtù della legislazione di tale Stato, l’interessato non può essere soggetto in un altro Stato a un regime di assicurazione volontaria o facoltativa continuata”. 

Esemplificazioni conclusive

È bene considerare sempre che la disciplina in materia di sicurezza sociale sopra richiamata presenta connotati e peculiarità che si fondano su disposizioni non necessariamente coincidenti con la legislazione tributaria. Ciò porterà inevitabilmente a situazioni che dovranno essere valutate diversamente in ottica fiscale rispetto a quella previdenziale, con riguardo ai Paesi (e di conseguenza alle legislazioni) di effettiva competenza. Per esempio, abbiamo appena visto che in materia di sicurezza sociale, la legislazione applicabile è unica (quanto meno tra Paesi convenzionati in “area euro”). Viceversa, sappiamo che in base alla norma convenzionale, la potestà impositiva è spesso in capo a entrambi gli Stati contraenti.

A conclusione della trattazione, vediamo allora alcune esemplificazioni pratiche.

Francesco, residente in Italia e attualmente disoccupato, ha acquisito il certificato Preliminary B1 di inglese e ha ricevuto un’offerta di lavoro da una banca della “City”. Per il momento è assunto in prova con un contratto a tempo determinato (dal 01/05/2021 al 30/11/2021), ragione per cui ha preferito non iscriversi subito all’AIRE e mantenere attive le sue utenze italiane e il proprio conto corrente, seppure abbia dovuto aprire anche un conto bancario a Londra, dove il datore di lavoro UK gli accredita lo stipendio pari a 5.000 sterline al mese.

In ottica fiscale, Francesco è residente in Italia, ma presta lavoro a Londra. In base all’articolo 15 (paragrafo 1) della convenzione Italia / UK, è soggetto alla tassazione concorrente di entrambi gli Stati. Per cui, dopo aver sopportato le ritenute inglesi sullo stipendio, Francesco dovrà dichiarare e versare le imposte anche in Italia, previo computo del credito d’imposta. Considerato il differente prelievo fiscale, vi saranno di certo ulteriori imposte da pagare all’Erario italiano (nonostante l’applicazione delle retribuzioni convenzionali), che sarebbero state facilmente evitate se Francesco si fosse iscritto fin da subito all’AIRE. Non solo: Francesco è soggetto in Italia anche all’obbligo di monitoraggio (quadro RW) e al pagamento dell’IVAFE, considerato il conto bancario londinese.

In ottica previdenziale, le cose sono differenti. In base all’articolo SSC.10 del TCA, si applica il principio di territorialità (lex loci laboris). Pertanto, Francesco è soggetto esclusivamente alla legislazione previdenziale inglese.

La situazione muta concretamente dal lato fiscale se Francesco, dopo aver lavorato per alcuni anni in Italia ininterrottamente fino al 31 maggio del 2021, si è dimesso, iscritto subito all’AIRE, ed è andato a lavorare a Parigi per conto di un datore di lavoro locale, con contratto avente durata: 01/08/2021 – 31/12/2022.

In ottica fiscale, ferme restando le altre opportune verifiche del caso, Francesco non è fiscalmente residente in Italia nell’anno 2021. Pertanto, a parte le ordinarie ritenute subite sul suo stipendio con riferimento ai primi cinque mesi dell’anno, non avrà ulteriori obblighi tributari in patria. Quanto ai salari francesi, sempre in base alla disposizione convenzionale, per dette remunerazioni vige la potestà impositiva esclusiva della Francia. Inoltre, nessun obbligo fiscale avrà Francesco in Francia con riguardo ai redditi percepiti nel 2021 in Italia, poiché la residenza fiscale francese – come prevede la locale normativa – si considera acquisita solamente a partire dalla data del trasferimento a Parigi (01/08/2021); non per l’intero anno, come invece stabilisce la legge italiana.

Relativamente alla parte previdenziale, quasi nulla varia. Come stabilito nel regolamento CE 883/2004 (articolo 11), Francesco è soggetto alla previdenza francese. Inoltre, considerata la durata del suo nuovo contratto di lavoro, potrà far valere integralmente tali contributi agli effetti pensionistici di fronte all’Inps, una volta rientrato in patria.

*Odcec Roma

 

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