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“PARI VALORE” della prestazione e diversa retribuzione : per la discriminazione di genere non c’è ancora il vaccino

di Giada Rossi*

Il mondo del lavoro è stato storicamente connotato da un forte divario nelle retribuzioni fra donne e uomini, distanza che purtroppo, nonostante una normativa protezionistica tesa a garantire al lavoro femminile un trattamento paritario, anche dal punto di vista salariale, rispetto ai colleghi uomini, ancora oggi persiste.

La Carta Costituzionale, all’art. 37, sancisce che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore, e ciò in virtù del più generale principio di eguaglianza espresso nell’art. 3, di cui il diritto alla parità di trattamento – anche salariale – costituisce una specificazione, con diretti riflessi anche sull’autonomia privata.

Nello stesso senso, la previsione dell’art. 28 del Codice delle Pari Opportunità – decreto legislativo 23 gennaio 2006 n. 28-, in forza del quale è vietata qualsivoglia discriminazione, diretta e indiretta, concernente un qualsiasi aspetto o condizione salariale, in relazione ad “uno stesso lavoro” o ad “un lavoro al quale è attribuito un valore uguale”; la medesima norma, al successivo comma, impone criteri comuni fra uomini e donne nell’adozione dei sistemi di classificazione professionale ai fini della determinazione delle retribuzioni.

Tali principi, di dignità sociale, valicano i confini nazionali e trovano espressione anche nel diritto dell’Unione Europea, in primis nell’art. 157 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), in riferimento al quale è stata adita la Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella causa C-624/19, decisa con la recente sentenza del 3 giugno 2021.

Il caso: la Tesco Stores, società operante nella vendita al dettaglio e che dispone di 3.200 punti vendita dislocati nel Regno Unito, impiegando complessivamente circa 250.000 lavoratori retribuiti a tariffa oraria, nonché di una rete di distribuzione con circa 11.000 ulteriori lavoratori, è stata convenuta in Giudizio, dinanzi al Tribunale del Lavoro di Watford (Regno Unito), da propri dipendenti ed ex dipendenti che lamentavano la violazione del principio di parità di retribuzione per uno stesso lavoro, in spregio all’Equality Act 2010 (legge britannica in materia di parità di trattamento) nonché all’articolo 157 TFUE.

Nello specifico, le ricorrenti hanno lamentato, per quanto qui interessi, una discriminazione nella retribuzione, nonostante il pari valore del loro lavoro e di quello dei colleghi di sesso maschile, impiegati presso i centri di distribuzione o presso stabilimenti diversi, comunque riconducibili alla Tesco Stores.

La società ha contestato il diritto delle ricorrenti al raffronto con i lavoratori di sesso maschile, evidenziando come secondo la legislazione britannica le condizioni di lavoro non possano essere definite comuni ed eccependo, in ogni caso, che l’articolo 157 TFUE non abbia effetto diretto nell’ambito di azioni fondate su “un lavoro di pari valore”.

La datrice di lavoro ha infatti sostenuto che il criterio del “lavoro di pari valore”, a differenza di quello relativo ad “uno stesso lavoro”, deve essere precisato da disposizioni di diritto nazionale o del diritto dell’Unione. Per suddetta ragione, la società sostiene che l’articolo 157 TFUE non possa avere efficacia diretta in circostanze nelle quali i lavoratori messi a confronto svolgano un diverso lavoro, in assenza di più specifiche disposizioni legislative.

La Corte britannica ha sottoposto all’attenzione della Corte di Giustizia Europea l’esame circa la concreta applicazione della disposizione del TFUE, e precisamente: 1) Se l’articolo 157 [TFUE] possa essere invocato quale norma ad efficacia diretta nelle azioni basate sul fatto che i ricorrenti svolgono un lavoro di valore pari a quello dei lavoratori con cui viene effettuato il raffronto; 2) In caso di risposta negativa alla prima questione, se il criterio dell’unica fonte per la comparabilità di cui all’articolo 157 [TFUE] sia distinto dalla questione del pari valore del lavoro e, in tal caso, se tale criterio abbia efficacia diretta.

La Corte di Giustizia ha primariamente preso in esame il tenore letterale dell’articolo 157 TFUE, secondo cui:

  1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari
  2. Per retribuzione si intende, anormadelpresente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.

La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica: [..] b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro. [..]. 

A parere della Corte del Lussemburgo, il dato testuale, chiaro ed inequivoco, non può lasciar dubbi circa l’“obbligo di risultato” facente capo ad ogni Stato membro, quindi l’effettiva necessità di garantire la parità di trattamento salariale fra lavoratori e lavoratrici, tanto nel caso in cui sia svolto il medesimo lavoro, quanto nel caso in cui vengano svolti lavori “di pari valore”.

La norma de qua infatti, secondo la costante giurisprudenza della Corte, ha carattere imperativo e produce effetti diretti, creando, in capo ai singoli, diritti che i giudici nazionali hanno il compito di tutelare.

La necessità che uno stesso lavoro e/o un lavoro a cui è attribuito pari valore venga retribuito nella stessa misura, indipendentemente dal sesso del soggetto che lo svolge, è esplicazione del principio generale di uguaglianza, il quale vieta di trattare in modo diseguale situazioni analoghe, salvo che tale disparità sia giustificata da ragioni obiettive.

Ciascuno Stato membro deve dunque assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratore di sesso maschile e femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore, trattandosi di principio fondamentale dell’Unione, che dà attuazione anche all’art. 3 del Trattato sull’Unione Europea (che promuove la parità fra uomo e donna) nonché all’art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (che sancisce che la parità fra donne e uomini debba essere assicurata in tutti i campi, inclusi quindi in materia di occupazione, di lavoro e retribuzione).

In considerazione di quanto sopra, l’interpretazione secondo la quale occorrerebbe distinguere, per quanto riguarda l’efficacia diretta dell’articolo 157 TFUE, in base al fatto che il principio della parità di retribuzione fra lavoratori e lavoratrici sia invocato per “uno stesso lavoro” o per “un lavoro di pari valore”, comprometterebbe il raggiungimento dell’obiettivo perseguito dalla stessa norma.

Pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla società datrice di lavoro, l’efficacia diretta dell’articolo 157 TFUE non è limitato ai casi in cui i lavoratori di sesso diverso svolgono il medesimo lavoro; la norma dispiega invece efficacia diretta anche nei casi in cui debba essere valutata la “parità di valore” del lavoro svolto, accertamento di fatto che può essere demandato al giudice nazionale, deputato a conoscere i fatti e dunque ad appurare se, tenuto conto della natura concreta delle attività svolte dai lavoratori, si possa attribuire un valore uguale a queste ultime. 

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea fuga dunque ogni dubbio, statuendo che l’art. 157 TFUE debba essere interpretato nel senso che ha efficacia diretta nelle controversie tra privati in cui è dedotta l’inosservanza del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile per un lavoro di pari valore.

Resta quindi salva la facoltà del singolo di adire il Tribunale e pretendere la diretta applicazione della normativa europea in tema di parità di retribuzione fra lavoratori e lavoratrici; il ricorso all’autorità giudiziaria non sarà quindi precluso nel caso in cui le attività da porsi a raffronto non siano identiche, potendo il giudice nazionale, secondo gli elementi di fatto emersi nel processo, valutare se il lavoro svolto da una lavoratrice possa definirsi “di pari valore” rispetto a quello svolto dal collega di sesso maschile.

* Avvocato in Milano