L’ACCERTAMENTO E LA LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE DEL CREDITO PECUNIARIO DEL LAVORATORE PER DIFFERENZE RETRIBUTIVE:

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PROBLEMATICHE FISCALI E CONTRIBUTIVE NELL’ADEMPIMENTO E NELLA RESTITUZIONE
DELLE SOMME PROVVISORIAMENTE EROGATE IN ESECUZIONE DI SENTENZA
di Alberto Checchetto*

Nell’ambito dei giudizi di accertamento promossi dai lavoratori dipendenti al fine di ottenere delle differenze retributive maturate nel corso del rapporto, così come con riferimento alle retribuzioni corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore reintegrato a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento, sono da sempre emersi numerosi dubbi interpretativi, sia con riferimento alla gestione dell’aspetto fiscale, sia in merito alle trattenute contributive a carico del dipendente.

In particolare, il presente intervento si soffermerà su due questioni specifiche sulle quali la Giurisprudenza ha avuto modo di esprimersi anche recentemente:

a) se, nel caso di corresponsione di somme per differenze retributive a seguito di sentenza di condanna o per retribuzioni corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore reintegrato a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento, debbano operarsi le trattenute per contributi previdenziali a carico del dipendente;

b) se la restituzione delle somme corrisposte a titolo retributivo in forza di una sentenza di condanna, poi riformata, totalmente o parzialmente, debba essere quantificata al netto o al lordo delle ritenute fiscali.

È principio ormai consolidato che l’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive debbano essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore (cfr. Cass. n. 19790/2011, Cass. n. 3525/2013, Cass. n. 21010/2013).

La problematica che si pone, dal lato pratico, attiene all’esecuzione della sentenza di condanna che dispone il pagamento da parte del datore di lavoro al lavoratore di un importo lordo a titolo retributivo.

Sono casi tipici il giudizio per l’accertamento delle differenze retributive maturate in anni precedenti per superiore inquadramento o maggior ore di lavoro straordinario, ovvero la condanna alla corresponsione delle retribuzioni medio tempore maturate a seguito della declaratoria di illegittimità del licenziamento.

Con riferimento alle somme lorde riportate nel provvedimento giudiziale, la Giurisprudenza si è interrogata in particolare sulle sorti delle trattenute contributive a carico del dipendente che, nel caso ordinario del rapporto di lavoro, vengono mensilmente operate dal datore di lavoro, contabilizzandole nel prospetto paga versandole all’Inps unitamente alla contribuzione a carico dell’azienda.

L’origine del contenzioso è da ricercarsi in taluni casi nei quali il datore di lavoro, nell’ottemperare alla sentenza di condanna, aveva di fatto gestito l’importo lordo a titolo retributivo al pari della gestione ordinaria in costanza di rapporto, vale a dire applicando sulla somma le trattenute previdenziali a carico del dipendente, al fine di versarle all’Inps, ed erogando al creditore l’importo netto epurato di tale trattenuta.

La Suprema Corte, anche con ordinanza n. 12708 del 25.6.2020, ha ribadito un orientamento contrario a tale impostazione stabilendo che le retribuzioni corrisposte dal datore di lavoro al lavoratore reintegrato a titolo di risarcimento, devono essere erogate al lordo (e non al netto) delle quote di contribuzione a carico del lavoratore.

Ugualmente, sempre la Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 23071 del 2021 ha ribadito l’illegittimità della trattenuta a carico del dipendente motivando che

“ai sensi degli artt. 19 e 23 della legge n. 218/1952, il datore di lavoro può legittimamente operare la ritenuta solo se corrisponde tempestivamente all’ente previdenziale la quota retributiva a carico del lavoratore. Qualora, invece, il pagamento avvenga in ritardo, rispetto ai termini imposti dal rapporto previdenziale, la ritenuta non è consentita, perché in tal caso «il credito retributivo si estende automaticamente alla quota contributiva a carico del lavoratore, che diviene perciò parte della retribuzione a lui spettante» (cfr. Cass. n. 18897/2019; Cass. n. 25956/2017; Cass. n. 23426/2016, Cass. n. 18044/2015 e Cass. n. 19790/2011).

Con tale pronuncia, la Corte ha avuto modo di precisare che, ai fini della tempestività del versamento, non rileva la data della pronuncia giudiziale che accerta il diritto alle differenze retributive, bensì quella in cui il diritto stesso è maturato (Cass. n. 22379/2015). L’inadempimento, infatti, sorge al momento del mancato pagamento degli importi dovuti e l’intervento del Giudice che lo accerta, condannando il datore ad effettuare la prestazione non correttamente adempiuta, non è idoneo a differire il termine a partire dal quale l’obbligazione contributiva, connessa a quella retributiva, deve essere adempiuta.

In sostanza, in caso di pagamento in ritardo delle retribuzioni, quale quello conseguente all’accertamento giudiziale delle differenze dovute, il credito retributivo si estende automaticamente alla quota contributiva a carico del lavoratore, che diviene perciò parte della retribuzione a lui spettante (Cass. n. 18897/2019; Cass. n. 25956/2017; Cass. n. 23426/2016, Cass. n. 18044/2015 e Cass. n. 19790/2011).

Il fulcro dell’orientamento è da ricercarsi nell’art. 19 della legge n. 218/1952 il quale limita il diritto di ritenuta del datore di lavoro al solo caso di tempestivo pagamentodellacontribuzioneacaricodeldipendente, escludendo la decurtazione dalla retribuzione dovuta in ogni caso di pagamento parziale o ritardato dei contributi, ivi compresa, quindi, l’ipotesi in cui ad essere pagati in ritardo siano insieme la retribuzione ed i contributi ad essa riferiti.

(“art. 19. Il datore di lavoro è responsabile del pagamento dei contributi anche per la parte a carico del lavoratore qualunque patto in contrario è nullo. Il contributo a carico del lavoratore è trattenuto dal datore di lavoro sulla retribuzione corrisposta al lavoratore stesso alla scadenza del periodo di paga cui il contributo si riferisce.”)

Tale impostazione diviene ulteriormente penalizzante per il datore di lavoro il quale, a fronte di una sentenza attuale di condanna emessa con riferimento alle differenze retributive, che potrebbe abbracciare anche un periodo sensibilmente lungo, assume un maggiore onere, costituito comunque dalla quota contributiva a carico del dipendente che deve corrispondere, a suo carico, direttamente all’Inps quale conseguenza del ritardo datoriale del pagamento delle retribuzioni all’epoca maturate dal lavoratore.

Quindi, in caso di omesso o tardivo pagamento dei contributi, il datore di lavoro è tenuto a pagare i contributi non versati anche per la quota a carico del lavoratore, non potendo rivalersi nei suoi confronti.

Ulteriore questione si pone, invece, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro, che abbia corrisposto una somma per differenze retributive al lavoratore, ottenga una sentenza di riforma che ne disponga la restituzione.

L’articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir, prevede l’applicazione della tassazione separata in caso di erogazione di “emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti, compresi i compensi e le indennità di cui al comma 1 dell’art. 50 e al comma 2 dell’art. 49”.

La tassazione separata prevista per gli arretrati dall’articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir costituisce una modalità di tassazione del reddito di lavoro dipendente, finalizzata ad evitare che, nei casi di redditi percepiti con ritardo rispetto alla loro maturazione avvenuta in periodi d’imposta precedenti, il sistema della progressività delle aliquote possa determinare un pregiudizio per il contribuente, con una lesione del principio di capacità contributiva.

Il problema posto all’attenzione della Giurisprudenza è se le somme in restituzione debbano essere restituite al lordo o al netto delle ritenute fiscali.

Tale aspetto è stato di recente ulteriormente esaminato dalla Suprema Corte la quale, con l’ordinanza 27 giugno 2022 n. 20610, ha stabilito che in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto ex tunc dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui è sorto ricade nel raggio di applicazione dell’art. 38, comma 1, del d.p.r, n. 602 del 1973, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento.

Ulterioreconfermaditaleorientamentopuòindividuarsi nel d.l. 34/2020, il quale, con l’art 150 (Decreto Rilancio), ha introdotto il comma 2-bis all’art 10 del Tuir che prevede un ulteriore modalità di restituzione, appunto “al netto” delle ritenute a suo tempo trattenute e versate generando contestualmente alla restituzione – in capo al sostituto d’imposta – un credito d’imposta pari al 30% della somma netta restituita.

La previsione si applica alle somme restituite dal 1° gennaio 2020, pertanto per i rapporti pregressi il datore di lavoro può procedere al recupero delle ritenute versate nelle casse erariali mediante la presentazione dell’istanza di rimborso di cui all’art. 38 d.p.r. n. 600/1973.

L’art. 150 deld.l. n. 34/2020 hainfattimodificatol’articolo 10 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, lasciando invariata la lettera d-bis) che regola la restituzione delle somme al soggetto erogatore al lordo delle ritenute subite nel momento in cui sono state percepite, ma ha introdotto la possibilità di corrispondere l’importo effettuando il calcolo al netto delle ritenute.

La stessa Agenzia delle Entrate con la circolare n.8/E del 14 luglio 2021, nello stabilire le modalità di ripetizione, proprio al fine di scongiurare contenziosi tra datori di lavoro e dipendenti tenuti alla restituzione delle predette somme, ha precisato che la restituzione al “netto” della ritenuta può avvenire nell’ipotesi in cui le somme da restituire siano state assoggettate a qualsiasi titolo a ritenuta alla fonte e tale disposizione trova applicazione anche in caso di restituzione di somme assoggettate a imposta sostitutiva.

Anche in questo caso, fermo restando ormai sul punto l’orientamento consolidato della Giurisprudenza, si consenta una breve osservazione.

Nell’impianto tributario il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 64 d.p.r. n. 600/1973, opera in qualità di sostituto d’imposta, ovvero è obbligato al pagamento delle imposte in luogo del dipendente, il quale rispetto all’Erario è il soggetto sostituito.

Per effetto di tale impianto, è pacifico che l’obbligato principale verso il fisco sia il percettore del reddito imponibile e non il sostituto d’imposta, che in questo caso è il datore di lavoro, che effettua la ritenuta e il successivo versamento.

Tanto è vero che il lavoratore è tenuto a dichiarare i propri redditi lordi nei confronti dell’Erario, avendo la possibilità di recuperare attraverso la dichiarazione dei redditi l’importo delle ritenute versate per suo conto dal datore di lavoro sostituto d’imposta.

Ora, venendo all’orientamento della Suprema Corte, se è pur vero che la corresponsione delle somme al lavoratore avviene al netto delle ritenute fiscali, e quindi il lavoratore non percepisce le somme lorde trattenute alla fonte dal datore di lavoro, il lavoratore stesso mantiene la possibilità di recuperare tali somme nella propria dichiarazione dei redditi, nella quale l’importo delle ritenute rappresenta un credito che viene utilizzato in diminuzione dei debiti dichiarati e l’eventuale eccedenza può essere compensata con altri debiti oppure chiesta a rimborso.

Astrattamente, pertanto, se è pur vero che la parte lorda non viene materialmente percepita dal lavoratore, è altrettanto vero che in qualche modo entra a far parte del suo patrimonio per effetto della gestione fiscale.

*Avvocato in Venezia

 

 

 

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