SMART WORKING ESTERO
di Paolo Soro*
Il Commercialista del Lavoro si trova sempre più spesso a dover gestire rapporti relativi a dipendenti che operano in modalità smart working dall’estero. Tenuto conto che le leggi fiscali e previdenziali sono necessariamente influenzate dalla residenza del lavoratore e dal luogo nel quale viene svolta la prestazione corre innanzitutto l’obbligo di svolgere alcune precisazioni in merito a tali fondamentali elementi.
Riguardo alla residenza fiscale, come noto, la stessa è disciplinata dalla convenzione internazionale di riferimento, eccettuate ovviamente quelle rarissime ipotesi di Paesi privi di trattato con l’Italia. In queste evenienze occorrerà rifarsi solo alla nostra legislazione domestica: art. 2, decreto del presidente della repubblica del 22 dicembre 1986, n. 917 – Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir). Detta ultima norma stabilisce che si considerano residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno, o 184 giorni in caso di anno bisestile), alternativamente:
- sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente
- hanno nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio
- hanno nel territorio dello Stato italiano la propria residenza.
A parte la prima condizione di carattere meramente formale su cui c’è ben poco da discutere, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito in svariate pronunce il suo pensiero, sia relativamente al concetto di domicilio, sia a quello di dimora abituale.
Quanto alla dimora, la stessa deve essere intesa quale sede principale degli affari e interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi (Cass. 21694/2020; Cass. 14434/2010; Cass. 13803/2001). Il concetto di domicilio va valutato, quindi, in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali che quelli economici (Cass. SS UU, 25275/2006; Cass. 14240/2021), dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche degli interessi personali (Cass. 6081/2019; Cass. 29576/2011). Si tratta di una situazione di fatto che presuppone l’esistenza di un duplice requisito, oggettivo e soggettivo, vale a dire, rispettivamente, la permanenza in un determinato luogo e l’intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (Cass. 25726/2011).
Con riferimento alla dimora abituale, la S.C., riconosciuto che affinché sussista il requisito della “abitualità della dimora” non è necessaria la continuità o la definitività (Cass. n. 2561/1975; Cass. SS UU n.5292/1985), ha chiarito che detto requisito permane anche se il soggetto lavora o svolge altre attività al di fuori del comune di residenza (del territorio dello Stato), purché conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali. La residenza, dunque, non viene meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago. Più recentemente, i giudici di legittimità hanno altresì precisato che “il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile da terzi” (Cass. 25189/2022, che richiama Cass. 6501/2015).
Prima di esaurire il commento concernente l’art. 2, Tuir, pare opportuno ricordare altresì la presunzione legale espressa dal comma 2-bis della predetta norma. Il comma in parola stabilisce che, salvo prova contraria, si considerano residenti in Italia le persone cancellate dall’anagrafe della popolazione residente in Italia e trasferite in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati nel decreto del Ministro delle Finanze del 4 maggio 1999:
“Soltanto la piena dimostrazione, da parte del contribuente, della perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel Paese fiscalmente privilegiato, indipendentemente dall’assolvimento nello stesso Paese di obblighi fiscali, attestano il venire meno della residenza fiscale in Italia e la conseguente legittimità della posizione di non residente”.
Non pare però il caso, in questa sede, di dilungarsi oltre nel ripercorrere i pronunciamenti legati a una normativa che, pur nella sua complessità, è già da tutti sufficientemente conosciuta. Ciò, anche perché, non spetta comunque al Commercialista del datore di lavoro, esprimere un sindacato così complesso (articolato più su aspetti sostanziali che meramente formali), come quello attinente alla residenza fiscale del personale dipendente. Sul punto, giova solo ricordare che, a parere dell’Agenzia delle entrate (Circolare 17/E-2017), il lavoratore può produrre specifica certificazione attestante la residenza fiscale estera, che però deve essere rilasciata in originale dalla competente Amministrazione finanziaria dello Stato interessato; non acquisiscono alcun valore eventuali altre attestazioni o autocertificazioni del lavoratore stesso.
Inoltre, come più volte chiarito dall’Agenzia (Risoluzioni: 86/2006, 56/2005, 183/2003, 68/2000 e 95/1999), i sostituti d’imposta possono, sotto la propria responsabilità, applicare direttamente l’esenzione o le minori aliquote convenzionali, previa presentazione, da parte dei beneficiari del reddito, della documentazione idonea a dimostrare l’effettivo possesso di tutti i requisiti previsti dalla convenzione per fruire dell’agevolazione. Peraltro, tale prassi amministrativa, avendo carattere facoltativo, non comporta un obbligo di adeguamento per il sostituto d’imposta che, in tutti le ipotesi incerte sulla sussistenza nel caso concreto dei requisiti previsti dalle rispettive convenzioni per evitare le doppie imposizioni, continuerà ad assoggettare a tassazione, ai sensi della vigente normativa interna, i redditi di qualsiasi tipologia tra i quali, ovviamente, i redditi da lavoro dipendente e quelli soggetti a tassazione separata, considerato il seguente disposto normativo:
“I datori di lavoro che corrispondono somme e valori, devono operare all’atto del pagamento una ritenuta a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dai percipienti, con obbligo di rivalsa” (art. 23, d.p.r. 600/1973).
Quanto al secondo fondamentale elemento (luogo di svolgimento del lavoro), giova richiamare i concetti recentemente espressi dall’Agenzia delle entrate nella sua ultima circolare 25/E-2023, nella quale viene analizzato proprio lo status dei lavoratori che operano in smart working. In detta occasione, l’Amministrazione ha confermato che, indipendentemente dalla localizzazione della sede aziendale e dalla particolare modalità tramite la quale viene prestata l’attività lavorativa, agli effetti fiscali, rileva – sempre e soltanto – la concreta presenza fisica del soggetto in un determinato Stato. Da questo punto di vista, risulta pertanto del tutto irrilevante la circostanza che la manifestazione di tale lavoro possa produrre o meno effetti nello Stato contraente in cui è localizzato l’eventuale datore di lavoro per conto del quale la prestazione è effettuata.
L’esempio tipico che viene citato è quello della cittadina italiana che si è trasferita all’estero, dove svolge un’attività lavorativa in smart-working, ma ha mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta.
La contribuente in questione, anche qualora avesse trasferito all’estero il suo domicilio e la sua dimora abituale, continuerà a qualificarsi come fiscalmente residente in Italia in ragione del requisito anagrafico. Di conseguenza, seppure fisicamente trasferita all’estero, dovrà sottoporre a tassazione tutti i suoi redditi nello Stato italiano; sempre, fatto salvo il disposto della normativa convenzionale eventualmente applicabile.
Sempre a rafforzare il principio di base (ossia, la circostanza che rileva solo il luogo effettivo in cui si lavora e non la forma di svolgimento del lavoro e/o lo Stato in cui si esplicano gli effetti dell’attività eseguita), l’Agenzia ribadisce i concetti già espressi in recenti documenti di prassi (interpelli: 55 e 99, del 2023).
Il Segretariato dell’OCSE, con la Guidance del 3 aprile 2020, successivamente aggiornata il 21 gennaio 2021, ha pubblicato i risultati di un’analisi riguardanti l’impatto della crisi da Covid-19 sull’applicazione delle convenzioni in ambito tributario. Nello specifico, l’analisi ha riguardato le conseguenze fiscali delle misure di contrasto alla pandemia rispetto alla residenza (di persone fisiche e giuridiche), ai redditi di lavoro e alla configurabilità di una stabile organizzazione. In considerazione dell’eccezionalità e della temporaneità della crisi, il documento proponeva un approccio volto alla “sterilizzazione” delle modifiche organizzative resesi necessarie a causa della pandemia. Nel documento pubblicato dall’OCSE è stato precisato che l’analisi ivi contenuta rappresenta il punto di vista del Segretariato sull’interpretazione delle disposizioni convenzionali, riconoscendo a ogni giurisdizione la possibilità di adottare proprie indicazioni per fornire certezza fiscale ai contribuenti. Le predette indicazioni, inoltre, riguardano unicamente i canoni ermeneutici delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni e, pertanto, non sono rilevanti al fine di interpretare la normativa interna.
Ebbene, alcuni Paesi hanno adottato misure, amministrative o legislative, in linea con quelle prospettate dal Segretariato, il cui elenco è rinvenibile sul sito OCSE. Viceversa, l’Italia, ha ritenuto di uniformarsi ai suggerimenti del Segretariato OCSE solo in parte, concludendo specifici Accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell’articolo 15 (lavoro subordinato) delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, esclusivamente con i seguenti Stati:
- Austria: Accordo concluso il 24/26 giugno 2020, concernente i soli lavoratori frontalieri, e applicabile alle attività lavorative svolte tra l’11 marzo 2020 e il 30 giugno 2022
- Francia: Accordo concluso il 16/23 luglio 2020, concernente i lavoratori subordinati e i frontalieri, applicabile dal 12 marzo 2020 fino al 30 giugno 2022
- Svizzera: Accordo concluso il 18/19 giugno 2020, concernente i lavoratori subordinati e frontalieri, applicabile dal 24 febbraio 2020 al 31 gennaio 2023; per i soli lavoratori frontalieri rientranti nell’ambito dell’applicazione dell’Accordo e nei limiti del 40% del tempo di lavoro, gli effetti del medesimo Accordo sono stati sostanzialmente estesi al 30 giugno 2023 dall’articolo 12 della legge 13 giugno 2023, n. 83; inoltre, l’articolo 24, comma 5-ter, del decreto legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito in legge 10 agosto 2023 n.112, ha previsto che le disposizioni di cui all’articolo 12 della legge 13 giugno 2023, n. 83, si applichino fino al 31 dicembre 2023 ai soli lavoratori frontalieri che, alla data del 31 marzo 2022, svolgevano la loro attività lavorativa in modalità di telelavoro.
Proprio in relazione a tale ultimo Accordo con la Svizzera, nella risposta a interpello 55/2023, riguardante redditi da lavoro dipendente per l’annualità 2021, l’Agenzia ha chiarito che, ai fini dell’interpretazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della convenzione, in via eccezionale e provvisoria, i giorni di lavoro svolti a domicilio nello Stato di residenza del contribuente a causa delle misure adottate per impedire la diffusione del Covid-19 alle dipendenze di un datore di lavoro situato nell’altro Stato contraente, devono essere comunque considerati come giorni di lavoro svolti nello Stato in cui la persona avrebbe lavorato e ricevuto in corrispettivo il reddito di lavoro dipendente in assenza di tali misure.
La predetta situazione è stata evidenziata pure nella risposta a interpello 99/2023, nella quale viene riaffermato che l’analisi del Segretariato OCSE sull’impatto del Covid-19 sui trattati è stata accolta dall’Italia unicamente nei limiti dei richiamati Accordi amministrativi con Austria, Francia e Svizzera. Tali accordi non possono esplicare effetti nei riguardi di altri Stati. In ogni caso, a oggi, con la dichiarata fine dello stato pandemico, i menzionati Accordi internazionali hanno cessato di avere qualsivoglia efficacia. Pertanto, risultano applicabili le ordinarie disposizioni contenute nelle rispettive convenzioni contro le doppie imposizioni e accordi internazionali. Resta, ovviamente, salva la disciplina speciale transitoria introdotta, proprio in relazione ai frontalieri svizzeri, dalla recente legge 83/2023.
Ma, a questo punto, visto che abbiamo citato le convenzioni bilaterali, facciamo una rapida disamina del Modello Convenzionale OCSE in tema di lavoro dipendente, anche al fine di comprendere come potrebbe variare la situazione in relazione al fatto che il dipendente in smart working estero del datore di lavoro italiano nostro cliente, sia anch’esso un soggetto italiano ovvero straniero.
Il Modello detta le disposizioni relative alla tassazione dei redditi di lavoro dipendente all’art. 15, il quale prevede:
- I salari, le paghe e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che tale attività non venga svolta nell’altro Stato Se l’attività è svolta qui, le remunerazioni percepite a tale titolo sono imponibili [senza “soltanto”] in questo altro Stato.
- Nonostante le previsioni di cui al paragrafo 1, le remunerazioni che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente svolta nell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel primo Stato se:
a) Il dipendente soggiorna nell’altro Stato per un periodo o per più periodi che anche considerati complessivamente non oltrepassano in totale 183 giorni nel corso di un periodo di 12 mesi consecutivi che hanno inizio o termine nell’anno fiscale considerato, e
b)La remunerazione è pagata da, o per conto di, un datore di lavoro che non è residente dell’altro Stato, e
c)La remunerazione non origina da una stabile organizzazione che il datore di lavoro possiede nell’altro Stato.
Con riguardo agli eventuali obblighi di carattere fiscale (ritenute), il datore di lavoro italiano che non ha base fissa (e non produce redditi) nel Paese straniero in cui il dipendente presta attività in smart working, non assume la veste di sostituto d’imposta all’estero. Per contro, il dipendente con residenza fiscale italiana, in virtù della norma convenzionale, ha l’onere di dichiarare i redditi e pagare le imposte (a seconda dei casi) sia in Italia che nel Paese estero di effettivo svolgimento del lavoro, oppure soltanto in Italia.
Nell’ipotesi di tassazione concorrente, il dipendente dovrà dunque auto-liquidare autonomamente le imposte e assolvere gli obblighi tributari esistenti nello Stato straniero, applicando l’eventuale metodo del credito (o altro ivi appositamente previsto dalla convenzione di riferimento).
Tale condizione muterà radicalmente se il dipendente acquisisce la residenza fiscale nello Stato estero, allorché sarà soggetto esclusivamente alla locale tassazione:
“I salari, le paghe e le altre remunerazioni analoghe che un residente di uno Stato contraente riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto in detto Stato.”
Orbene, aldilà di quanto qui sopra appena rilevato, nella pratica il datore di lavoro italiano potrebbe comunque dover assolvere al versamento delle ritenute prescritte dallo Stato estero. Ciò, evidentemente, dipende dalla legge del Paese di interesse. In effetti, in molti Paesi (esempio: Germania, Paesi Bassi, Francia, Svizzera), come norma generale ordinaria, l’Amministrazione locale richiede comunque al datore di lavoro straniero di versare le ritenute fiscali sulle retribuzioni erogate ai dipendenti che prestano la loro attività lavorativa in loco. In queste situazioni, sarà onere del dipendente chiedere al proprio datore di lavoro l’applicazione della norma convenzionale che prevede la tassazione esclusiva in Italia.
Dunque, riepilogando:
a) Tassazione concorrente (dipendente residente in Italia che lavora in smart working all’estero per oltre 6 mesi): il datore italiano effettua le ritenute (in Italia o nel Paese estero) e il dipendente auto-liquida le imposte previste nell’altro Stato contraente, applicando il credito d’imposta
b) Tassazione esclusiva in Italia (dipendente residente in Italia che lavora in smart working estero per meno di 6 mesi): il datore di lavoro effettua le ritenute in Italia e il dipendente chiede l’applicazione della norma convenzionale
c) Tassazione esclusiva all’estero (dipendente residente all’estero che lavora in smart working nel Paese straniero di residenza):
- se richiesto dalla locale normativa, il datore italiano effettua le ritenute estere e il dipendente non ha ulteriori obblighi di imposta (caso abituale UE, SEE, UK)
- se non richiesto dalla locale normativa, il datore italiano può non effettuare le ritenute estere e il dipendente deve auto-liquidare le proprie imposte in base alla legislazione locale (caso abituale Paesi extra-UE non convenzionati).
Le posizioni dei dipendenti che operano in smart working dall’estero assumono connotati ulteriormente complessi in ottica previdenziale. La prima considerazione da svolgere attiene all’applicazione del solito principio di fondo: “Lex Loci Laboris”; vale a dire, la legge del luogo di svolgimento del lavoro. È risaputo come ciò comporti, tra le altre cose, la necessità di riconsiderare il contratto di lavoro “italiano” tramite il quale era stato originariamente assunto il dipendente, dimodoché, detto contratto:
- Preveda delle retribuzioni almeno pari a quelle stabilite nel Paese estero per analoghe posizioni lavorative, fermo restando che se gli stipendi locali sono inferiori a quelli italiani, il dipendente manterrà un salario comunque non inferiore a quello stabilito dal Ccnl italiano
- Garantisca altresì gli altri eventuali istituti contrattuali come applicati agli “analoghi” dipendenti locali
- Garantisca la contribuzione previdenziale e assicurativa locale
- Sia soggetto alla competenza giurisdizionale locale (di norma, infatti, una persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato, è soggetta alla legislazione di tale Stato), e dunque in linea con quanto stabilito dai contratti di lavoro locali adottabili.
Certi aspetti sono talmente noti che spesso ne vengono trascurate le conseguenze. Poniamo il caso che il mio dipendente Caio continui a lavorare per mio conto, ma ora lo faccia operando in smart working da Losanna: il contratto che aveva in Italia va rivisto a partire dalle retribuzioni che sono assai più elevate in Svizzera (nella fattispecie, Canton Vaud), a parità di inquadramento.
Questo tipo di problemi non si verificheranno di certo nell’ipotesi di un ordinario rapporto di lavoro svolto all’estero, a opera però di un dipendente ivi residente, senza che esista un’unità operativa dell’azienda datrice di lavoro nello Stato estero in questione. Ebbene, la regola di base è sempre la stessa: un datore di lavoro la cui sede legale o il cui domicilio si trova al di fuori dello Stato estero di competenza, deve comunque adempiere a tutti gli obblighi previsti dalla locale legislazione applicabile al suo dipendente ivi residente e ivi svolgente la propria attività lavorativa, come se la sede legale o il domicilio del predetto datore di lavoro fossero situati nello Stato estero di competenza.
Ergo, per adempiere a tali obblighi, il datore di lavoro italiano dovrà necessariamente nominare un proprio rappresentante previdenziale in loco, il quale sarà deputato a eseguire gli adempimenti richiesti dalla legislazione giuslavorista e previdenziale del Paese straniero. Nella prassi, in questi casi il datore di lavoro suole nominare come proprio rappresentante previdenziale il dipendente stesso, il quale, a sua volta, si farà assistere da un commercialista del posto per effettuare ogni adempimento previsto dalla normativa in vigore, tenere i libri, i registri, le buste paga, i documenti contrattuali e, ovviamente, predisporre tutti i correlati versamenti (che, superate le usuale problematiche nell’apertura di un conto corrente bancario locale, potranno essere effettuati dal datore di lavoro italiano, senza bisogno di recarsi fisicamente presso lo Stato straniero). Occorre inoltre tenere presente che, contemporaneamente all’apertura della posizione lavorativa e previdenziale estera, viene a cessare quella corrente in Italia relativa al dipendente interessato.
Quel che, peraltro, appare elemento meritevole di specifico approfondito esame è la situazione previdenziale del lavoratore, precedentemente assunto in Italia (con contribuzione Inps), e successivamente soggetto ai contributi del Paese estero in cui si è trasferito e in cui lavora. In proposito, le cose ovviamente variano in funzione dello Stato presso il quale il dipendente italiano risulta essersi trasferito (Intra-UE, Extra-UE firmatario di trattato previdenziale con l’Italia, Extra-UE privo di trattato).
Per quanto concerne i Paesi intra-UE, la disciplina è indicata dal Reg. CE 883/2004 (e successive modifiche), il quale dispone che:
“Le persone alle quali si applica il presente regolamento sono soggette alla legislazione di un singolo Stato membro”.
Più nello specifico:
“Una persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro è soggetta alla legislazione di tale Stato membro”
Peraltro:
“La persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta:
- se esercita una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro (almeno il 25%), alla legislazione dello Stato membro di residenza; oppure
- se non esercita una parte sostanziale della sua attività nello Stato membro di residenza, alla legislazione dello Stato membro in cui ha la propria sede legale o il proprio domicilio l’impresa o il datore di lavoro, se è alle dipendenze di un’impresa o di un datore di lavoro”.
Quindi, nell’ipotesi in cui il dipendente operi sia in Italia che in smart working dall’estero, la normativa previdenziale potrà variare.
Il regolamento, inoltre, assicura ai lavoratori migranti (e ai loro aventi diritto):
- Il cumulo dei periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali per: nascita, conservazione e calcolo del diritto alle prestazioni
- Il pagamento delle prestazioni ai residenti nei territori degli Stati membri
- La parità di trattamento dei lavoratori nazionali ed esteri (anche nei confronti della Svizzera e dei Paesi SEE, che hanno sostanzialmente ratificato le norme stabilite in proposito nei regolamenti comunitari)
- Il mantenimento dei diritti e dei vantaggi acquisiti
- Il pagamento delle prestazioni nel Paese di residenza, anche se a carico di altro Stato (c.d. esportabilità delle prestazioni)
- La totalizzazione dei periodi di assicurazione e contribuzione (cumulo periodi maturati nei vari Stati), agi effetti pensionistici
Una disciplina pressoché analoga (seppure non esattamente identica) è stata appositamente regolamentata anche con il recente TCA (Trade and Cooperation Agreement), che contiene le disposizioni relative ai rapporti tra l’Unione Europea e il Regno Unito, a seguito della Brexit. Vi sono, poi, una serie di Stati extra-UE che sono comunque legati all’Italia da convenzioni in materia previdenziale (anche se, in genere, concernono soltanto: totalizzazione contributi pensionistici e IVS). Perlomeno, però, il dipendente trasferito a titolo definitivo all’estero, non corre il rischio di vedere svanire nel nulla tutti gli eventuali contributi versati, come viceversa di fatto potrebbe accadere laddove il trasferimento a titolo definitivo dall’Italia, avvenisse presso uno Stato extra-UE privo di qualsivoglia accordo di carattere previdenziale con il nostro Paese.
Prima di chiudere, come anche precisato dall’Agenzia delle entrate (circolare 25/E-2023 già citata), pare appena il caso di ricordare che considerazioni analoghe a quelle svolte per i redditi da lavoro dipendente valgono anche ai fini del riconoscimento di una stabile organizzazione o una base fissa.
L’articolo 7 del Modello OCSE dispone che i redditi d’impresa siano tassati esclusivamente nello Stato di residenza, a meno che nell’altro Stato sussista una stabile organizzazione che l’articolo 5 definisce in generale come una sede fissa attraverso cui l’impresa non residente svolge in tutto o in parte la sua attività. L’articolo 14 (che continua a essere in vigore in Italia, nonostante sia stato espunto nel nuovo Modello Convenzionale OCSE) stabilisce che i redditi da lavoro autonomo sono tassati esclusivamente nello Stato di residenza, salvo il caso in cui tali redditi siano imputabili a una base fissa che il professionista mantiene nell’altro Stato contraente.
Ebbene, detti requisiti si ritengono integrati anche nel caso di una persona fisica che svolge, nel territorio di uno Stato, attività d’impresa o di lavoro autonomo in smart working. Pertanto, la circostanza che il lavoro sia eseguito da remoto non rileva neppure ai fini dell’effettiva configurazione di uno stabile organizzazione e/o di una base fissa all’estero.
Da tutto quanto esposto, ne deriva che, nel caso in cui i dipendenti intendano prestare l’attività lavorativa in smart working stando fisicamente presenti in uno Stato straniero per lungo tempo, sia i dipendenti in questione che i loro datori di lavoro dovranno essere opportunamente allertati in merito alle conseguenze che comporteranno variazioni del netto retributivo (per i dipendenti) e dell’ammontare complessivo dei costi (per i datori di lavoro).
*Odcec Roma