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“GREAT RESIGNATION”: ALLA SCOPERTA DI NUOVI SIGNIFICATI DEL LAVORO

di Giovanni Dall’Aglio*

Il paradosso della navigazione afferma che una maggiore precisione di navigazione, in assenza di miglior distribuzione delle rotte e coordinamento tra imbarcazioni, può comportare un aumento del rischio di collisione.

Questo fatto apparentemente paradossale ci invita a fare delle riflessioni sul ruolo della sicurezza nelle nostre vite (lavorative e non) e di come il perseguimento di sicurezze individuali possa compromettere un concetto più ampio di benessere sociale.

Viviamo in un’epoca di profonde incertezze – storiche, economiche, sociali – e come naturale riflesso ci sentiamo attratti da ciò che maggiormente ci rassicura. Di fronte all’angoscia verso il futuro ci sentiamo rassicurati da un presente fatto di “caselle da riempire” continuamente.

Proiettiamo nel lavoro quella dimensione che ci fa sentire di avere un posto nel mondo, e questo ci rassicura. Non sentiamo il bisogno di chiederci se sia davvero il “nostro” lavoro.

Ci rassicura avere due o tre settimane di vacanza, anche se poi spesso si traducono in ulteriore fonte di “stress da incasellamento” senza minimamente cogliere la magia e la profondità del viaggio.

Ci rassicura avere smartphone che ci inebriano di notifiche su guerra, pandemia, call di lavoro, meteo, senza che davvero ci interessi uno qualsiasi di questi argomenti.

In questo vortice inerziale e fagocitante perdiamo il controllo della vita travolti dagli schemi, finendo col dare al lavoro un ruolo unicamente contrattuale e monetario. Lavoriamo per colmare dei vuoti e per ottenere denaro da usare per colmare altri vuoti. Le sicurezze che abbiamo creato si scontrano così con un senso di continua insoddisfazione che inevitabilmente si ripercuote a livello sociale. Stiamo collidendo.

È in questo contesto che va inquadrato il fenomeno della “Great Resignation” (le grandi dimissioni) che ha investito (e sta investendo tuttora) gli Stati Uniti e il resto del mondo nel post pandemia. Le motivazioni alla base del fenomeno sono molteplici, ma di certo innescate dal periodo di smart-working forzato che ha risvegliato la “coscienza dormiente” di molti lavoratori che hanno preferito fare un passo indietro per ricercare condizioni lavorative forse meno sicure, ma più flessibili e consone al proprio equilibrio e talento.

Quale impatto può avere questo fenomeno (specie se di larga scala) sul sistema – welfare? Rimanendo in tema di metafora navale, questi lavoratori sono come le bolle che si generano su un’elica in cavitazione a causa di una riduzione di pressione (in questo caso è la “pressione lavorativa” a ridursi). Queste bolle possono implodere, creando innumerevoli danni all’elica (sistema – welfare). Ma se la “depressione” si prolunga oltra la superficie dell’elica, questa entra in fase di super-cavitazione aumentandone il rendimento. In altre parole, il fenomeno delle grandi dimissioni, se compreso, può rivelarsi un “booster” sia per imprese che per lavoratori. Le imprese possono contare infatti su lavoratori di talento, che in quanto tali non temono di rinunciare a qualche sicurezza in ottica di guadagnare flessibilità e “cultura del lavoro”. È in fondo questo che chiedono i lavoratori con più competenze, e cioè la libertà di ritagliarsi il proprio spazio senza essere incasellati da pacchetti aziendali precostituiti.

Esiste poi una categoria di lavoratori più “drastica” che preferisce uscire dal mercato per ricercare una dimensione più “umana”. Non c’è da stupirsi di come siano spesso le persone con alta formazione e competenza a fare queste scelte, spesso dopo aver ricoperto ruoli di prestigio. Persone che cercano gratificazione più nella libertà che nello status lavorativo-retributivo. “Chiamarsi fuori” da un sistema che ti ha permesso di ricevere un’alta formazione può sembrare una scelta egoistica, specie in un periodo storico in cui si ragiona su come allungare la vita lavorativa delle persone garantendo welfare a popolazioni sempre più anziane. Ma forse è proprio in considerazione del fatto che l’attuale sistema ci spingerà a lavorare “a lungo” senza grandi garanzie contributive che non possiamo biasimare quei lavoratori che decidono di “uscire” dal mercato e magari grazie ai propri investimenti riescano a ottenere delle entrate che gli attuali sistemi pensionistici non gli potranno garantire.

Dovremmo forse interrogarci sulla necessità di creare un sistema welfare meno assistenziale, spingendo i privati (che possono permetterselo) ad investire su sistemi di coperture integrative, specie in ambito sanitario. Se siamo disposti a spendere 1000 euro per uno smartphone, possiamo farlo anche per una polizza sulla salute.

Il lettore poco attento avrà pensato che il quadro delineato dal presente articolo sia incline a una sorta di “Marxismo 2.0” o di “Decrescita”. Ma è esattamente il contrario. Tecnologia e finanza sono oggi una risorsa imprescindibile a cui dobbiamo attingere. Se declinate a servizio dell’uomo infatti, permettono a chiunque di autodeterminarsi nella forma più consona alle proprie attitudini. Inoltre, prestare attenzione al fenomeno delle grandi dimissioni non significa voler demonizzare la cultura della produttività. Al contrario, è proprio nella ricerca della passione ed espressività nel lavoro come proiezione di sé che è possibile massimizzare la produttività aziendale coniugandola al benessere personale. Ed è ciò a cui aziende e lavoratori devono ambire.

Ladecisionesucomeimpiegareilnostrotempoetalento è tra le scelte più importanti che tutti noi dobbiamo affrontare. Chi ha talento ha l’opportunità di impiegarlo per impattare nella vita degli altri e di riflesso per dare significato alla propria. Dietro al fenomeno delle grandi dimissioni c’è forse un abbraccio a quello che Giovanni Paolo II nell’enciclica “Laborem Exercens” definiva “scoperta di nuovi significati del lavoro umano”.

*Ingegnere e PhD in Trieste