IL DUMPING SALARIALE NEL CONTESTO INTERNAZIONALE: QUESTIONE ETICA, ECONOMICA E NORMATIVA

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di Paolo Soro*

La parola “dumping” deriva dall’inglese “dump” che significa letteralmente “scaricare”. Con tale termine si indica in genere qualunque sistema usato al fine di vendere beni e/o erogare servizi a un prezzo molto inferiore rispetto a quello di mercato. I sistemi adottati possono essere molteplici e variano in relazione ai diversi fattori di produzione. In ogni caso, resta il fatto che, indipendentemente dai metodi utilizzati, il fine che si intende perseguire è sempre illecito. Nella pratica, il dumping risulta essere la principale e più meschina forma di concorrenza sleale, poiché, spesso, viene perpetrato approfittando di lacune normative o acclarate difficoltà operative nell’esperire adeguati controlli.

Per quanto qui di specifico interesse, intendiamo riferirci al c.d. “dumping salariale”, che si verifica ogni qualvolta un soggetto approfitta delle naturali differenze esistenti tra le diverse nazioni (rectius, collettività), al fine di sostenere dei costi inferiori e potersi proporre nel mercato a prezzi minori rispetto a quelli in essere, mantenendo inalterato il proprio profitto (anzi, spesso incrementandolo), a scapito di un indiscriminato sfruttamento del lavoro, così operando in regime di palese concorrenza sleale, come tale repressa e sanzionata anche dal Codice Civile (artt. 2598 – 2601).

Ma prima ancora di analizzare gli aspetti normativi e operativi, considerate le ragioni e gli effetti del dumping salariale, si impongono delle riflessioni di carattere morale che consentano di fornire delle risposte ai seguenti quesiti:

  • Perché il  lavoro  ha  perso  ogni  dignità,  tanto da  essere  ridotto  –  con  politiche  di dumping – a un mero elemento di costo nell’ottica del conseguimento di un indiscriminato profitto?
  • Poiché il  dumping  salariale  risulta  essere  parte integrante   del   sistema   capitalistico   mondiale, può l’economia essere etica, anche in un sistema capitalistico globale come quello attuale?

Per analizzare il primo quesito, senza andare a scomodare Marx, ci limiteremo a ricordare un esemplare fatto di cronaca recentissimo.

Fabbrica GKN in Toscana: il dominus straniero impone l’obbligo di licenziare, chiudere e andare altrove, dove gli stipendi costano meno; non perché l’azienda sia in perdita, ma solo nell’ottica di massimizzare l’attuale profitto. Risultato: 422 dipendenti dello stabilimento di Campi Bisenzio vengono licenziati in tronco con un messaggio su Whatsapp o, al massimo, con una mail.

Il team di avvocati che ha partorito questa boutade e assistito il gruppo multinazionale, ha ricevuto la qualifica di “Studio dell’anno” per il settore del lavoro dalla rivista “Top Legal”, celebrando l’ambito riconoscimento su Facebook:

“Lavoro di squadra, passione e dedizione, questi i valori in cui crediamo e che ci spingono a voler raggiungere traguardi sempre più alti”

In che senso? La prossima volta mirate a cacciarne più di 422?

Ora, a prescindere da qualunque norma di legge o ideologia politica, capite bene che qui siamo di fronte innanzitutto a una generale questione morale che non può essere semplicemente “superata” con la “scusa” del mero profitto. Attenzione: nessuno vuol dire che il lavoro perde la sua dignità laddove l’azienda cerchi di ottenere un profitto; semplicemente, non è accettabile massimizzare indiscriminatamente il profitto a scapito della dignità del lavoro e per di più tramite mezzi illeciti.

Per rispondere al secondo quesito, ci rifaremo a uno dei più grandi economisti di sempre: John Maynard Keynes, il primo a comprendere la globalità e le interconnessioni fra le collettività, portando il ragionamento ed elaborando le teorie economiche in termini di macro-economia.

Secondo Keynes, il capitalismo è un sistema irrazionale (spinto da spiriti animalistici ed egoistici; non certo mosso dalla ragione), che non assicura la piena occupazione nel lungo andare:

  • Nel lungo periodo siamo tutti morti
  • Il mercato può restare irrazionale ben più a lungo di quanto i suoi attori possano rimanere solvibili 

È un sistema ingiusto nel quale gli attori mirano esclusivamente a massimizzare il proprio tornaconto, senza curarsi di null’altro; dunque, è sostanzialmente immorale e, soprattutto, non è in condizione di mantenere le promesse.

Peraltro, avverte Keynes:

– Ancora non sappiamo cosa mettere al suo posto. Per questo va mitigato, assicurando – in talune circostanze – l’intervento dello Stato 

Ossia, è indispensabile avere un complesso normativo internazionale che garantisca un’economia etica (o, se preferite, detto in altri termini: un’effettiva libertà economica per tutti), che non può essere meramente intesa come “laissez-faire”.

In sostanza, dobbiamo sempre partire da un’unica ferrea certezza: la nostra coscienza come fonte di ogni nostra conoscenza in base a cui costruire un “palazzo economico” che possa essere abitato liberamente dagli individui di tutte le collettività. Ovverossia, per semplificare: il libero mercato esiste davvero solo se lo Stato garantisce che venga rispettata la libertà di ogni suo singolo attore.

A questo punto, vediamo cosa stabiliscono le norme in vigore.

L’art. 117 della Costituzione indica innanzitutto la gerarchia delle fonti del diritto:

La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e dagli obblighi internazionali.

Quindi, rispettando la gerarchia delle fonti, partiamo dalla nostra Costituzione, poi abbiamo i regolamenti comunitari e i trattati internazionali, poi le leggi dello Stato.

La Costituzione stabilisce nello specifico all’art. 41 che: L’iniziativa economica privata è libera.

Ma: Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 

Dunque: l’economia è libera, ma non può recare danno alla libertà degli altri singoli individui.

Il dubbio qui è quello di trovarci di fronte al seguente dilemma:

Sono libero o non lo sono? O, meglio, lo sono solo in parte? Ma sono realmente libero se ho dei vincoli? Non c’è contraddizione in questo duplice assioma?

Secondo John Stuart Mill (autore del testo “Sulla Libertà”, nonché universalmente riconosciuto come uno dei maggiori teorici della materia), non esiste la libertà condizionata. È un nonsenso. Un predicato che contraddice il proprio soggetto. Peraltro, all’opposto, parlare di libertà totale, in realtà è un ossimoro: la “libertà totale” di un individuo invade e condiziona la “libertà totale” dei suoi simili. Dunque, non è più libertà, ma solo la scusa per poter fare quello che ci pare, fregandocene dei diritti altrui.

In conclusione: la libertà milliana non ha niente a che vedere con il “laissez-faire”, che è figlio di un’evidente confusione fatta da chi ha voluto trasformare il pensiero di Mill a proprio uso e consumo.

Se tutti fossero liberi di calpestare i diritti del proprio prossimo nel nome di una presunta libera e incondizionata iniziativa economica privata, non ci sarebbe libertà, ma solo la “libertà dei potenti”. Dunque, anche in questo caso, una sorta di condizione che viene aggiunta nel predicato, atta a farci ricadere in una nuova definizione antinomica (seppure per altro verso).

In sostanza, secondo Mill, possiamo parlare realmente di libertà solo se è libertà per tutti.

Il laissez-faire, in qualunque campo applicato, ha creato solo disastri, a incominciare dall’economia, dove i fatti hanno ampiamente dimostrato che i mercati privi di regole non si auto-equilibrano affatto, nemmeno nel lungo termine. Pensare che la libertà non possa essere disciplinata da opportune regole, porterebbe alla sua peggiore degenerazione: un mondo di pura anarchia, dove i più forti sono liberi di privare i più deboli della loro libertà.

Tutti noi siamo concordi sul fatto che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri. Non si tratta di una libertà vincolata o condizionata o relativa, ma solo di un precetto atto a garantire che la libertà sia tale per tutti; ossia, l’unica vera libertà.

Montesquieu, il primo teorico dell’indispensabile separazione dei tre poteri (giudiziario, legislativo ed esecutivo), nel suo saggio scrive: La libertà è il diritto di fare ciò che le leggi permettono. 

Hayek esplicita il pensiero democratico (di matrice platonica) come segue:Governo dai principi del popolo; no, dal potere del popolo. 

Ebbene, libertà e morale sono fra di loro indissolubili: l’una esiste in funzione dell’altra e viceversa (Kant, al riguardo, parla di ratio essendi e di ratio cognoscendi). Senza libertà, si ha il dumping, ossia disuguaglianza, ossia comportamenti non etici; dunque, un mondo privo di morale. E, d’altronde, a voler estremizzare il concetto, se l’uomo non è libero, non può essere nemmeno considerato moralmente responsabile.

Con specifico riferimento al lavoro, di norma, un cittadino straniero può lavorare in Italia per conto di un’impresa nazionale, oppure nella veste di dipendente distaccato da azienda estera.

Nel primo caso (datore di lavoro italiano), evidentemente, non vi possono essere differenze salariali di sorta con qualunque altro dipendente italiano della stessa impresa: appare difficile per il datore di lavoro esimersi dall’applicare la normativa domestica (con qualche eccezione, come nel caso del Caporalato, di cui diremo oltre).

Nel secondo caso (datore di lavoro distaccante estero), viceversa, le norme che impongono il principio generale della lex loci laboris potrebbero risultare di difficile applicazione pratica in funzione del Paese di provenienza.

Vale a dire:

A) I ventisette Stati dell’UE, la Svizzera e le nazioni

dello Spazio Economico Europeo (Norvegia,

Islanda e Liechtenstein)

B) I Paesi extra-UE (convenzionati o non convenzionati)

Per quanto riguarda la fascia A), l’Accordo sulla libera circolazione dei lavoratori, in vigore dal giugno 2002, conferisce:

Il diritto di ingresso, di soggiorno e di accesso a un’attività economica dipendente, il diritto di stabilimento quale lavoratore, e il diritto di rimanere sul territorio, garantendo le stesse condizioni di vita, di occupazione e di lavoro di cui godono i cittadini nazionali; in particolare, in materia di: retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato. 

Il lavoratore (e i membri della sua famiglia) godono degli stessi vantaggi fiscali e sociali dei lavoratori nazionali (e dei membri delle loro famiglie). 

I cittadini di una Parte contraente che soggiornano legalmente sul territorio di un’altra Parte contraente, non sono oggetto, nell’applicazione di dette disposizioni, ad alcuna discriminazione fondata sulla nazionalità. 

Come si vede, il contenuto riprende quanto già sancito dalla nostra tanto vituperata Costituzione (i cui principi risultano essere stati fatti propri anche successivamente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo).

Sempre in ottica comunitaria, le regole in merito ai lavoratori stranieri distaccati all’interno dell’UE nell’ambito di una prestazione di servizi, sono state disciplinate per ultimo dalle:

  • Direttiva 96/71/CE
  • Direttiva 2014/67/UE

A tal riguardo, l’Italia ha recepito tali normative comunitarie con, rispettivamente:

  • lgs. 136/2016   (e   successivo  DM  10   agosto 2016)
  • lgs. 122/2020     (che    concerne    anche    i lavoratori   somministrati)

Non tragga in inganno il fatto che trattasi – come detto – di disposizioni UE: tali regole, invero, riguardano anche i lavoratori extra-UE (vale a dire, quelli appartenenti alla predetta fascia B) che fanno il loro ingresso in uno qualunque degli Stati membri.

Le anzidette norme mirano a evitare le disuguaglianze salariali, al fine di combattere ogni

potenziale forma di dumping, prescrivendo (nello specifico, per quanto riguarda l’Italia) obblighi di:

  • Preventiva segnalazione
  • Nomina referente/rappresentante locale
  • Periodi massimi di lavoro e minimi di riposo
  • Durata minima delle ferie annuali retribuite
  • Tariffe minime  salariali  (paga  base,  elemento distinto     della     retribuzione,     anzianità     di servizio,  superminimi,  retribuzioni  per  lavoro straordinario,   indennità   contrattuali,      in base ai Ccnl del settore)
  • Salute, sicurezza e igiene sui luoghi di lavoro
  • Non discriminazione tra uomo e donna
  • Tutela lavoro minorile
  • Contratto di lavoro e documentazione nella lingua locale

Appare imprescindibile garantire che i dipendenti stranieri provenienti da Paesi che hanno livelli salariali inferiori, lavorino a condizioni paritetiche rispetto a quelle previste per i dipendenti locali occupati a svolgere medesime mansioni.

La ratio che ha spinto il legislatore la ritroviamo altresì nel principio del c.d. “Nexus Approach” – approccio di nesso/inerenza – di matrice OCSE (Action 5 – BEPS: Base Erosion and Profit Shifting), adottato in campo fiscale.

La disposizione in parola interviene a garantire la connessione tra i ricavi e i costi che li originano e, più in generale, al fine di assicurare che un imprenditore, il quale opera in differenti Paesi, paghi le imposte proporzionalmente alla quantità di reddito prodotto in ciascuno Stato. Ebbene, senza bisogno di essere degli esperti di economia, è evidente a tutti che analogamente anche il costo del lavoro, come qualunque altro connesso fattore economico, debba essere commisurato e applicato al mercato (e, dunque, al territorio / collettività) in cui viene reso.

Peraltro, da un lato, l’apparato sanzionatorio appare di difficile attuazione pratica nei confronti di un datore di lavoro distaccante estero (specie se extra- UE) e dall’altro non è affatto pacifica l’applicazione di sanzioni pure in capo al datore di lavoro distaccatario italiano, se è stato previamente accertato che siamo comunque di fronte a un’ipotesi di distacco c.d. “genuino”.

Ora, capite bene che, pensare di porre rimedio a queste storture facendo appello alle normative e intraprendendo un percorso di carattere giudiziario sembrerebbe quanto meno utopistico; ciò non fosse altro perché, al di là dei costi esorbitanti, prima anche solo di capire quale sia l’Autorità competente per ogni specifica fattispecie, un’azienda farebbe in tempo a chiudere i battenti; i vantaggi illeciti (e, per contro, i danni) avrebbero già avuto materiale esecuzione, con ardue effettive possibilità di rivalsa.

Facciamo un esempio pratico attuale, assai frequente nel settore edile (specie dopo i recenti crediti legati al “Superbonus”).

Una società albanese apre una stabile organizzazione in Italia e vi distacca i suoi dipendenti dall’Albania. Lavora in Italia in palese regime di concorrenza sleale, applicando i salari – assai più bassi – albanesi, anziché quelli locali italiani (dumping salariale). Se e quando viene controllata e sanzionata, chiude baracca e burattini e leva le tende portandosi in patria i profitti illecitamente conseguiti in Italia.

Di fronte a tali comportamenti, appare privo di qualunque efficacia comminare delle sanzioni che resteranno sicuramente non saldate: l’Autorità italiana non ha alcun potere sanzionatorio nei confronti di un’azienda che ha sede in Albania; può solo darne comunicazione alle Autorità straniere, conseguendo effetti sostanzialmente ridicoli.

Intendiamoci, a scanso di equivoci, giova rappresentare che problematiche analoghe le ritroviamo anche in uscita (esempio: lavoratori italiani che vanno in Svizzera).

La Svizzera è una meta particolarmente ambita perché i loro Ccl (Contratti Collettivi di Lavoro) prevedono stipendi molto alti. Nella classifica dei salari minimi stilata dall’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), la Confederazione elvetica si trova nettamente in testa, con retribuzioni in media quasi triple rispetto a quanto normativamente previsto nei principali e più importanti Paesi UE (come: Germania, Francia e Italia). Il costo della vita in Svizzera è sicuramente assai più elevato rispetto alla media italiana; ma non quanto lo sono gli stipendi.

Peraltro, le apparenze a volte ingannano: il “lavoro nero” esiste anche in Svizzera (eccome!). Dumping salariale, ore supplementari, attività professionali non autorizzate; tante persone, specie provenienti dall’estero, sgobbano per un salario da fame e in pessime condizioni; impiegate soprattutto in: saloni di bellezza, ristoranti, cantieri e parchi eolici.

Insomma, quando si tratta di massimizzare i profitti, anche per l’austera e rispettosa Svizzera vale il detto: tutto il mondo è paese! Per quanto, occorre riconoscerlo, le denunce dei lavoratori ai sindacati locali e le conseguenti ispezioni delle Autorità, in proporzione, sono assai più numerose nella nazione rossocrociata, rispetto a quanto accade nei nostri lidi.

Ecco allora che si pone un problema etico di fondo che può essere risolto solo da persone morali. Ma gli attori che agiscono nel mercato, sono davvero delle persone morali? Evidentemente, no; in caso contrario non avremmo questi problemi.

Giova ribadire che il concetto di libero mercato non è amorale fine a sé stesso: è piuttosto l’assoluta mancanza di responsabilità morale degli attori ivi operanti che provoca queste degenerazioni, approfittando del fatto che le regole risultano essere concretamente inefficaci al lato pratico.

Inutile scaricare le colpe sugli altri: sui dipendenti albanesi che accettano queste condizioni… sullo Stato italiano che consente loro di lavorare perpetrando politiche di dumping… etc. Se questi soggetti vendono, qualcuno compra… e non sono certo i loro compatrioti.

Un nostro ipotetico cliente triestino che protesta per la concorrenza sleale dell’azienda slovena che produce gli stessi beni a un prezzo inferiore, sfruttando le disuguaglianze salariali, si pone lo stesso problema quando acquista magari gli arredi del suo ufficio a un prezzo inferiore da un’azienda slovacca che perpetra identiche politiche di dumping nei confronti di altri mobilifici italiani?

Non ci risulta… e badate, le conseguenze del dumping vanno ben oltre un mero problema salariale, ma investono importantissimi temi di carattere sociale-globale.

Pensiamo per un attimo alle nefandezze create col sistema del “Caporalato”: ossia, lo sfruttamento dei lavoratori approfittando del loro stato di bisogno.

Il fenomeno ormai coinvolge sia il Nord che il Sud Italia, non riguarda più solo il settore agricolo, ma è presente in maniera assai rilevante in svariati comparti (trasporti, logistica, industria tessile, grande distribuzione e altro), coinvolgendo anche lavoratori italiani. L’obiettivo è sempre lo stesso: fare profitto “ridicolizzando” il prezzo di prodotti e servizi offerti, a scapito dei salari dei lavoratori.

Per mantenere il permesso di soggiorno, i migranti preferiscono continuare a lavorare con contratti fasulli che permettono loro di rinnovare i documenti ma, allo stesso tempo, il salario non copre la reale quantità di ore lavorate. Spesso e volentieri, i lavoratori che non hanno un contratto regolare pagano pure di tasca loro per una falsa CU e poi chiedono il rinnovo del permesso di lavoro.

Tuttavia, casi di sfruttamento si sono verificati anche in situazioni di lavoro “regolare”. I datori di lavoro firmano un contratto con i lavoratori, ma nella busta paga viene indicata solo una piccola parte del lavoro svolto – esempio, 20 ore alla settimana, quando, in realtà, i dipendenti lavorano fino a 50 ore – oppure, in altri casi, il “caporale” e/o lo “sponsor” si riprende parte dello stipendio direttamente dal lavoratore (c.d. “lavori grigi”).

Le sanzioni previste sono particolarmente elevate dal lato amministrativo oltre a configurare gravi fattispecie di reato. Appare oggettivamente difficile scoprire tali illecite situazioni di lavoro, nel caso in cui i diretti interessati non provvedano a denunciarle; cosa alquanto rara, considerate le continue condizioni di estorsione, la paura di perdere il lavoro, l’obbligo di ripagare il debito, la mancanza di documenti regolari e l’estrema povertà.

Volendo, in sede di conclusioni, schematizzare sinteticamente tutte le situazioni descritte, potremmo raffigurare la seguente “catena”: da una distorsione della libertà nasce il laissez-faire; dal laissez-faire nascono le varie degenerazioni, quali: dumping, caporalato e disuguaglianze in generale.

A questo punto, qualcuno si chiederà perché esporre simili tematiche in una rivista indirizzata ai commercialisti. Cosa potremmo/dovremmo fare noi, attori del sistema economico, per combattere il dumping?

Ebbene, noi commercialisti (come prevede il nostro Codice Deontologico) dobbiamo:

  • Osservare  principi     e     doveri     a     tutela dell’affidamento della collettività
  • Agire nell’interesse pubblico
  • Rispettare e     osservare     leggi,     norme     e regolamenti
  • Agire con integrità, onestà e correttezza, senza fare discriminazioni di nazionalità
  • Denunciare quei colleghi che non rispettano le regole stabilite dal Codice Deontologico

Dunque, le norme ci sono anche per quanto ci riguarda. Forse, le dimentichiamo?

Abbiamo tirato in ballo più volte termini come “Etica” e “Morale”. State tranquilli, non lo abbiamo fatto perché, oggi, va di moda: il lavoro etico… le imprese eticamente sostenibili… l’etica professionale…

Piuttosto, perché siamo convinti che tutti quanti dovremmo eseguire una profonda analisi riflessiva e agire in modo ragionevole, pur rispettando il perseguimento di un lecito interesse economico. Agire per profitto, di per sé, non implica agire immoralmente; ma la libertà economica di mercato non deve essere una scusa per un generalizzato laissez-faire il cui beneficio cambia a seconda dei propri interessi.

Il principio di fondo è sempre lo stesso: agire moralmente significa agire razionalmente, conseguendo il profitto; non, perseguendone una sua indiscriminata massimizzazione a scapito della libertà altrui e a costo di mortificare e svilire il lavoro.

Ma cosa vuol dire, agire moralmente?

E’ necessario che siano prima di tutto morali le intenzioni. Per Kant, non è tanto importante l’azione che un uomo compie (Esempio: ha trovato un portafoglio e ne cerca il legittimo proprietario che lo ha perduto) quanto, piuttosto, la motivazione che lo spinge ad agire così (Esempio: Ritiene ingiusto appropriarsi di qualcosa che appartiene ad altri (morale) oppure una telecamera lo ha filmato mentre lo raccoglieva e ha paura della pena (amorale)).

In sostanza, la domanda da porsi è sempre la stessa:

– Rispettiamo la legge perché riteniamo sia giusto rispettarla o perché abbiamo paura della sanzione?

Solo nel primo caso siamo esseri morali; nel secondo, no!

A questo punto, il discorso sull’etica potrebbe ampliarsi, ponendo un secondo conseguente inevitabile quesito:

– Un essere morale rispetta la legge anche quando questa contiene oggettivi precetti immorali?

Esempi classici: il soldato cui viene impartito di uccidere un suo simile; il boia che esegue la condanna alla pena di morte; etc.

Ma andremo un po’ troppo “fuori tema”. Meglio fermarsi qui…

*Odcec Roma

 

 

 

 

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