Rassegna di Giurisprudenza

di Bernardina Calafiori*

Cass. civ. sez. lav. 19 dicembre 2017, n. 30426 

Contribuzione Figurativa – Maternità – Indennità disoccupazione 

I periodi corrispondenti a quelli per i quali sia prevista l’astensione obbligatoria dal lavoro in relazione all’evento maternità, ma che si collochino al di fuori del rapporto di lavoro, seppure riconosciuti come periodi contributivi attraverso la contribuzione figurativa, non sono utili ai fini del riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione. 

Con ricorso per cassazione l’Inps impugnava la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Firenze, con la quale l’organo di secondo grado aveva accolto il gravame presentato da una lavoratrice e dichiarato il suo diritto a fruire dell’indennità di disoccupazione.

La Corte d’Appello precedentemente aveva, infatti, ritenuto utili ai fini del raggiungimento del requisito contributivo di 12 mesi (oggi pari a 6 con la nuova disciplina della “Naspi” di cui al d.lgs. 4 marzo 2015, n. 22) i contributi figurativi maturati durante le settimane di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità al di fuori del rapporto di lavoro.

Ciò in quanto, deduceva la Corte d’Appello, il rapporto di lavoro (a tempo determinato) si era interrotto per congedo obbligatorio di maternità quando il contratto era ancora in essere.

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso dell’Inps,si è espressa invece in senso negativo sulla rilevanza dei contributi figurativi correlati all’astensione obbligatoria per maternità, iniziata in corso di rapporto di lavoro a tempo determinato e protrattasi per il restante periodo al di fuori dello stesso, in quanto cessato per raggiungimento del termine, ai fini del raggiungimento del requisito di un anno di contribuzione per l’ammissione alla percezione dell’indennità di disoccupazione.

La Corte afferma infatti che la contribuzione figurativa possa essere utile ai fini del raggiungimento del requisito contributivo per la percezione dell’indennità di disoccupazione, ma solo nell’ipotesi in cui la stessa maturi nell’ambito di un rapporto di lavoro in essere.

Ciò sulla base del disposto di cui al R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 56, comma 1, lett. a) e dell’art. 12, comma 3 del d.p.r. 26 aprile 1957, n. 818.

Infatti la Corte afferma:

Nel caso in cui il periodo di astensione obbligatoria interrompa un rapporto di lavoro in atto, il R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827, art. 56, comma 1, lett. a) stabilisce che: “Dopo l’inizio dell’assicurazione sono computati utili a richiesta dell’assicurato i periodi di interruzione obbligatoria e facoltativa dal lavoro durante lo stato di gravidanza e di puerperio…” così richiamando espressamente “i periodi di interruzione dal lavoro” ed equiparando contribuzione figurativa ed effettiva ai fini non solo pensionistici ma anche della tutela contro la disoccupazione. 

10.I periodi di astensione obbligatoria verificatisi al di fuori di un rapporto di lavoro in atto, e l’espressa non computabilità, ai fini della tutela contro la disoccupazione, sono stati disciplinati dal D.P.R. 26 aprile 1957, n. 818, art. 12 che posta la premessa secondo cui: “I periodi di interruzione obbligatoria del lavoro durante lo stato di gravidanza e puerperio…sono riconosciuti utili… agli effetti del diritto…alle indennità di disoccupazione”, al comma 3 pone la seguente condizione: “Il periodo di interruzione obbligatoria dal lavoro deve in ogni caso verificarsi nel corso di prestazione d’opera determinante l’obbligo dell’assicurazione per la quale il periodo stesso è riconosciuto ai sensi dei due precedenti commi”.

“Il principio da trarre dal senso letterale delle riportate disposizioni, nel senso che i periodi corrispondenti a quelli per i quali sia prevista l’astensione obbligatoria dal lavoro in relazione all’evento maternità, ma che si collochino al di fuori del rapporto di lavoro, seppure riconosciuti come periodi contributivi attraverso la contribuzione figurativa (come previsto, nel tempo, dal D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 14, comma 3; poi, dal D.Lgs. n. 564 del 1996, art. 2, comma 4; infine, dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 25, comma 2), non sono utili ai fini del riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione”.

Come ulteriore argomento, a contrario, la Corte indica una serie di ipotesi in cui il legislatore ha ritenuto rilevante la contribuzione figurativa maturata al di fuori di un rapporto di lavoro, ad esempio a fini pensionistici:

Del pari va riaffermato, con il citato precedente del 2011, che l’ordinamento tutela, attraverso la contribuzione figurativa, i periodi di maternità verificatisi al di fuori del rapporto di lavoro, ma unicamente agli effetti dell’acquisizione del diritto a pensione e non ai (diversi) effetti della tutela contro la disoccupazione. 

La Corte conclude:

La tassatività delle ipotesi di rilevanza della contribuzione figurativa implica, agli effetti della tutela contro la disoccupazione, che la contribuzione figurativa correlata a periodi di maternità attenga ad un rapporto di lavoro in atto e sia versata in costanza di rapporto di lavoro.

  1. Non rileva, in senso contrario, che l’interruzione obbligatoria del rapporto di lavoro abbia avuto inizio due giorni prima della scadenza naturale del rapporto di lavoro a termine, perché ciò che assume rilievo, ai fini del raggiungimento del requisito di un anno di contribuzione occorrente per il diritto all’indennità di disoccupazione, è che il periodo di interruzione sia racchiuso in un rapporto di lavoro in atto, come richiesto dal R.D.L. n. 1827 del 1935, art. 56 che evoca “i periodi di interruzione obbligatoria e facoltativa dal lavoro durante lo stato di gravidanza e puerperio”. 

Pertanto, secondo la Cassazione, la contribuzione figurativa per astensione obbligatoria di maternità, rileva e può rilevare per fini diversi da quelli pensionistici solo ove la legge lo preveda espressamente e tassativamente, anche se l’astensione è iniziata durante il rapporto di lavoro, poi cessato.

Efficacia probatoria del verbale ispettivo 

Verbale Ispettivo – INPS – efficacia probatoria nel giudizio di lavoro 

Le dichiarazioni raccolte nel corso di ispezioni non possono avere valore di prove autosufficienti nel giudizio di lavoro; se così fosse infatti sarebbero violate le garanzie del contradditorio tra le parti e della responsabilità per falsa testimonianza nonché le disposizioni sulla prova testimoniale che impongono la presenza del giudice terzo ed imparziale. In caso di Ispezione in materia di lavoro, gli Ispettori hanno facoltà di raccogliere le dichiarazioni dei dipendenti ed interrogarli liberamente. Tali interrogatori sono raccolti in verbali che non vengono consegnati in copia al Datore di lavoro ispezionato.

È pertanto frequente la problematica sul valore giuridico e l’efficacia di detti verbali di interrogatorio, specie in caso di contenzioso relativo agli esiti dell’Ispezione (sanzioni e intimazioni).

Il tema è stato di recente affrontato dal Giudice del lavoro di Cassino, con sentenza pubblicata il 15 febbraio 2018.

Il titolare di una ditta, a seguito di attività ispettiva da parte di un funzionario della sede INPS di Frosinone, impugnava innanzi al predetto Giudice il relativo verbale di accertamento, che lo dichiarava tenuto al pagamento della somma di € 33.003,00 a titolo di contributi fissi, oltre ad oneri ed accessori da determinarsi a cura dell’INPS e chiedeva l’annullamento della cartella esattoriale nel frattempo emessa.

L’INPS resisteva sostenendo la tesi dell’efficacia di fede privilegiata del verbale ispettivo, facendolo confermare dal funzionario che aveva eseguito l’ispezione.

Il Giudice con la sentenza indicata ha accolto l’opposizione del titolare della ditta, affermando anzitutto che le dichiarazioni raccolte dall’Ispettore hanno, nel processo, relativamente ai fatti dichiarati, lo stesso valore probatorio di quelle raccolte da qualsiasi altro soggetto. Del resto, affermava il Giudice, “se si assegnasse valore di prove autosufficienti alle dichiarazioni raccolte fuori dal processo, sarebbero violate le disposizioni sulla prova testimoniale, che impongono le garanzie della presenza del giudice imparziale con i relativi poteri di direzione del processo e di verbalizzazione, dell’assunzione del contraddittorio tra le parti e della responsabilità per falsa testimonianza”.

La sentenza afferma anche i seguenti principi:

  • in caso di difformità tra la dichiarazione stragiudiziale all’ispettore e la deposizione testimoniale, prevale quest’ultima, in quanto vera prova assistita dalle garanzie tipiche della presenza e verbalizzazione del giudice, del contraddittorio tra le parti e della responsabilità per falsa testimonianza;
  • i verbali e le attestazioni provenienti dai funzionari ispettivi degli istituti previdenziali ed assistenziali, secondo consolidata giurisprudenza, possono dunque far fede fino a querela di falso solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, al contenuto delle dichiarazioni e di altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o di quanto egli stesso dichiara di aver compiuto;
  • per quanto riguarda, invece, circostanze o fatti accertati per essere stati riferiti da terzi, i verbali degli ispettori, per la loro natura di atto pubblico, hanno un’attendibilità che può essere inficiata da specifiche prove contrarie;
  • incombe sull’Istituto previdenziale la prova dei fatti costitutivi del credito preteso, rispetto ai quali il verbale non riveste efficacia probatoria.

Si tratta di utili e legittime garanzie, che escludono una non dovuta supremazia dei verbali rispetto alle regole ordinarie del processo.

Cass. civ. sez. lav. 23 novembre 2017, n. 27933 

Conciliazione giudiziale con transazione di fine rapporto e regime contributivo 

Contribuzione – imponibile – conciliazione giudiziale – transazione di fine rapporto

Ai fini dell’individuazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, posto che il rapporto assicurativo e gli obblighi di contribuzione ad esso connessi sorgono con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, ma ne sono del tutto autonomi e distinti, sussistendo indipendentemente dal fatto che le obbligazioni retributive nei confronti del lavoratore siano state in tutto o in parte soddisfatte, ovvero che quest’ultimo abbia rinunciato ai suoi diritti, anche una transazione tra lavoratore e datore di lavoro va ritenuta estranea rispetto a tali obblighi, sicché, ai fini dell’assoggettamento a contribuzione, sarà necessario provare e distinguere quali siano nell’accordo transattivo le poste di sicura natura retributiva e collegate intrinsecamente al sottostante rapporto di lavoro. 

È prassi, in materia di transazioni di fine rapporto, che queste contengano: l’erogazione di una somma aggiuntiva o integrativa del TFR o a titolo di “incentivo all’esodo” soggetta a tassazione separata e non imponibile ai fini INPS, la rinuncia ad ogni pretesa del lavoratore, inclusa anche la rinuncia ad ogni eventuale pretesa retributiva e l’eventuale erogazione di una (anche modesta) somma a titolo transattivo, soggetta a tassazione separata e imponibile ai fini INPS.

La sentenza in commento ha trattato un caso del tutto particolare relativa al profilo transattivo.

Nel caso deciso dalla Corte, infatti le Parti avevano stipulato due distinti accordi; il primo concerneva la risoluzione del rapporto di lavoro e prevedeva il “classico” incentivo all’esodo, con il regime di cui sopra mentre il secondo accordo concerneva pretese retributive, risolte con un corrispettivo transattivo.

Inoltre l’accordo prevedeva espressamente che il corrispettivo transattivo fosse imponibile ai fini INPS e il datore di lavoro si era impegnato a versare i contributi su tale importo.

L’INPS peraltro prendeva iniziativa circa tale accordo, e sosteneva in giudizio la non debenza dei contributi (!) e la non imponibilità di tale corrispettivo transattivo. Ciò perché si sarebbe trattato di erogazione transattiva novativa, che superava l’eventuale natura retributiva e imponibile delle pretese retributive oggetto di transazione.

La paradossale iniziativa dell’INPS, chiaramente, era rivolta ad evitare ricalcoli della pensione degli interessati.

La Corte di Cassazione ha accolto la tesi dell’INPS e ha sancito che:

la estraneità della transazione intervenuta tra datore di lavoro e lavoratore nei riguardi del rapporto contributivo discende dal principio che, alla base del calcolo dei contributi previdenziali, deve essere posta la retribuzione dovuta per legge o per contratto individuale o collettivo e non quella di fatto corrisposta, in quanto, come correttamente evidenziato anche nell’impugnata sentenza, l’espressione usata dalla L. n. 153 del 1969, art. 12, per indicare la retribuzione imponibile (“tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro…”) va intesa nel senso di “tutto ciò che ha diritto di ricevere”, ove si consideri che il rapporto assicurativo e l’obbligo contributivo ad esso connesso sorgono con l’instaurarsi del rapporto di lavoro, ma sono del tutto autonomi e distinti, nel senso che l’obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’istituto previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del prestatore d’opera siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti (cfr. tra le numerose decisioni, Cass. 15 maggio 1993, n. 5547; 13 aprile 1999, n. 3630).

Dal complesso di questi principi discende che le somme pagate a titolo di transazione “dipendono” da questo contratto e non dal (diverso) contratto di lavoro, posto che la funzione del contratto di transazione, ai sensi dell’art. 1965 c.c., è, in ogni caso, di precludere alle parti stipulanti l’accertamento giudiziale del rapporto o delle sue regole, cosicché la sua esecuzione non è esecuzione delle obbligazioni derivanti dal rapporto oggetto della controversia”. 

In sintesi, ciò che se ne può ricavare è che quando la transazione è novativa – secondo la Corte di Cassazione – i contributi non spettano, salvo che l’INPS provi (se ne ha interesse) che vi era un reale debito retributivo, trattandosi in tal caso di una somma imponibile ai fini contributivi.

Si tratta della conferma dell’indirizzo già espresso dalla Corte di Cassazione (cfr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2009, n. 17495). La soluzione adottata rende incerta – e comunque da valutare attentamente caso per caso – la disciplina da applicare. La soluzione della “impossibilità” resta sempre, allo stato, la più sicura.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio (studiolegale@daverioflorio.com)

 

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