NUOVA RESIDENZA FISCALE DELLE SOCIETÀ

di Paolo Soro*

Il Decreto Legislativo di riforma in materia di fiscalità internazionale, al titolo I, capo I, articolo 2 – Residenza delle società e degli enti (di seguito, il Decreto), apporta importanti modifiche agli articoli 73 (commi 3 e 5-bis) e 5 (comma 3), del TUIR.

Come precisa la relazione illustrativa, in particolare, i criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono la ratio della novella legislativa, sottolineando la rilevanza degli aspetti di natura fattuale in relazione al collegamento personale all’imposizione del reddito e realizzando un approccio che lo amplia e – quanto meno nell’idea del Legislatore – dovrebbe rafforzare la certezza del diritto. Per quanto i due criteri sostanziali operino disgiuntamente, la duplice inclusione persegue l’obiettivo di escludere alla radice indebiti ampliamenti a ulteriori criteri di natura sostanziale.

Le attività di supervisione e l’eventuale attività di monitoraggio della gestione da parte dei soci sono ora ben differenziate dalla direzione effettiva e dalla gestione amministrativa corrente. A detto ultimo proposito, l’inserimento del criterio della “gestione ordinaria in via principale”, prosegue la relazione illustrativa, consente di allinearsi a quell’orientamento di altri Paesi europei che lo impiegano per stabilire il collegamento personale all’imposizione nei casi in cui vi sia un effettivo radicamento della persona giuridica sul territorio ma sorgano incertezze interpretative in merito al luogo di direzione effettiva. In altri termini, ciò che rileva ai fini del criterio qui considerato è che gli atti siano relativi alla gestione ordinaria, attinente al normale funzionamento della società o dell’ente nel suo complesso. L’impiego, poi, dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi può, se del caso, esistere una stabile organizzazione.

In continuità con la disposizione vigente, la novella mantiene la presunzione di residenza per i trust e gli enti di analogo contenuto istituiti in Stati o territori a fiscalità privilegiata, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano, con la possibilità per il contribuente – in riferimento a questi ultimi – di fornire la prova dell’effettiva residenza nello Stato o territorio estero.

Con le modifiche apportate al comma 3 dell’articolo 5, viene inoltre eliminato il riferimento al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione.

In definitiva, il criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma; quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione. Permane, ovviamente, l’alternatività fra tutti i criteri, anche nell’attuale normativa.

La decorrenza delle nuove disposizioni è stata fissata all’articolo 7 del Decreto, il quale prescrive che la novellata regolamentazione attinente alla residenza fiscale di società ed enti entri in vigore:

A decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.”

Considerato che il Decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale N. 301 del 28/12/2023 (ed entra in vigore dunque il giorno dopo, 29/12/2023), ne consegue che la normativa in argomento decorre dal 2024.

Facciamo ora un salto nel passato al fine di comprendere meglio le modifiche decise dall’odierno legislatore.

Come noto, si ricade nella fattispecie dell’estero-vestizione allorché un soggetto d’imposta sottragga al potere impositivo nazionale, in maniera strumentale o meno, delle attività d’impresa che siano teoricamente suscettibili di produrre materia reddituale attiva (aziende industriali, commerciali, etc.), ovvero passiva (dividendi, interessi, utili, royalties – c. d. passive income). In sostanza, se la residenza effettiva contraddice quella formale, siamo di fronte a un tipico caso di estero-vestizione. La disposizione normativa è quella di cui all’art. 73, commi 3 e 5-bis, del TUIR. In particolare, il comma 3 previgente stabiliva che:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Il comma 5-bis affermava che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Schematizzando quanto appena riportato, in base al previgente art. 73, laddove il management della società o ente estero sia principalmente composto da soggetti che, per la maggior parte del periodo dell’anno, sono residenti in Italia, potremmo incorrere in un’ipotesi di estero-vestizione. Il condizionale è d’obbligo, poiché la disposizione premette la locuzione “salvo prova contraria”: vale a dire che ci troviamo di fronte all’ennesima presunzione prevista dall’ordinamento tributario, certamente suscettibile di dimostrazione contraria, ma che comunque, ab initio, impone un’evidente inversione del naturale onere della prova, spostandolo a carico del contribuente.

Il nuovo comma 3 dell’art. 73 del TUIR, oggi ci presenta il seguente testo:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale”.

Dunque, la sede della direzione effettiva subentra alla generica “sede dell’amministrazione”. Dopo di che, il Legislatore chiarisce altresì che:

“Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso.”

Peraltro, la norma inserisce tra i requisiti anche la gestione ordinaria in via principale. Con ciò il Legislatore intende riferirsi al:

“Continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”.

Come anticipato, nel testo precedente, la disposizione faceva altresì riferimento pure al concetto di “oggetto esclusivo” dell’attività. L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente veniva determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Con tale locuzione, si intendeva l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale dell’ente residente veniva determinato in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applicava in ogni caso agli enti non residenti.

Con l’approvazione del Decreto, almeno questi riferimenti al criterio dell’oggetto principale, forieri di corposo contenzioso, sono stati fortunatamente eliminati. Considerato, peraltro, che tutti i requisiti restano alternativi fra di loro, ne consegue che ci troveremo potenzialmente di fronte a un caso di estero-vestizione quando, al di là del dato formale, è concretamente localizzata in Italia:

“La sede nella quale vengono adottate le decisioni strategiche” (presumibilmente, gestione straordinaria, piani di investimento, indirizzi di vendita/produzione, etc.) ovvero “la sede nella quale viene svolta la gestione corrente, ordinaria”

Fermo comunque restando il primo requisito formale legato alla sede legale.

Tra i citati tre requisiti iniziali, appare dunque chiaro come il POEM (Place Of Effective Management – sede effettiva dell’amministrazione, quale luogo in cui sono adottate le decisioni strategiche e/o viene svolta la gestione ordinaria) sia quello che risulti presentare le maggiori criticità. Lo stesso Modello Convenzionale dell’OCSE, all’art. 4, afferma infatti che, nell’ipotesi di doppia residenza di una società, quale criterio discriminante debba essere preso in considerazione proprio il Place Of Effective Management. Orbene, in quanto luogo in cui si formano le principali decisioni strategiche della gestione, il POEM viene di regola identificato con la sede in cui si riunisce l’organo amministrativo. Conseguentemente, il registro delle adunanze del CDA sarà oggetto di opportuna verifica da parte del Fisco.

Cionondimeno, secondo il precedente testo normativo, se dei soggetti (persone fisiche con residenza in Italia) componevano in prevalenza l’organo amministrativo, appariva alquanto arduo vincere la presunzione di residenza connessa al POEM, pensando di far passare la propria tesi semplicemente sulla base di un verbale che riportava la sede estera come quella nella quale si sono svolte le varie riunioni dell’organo amministrativo, o magari solo in funzione del tipo di lingua usata nel trascrivere lo stesso verbale. Invero, il parametro cui l’Agenzia delle entrate ha sempre posto particolare cura con riferimento al POEM era piuttosto quello concernente la complessiva attività di direzione e di coordinamento. Ebbene, laddove tale attività si trasformava – ad esempio – in una costante ingerenza nella vita quotidiana della società (come spesso accadeva), risultava inevitabile far coincidere la residenza della società estera con quella di chi era deputato a compiere (o, comunque, indirizzare regolarmente) gli atti di gestione, proprio in virtù della sopra citata presunzione prevista nella richiamata disposizione normativa. Tale presunzione, a detta dell’Amministrazione finanziaria, poteva essere vinta fornendo valide prove circa l’effettività della residenza. Tali erano, per esempio:

– documenti atti a dimostrare che le riunioni del CDA erano state concretamente svolte all’estero (biglietti aerei, ricevute di alberghi, ristoranti, bus, metro, taxi etc., concomitanti con la data delle riunioni);

– documenti che dimostrano l’effettiva esecuzione di atti autonomi da parte dei membri del locale CDA (progetti, presentazioni, meeting e ogni altra documentazione diretta a migliorare l’economicità della società non residente);

– documenti, anche fattuali, testimonianti il grado di autonomia funzionale della società non residente e del suo personale dal punto di vista organizzativo, amministrativo, finanziario e contabile (direttive interne, contratti di natura commerciale e finanziaria, corrispondenza ordinaria con soggetti terzi, apertura e gestione dei conti correnti bancari, richiesta di mutui o prestiti etc.), vale a dire qualunque documentazione in condizione di provare l’effettivo svolgimento in loco dell’intera gestione operativa della società non residente.

In proposito, i principali indici di controllo reputati dall’Amministrazione finanziaria sintomatici ai fini della collocazione in Italia dell’effettivo potere decisionale/amministrativo, onde consentire di verificare l’esistenza di una società estero-vestita, erano i seguenti:

– mail scambiate tra residenti e non residenti;

– documenti personali degli amministratori della società non residente;

– concomitanza degli stessi soggetti nei CDA delle due società (residente e non residente);

– qualifica professionale degli amministratori esteri (ossia, se persone di comodo, o magari soggetti che abitualmente svolgono la funzione di “amministratori” per conto anche di altre società);

– residenza effettiva della società non residente (eventuale sede presso lo studio di qualche professionista locale: commercialista, avvocato, società di consulenza, etc.);

– abituale svolgimento delle riunioni del CDA presso la sede estera;

– verbali di assemblea dei soci (quindi, come anzidetto: verifica del luogo in cui sono materialmente deliberati – ancorché eseguiti – gli atti di gestione);

– contratti della società non residente e luogo effettivo in cui sono conclusi;

– disponibilità di conti correnti bancari italiani ed eventuale gestione dall’Italia di conti correnti bancari esteri.

Ebbene, si reputa che gli anzidetti elementi, in quanto mirati alla dimostrazione del luogo in cui è concretamente condotta l’amministrazione societaria, debbano continuare ad assumere pieno valore con l’introduzione dell’art. 2 del Decreto (e, anzi, ciò a maggior ragione, proprio oggi). Per quanto attiene all’amministrazione, l’attuale novella consente invero di escluderne la sede intesa come indice meramente formale, atteso che detto elemento dovrà essere valutato riferendosi ai luoghi nei quali sono effettivamente assunte le decisioni gestionali, indipendentemente dall’eventuale residenza personale degli amministratori. Detta residenza degli amministratori, peraltro, rimane prevista dalla norma con riguardo ai gruppi societari di cui al successivo comma 5-bis del Decreto.

I criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono dunque la ratio della novella legislativa. Inoltre, l’impiego dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi potrebbe, se del caso, esistere una stabile organizzazione: è noto – ad esempio – che la gestione corrente di un ramo d’impresa di regola configuri una stabile organizzazione (“place of management” ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a, del Modello OCSE e articolo 162, comma 2, lettera a, del TUIR, ossia “sede di direzione”). D’altronde, sulla stessa linea si era già posta pure la Corte di Giustizia UE nella sentenza del 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg Sarl, in cui era stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica:

“Indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)”.

È già stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della estero-vestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento. Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas (richiamata da Cassazione Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a escludere la normativa dello Stato membro interessato.

Proseguendo nella lettura del testo odierno troviamo la conferma della presunzione in capo ai trust che hanno a che fare con i Paesi a fiscalità privilegiata, mantenendo entrambe le disposizioni di carattere antielusivo:

“Si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust sono fiscalmente residenti nel territorio dello Stato.

Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi.”

Il successivo comma 5-bis, relativo alla presunzione di residenza nel territorio dello Stato di società ed enti controllati o amministrati da soggetti residenti nel territorio dello Stato (estero-vestizione), è riformulato come conseguenza dell’introduzione dei nuovi criteri della sede di direzione effettiva e della gestione ordinaria. Peraltro, nella sostanza, la disposizione conferma che, sempre ai fini delle imposte dirette, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

L’ipotesi elusiva tipica che tale ultima disposizione mira fondamentalmente a combattere è quella delle società Italiane che costituiscono una holding estera, la quale detiene a cascata la partecipazione di società Italiane. Questa costruzione fittizia veniva, infatti, molto usata un tempo, per evitare la tassazione delle plusvalenze in capo alla holding estera, su cessioni di partecipazioni di società Italiane.

Da notare, poi, che (come indicato al comma 5-ter), ai fini della verifica, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio (o periodo di gestione del soggetto estero) e che, ai medesimi fini, per le persone fisiche, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari.

Infine, giova ricordarlo, nulla cambia per gli organismi di investimento collettivo del risparmio che si considerano residenti se istituiti in Italia. L’incipit del comma 3 è, però, riformulato per esigenze di chiarezza, meglio esplicitando – in linea con la prassi dell’Agenzia delle entrate – che ai fini della residenza per gli organismi di investimento collettivo del risparmio rileva il criterio del luogo di istituzione.

Ricapitolando quanto qui evidenziato, dunque, la novellata disposizione modifica il criterio di collegamento ai fini della determinazione della residenza fiscale delle società, degli enti e delle associazioni, sopprimendo il criterio dell’oggetto principale e sostituendo il criterio della sede dell’amministrazione con quelli della sede di direzione effettiva e/o della gestione ordinaria in via principale. Inoltre, resta quale criterio di collegamento rilevante ai fini della residenza fiscale la presenza della sede legale nel territorio dello Stato.

In accoglimento di quanto richiesto nella lettera c) del parere reso dalla VI Commissione finanze della Camera dei deputati e della 6^ Commissione finanze e tesoro del Senato della Repubblica, nell’articolo 2 del Decreto qui oggetto di esame è stato inserito il comma 2 che riformula la lettera d) del comma 3 dell’articolo 5 del TUIR in materia di residenza delle società di persone e delle associazioni equiparate alle società di persone. Secondo le intenzioni del Legislatore, anche in tal caso, l’obiettivo consisterebbe nel cercare di assicurare maggiore certezza giuridica, allineando i criteri di radicamento con il territorio dello Stato con quelli previsti per le persone giuridiche.

Sostanzialmente, in coerenza con le modifiche intervenute nell’art. 73 TUIR, vengono eliminati i riferimenti al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione, e al criterio della sede dell’amministrazione formale. Analogamente alla residenza delle persone giuridiche, la residenza di società di persone e delle associazioni equiparate viene ricondotta agli usuali tre criteri:

  • Il primo criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma;
  • Quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione.

Come sempre, essendo i tre criteri fra loro alternativi, ciascuno di essi è di per sé in grado di fondare il collegamento delle società di persone con il territorio dello Stato.

La previgente disposizione recava il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale, nel territorio dello Stato.

L’oggetto principale è determinato in base all’atto costitutivo, se esistente in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e, in mancanza, in base all’attività effettivamente esercitata”.

Nell’odierna riperimetrazione di tipo più prettamente sostanziale/fattuale, la norma prevede il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale.

Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso.

Per gestione ordinaria si intende il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso”.

In definitiva, dunque, in collegamento con quanto stabilito per le società di capitali (ed enti equiparati) nell’art. 73, TUIR, il Legislatore non può che modificare altresì, di pari passo, quanto previsto nell’art. 5, TUIR, per: società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate, ai fini di determinare i requisiti di residenza fiscale nel territorio dello Stato.

Riassumendo tutto quanto fin qui esposto, la parte del Decreto di riforma della fiscalità internazionale che interessa il tema della residenza fiscale delle società è finalizzata all’allineamento del nostro ordinamento alla prassi internazionale e alla disciplina prevista dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, con l’obiettivo di dare maggiore certezza e, contestualmente, ridurre il contenzioso. La disciplina viene riformata intervenendo sui criteri di collegamento (ex articolo 73 del TUIR).

Nello specifico, l’articolo 2 del Decreto di recepimento lascia invariato il criterio di collegamento fondato sulla presenza della sede legale nel territorio dello Stato, rimuovendo, invece, il criterio dell’oggetto principale inteso in ottica meramente formale, estraneo alla prassi internazionale. La disposizione, inoltre, formula diversamente il criterio della sede dell’amministrazione, specificando i criteri di collegamento di natura sostanziale: la direzione effettiva e la gestione ordinaria in via principale.

Come già più volte ricordato, anche nell’attuale perimetrazione, tutti e tre i criteri di collegamento permangono tra loro alternativi, di tal guisa che il verificarsi di uno solo di essi consente al Fisco di qualificare la residenza fiscale in Italia.

In sede di conclusioni, pare doveroso osservare che, in genere, un tentativo del Legislatore che vada nella direzione di modificare i parametri formali ricercando piuttosto la sostanza, è sicuramente apprezzabile. Peraltro, francamente, lo sforzo compiuto appare alquanto insufficiente e resta l’amaro in bocca per l’ennesima occasione sprecata.

Oltre a ciò, considerato il tenore letterale della novella, resta tuttora il timore – più che fondato – di contenziosi nei quali i contribuenti saranno ancora una volta vittime di un’ingiustificata inversione dell’onere della prova, in assoluta controtendenza rispetto alla sbandierata certezza del diritto. Invero, la legge imporrebbe all’Agenza delle entrate di dimostrare l’esistenza di uno degli anzidetti tre criteri. Ciononostante, nella pratica, abbiamo visto spesso delle incomprensibili inversioni dell’onere della prova a carico del contribuente, per giunta avallate da taluna giurisprudenza.

Ecco, almeno sotto questo punto di vista, una riscrittura più puntuale ed esente da qualsivoglia interpretazione soggettiva della norma, sarebbe parsa doverosa e, proprio nell’ottica di perseguire gli obiettivi dichiarati, avrebbe drasticamente diminuito il volume del contenzioso, quanto meno in previsione futura.

*ODCEC Roma

#società #lfiscalitàinternazionale #residenza #decretolegislativo

IL SALARIO MINIMO “GIURISPRUDENZIALE”

 

di Andrea Sella*

 

Il salario minimo stabilito per legge ha visto un acceso dibattito politico nell’estate e nell’autunno del 2023. Quest’estate sembra più di moda la discussione sullo “ius scholae”. Resta il fatto che la Direttiva che aveva dato lo spunto per la trattazione dell’argomento, la DIR. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, è stata inserita nella Legge 21 febbraio 2024, n. 15 che conferisce la Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee 2022-2023. Il provvedimento è entrato in vigore il 10 marzo 2024 ed entro dodici mesi dovrebbe essere recepita la Direttiva. Quindi non è escluso che l’argomento ritorni di stretta attualità politica.

Oggetto del presente contributo non è però l’approccio normativo.

In proposito, ci si limita ad evidenziare che la Direttiva non obbliga in modo esclusivo gli Stati ad istituire un salario minimo legale, inteso come un minimo comune a tutti i lavoratori, prevedendo, in alternativa, la garanzia dell’adeguatezza dei salari minimi tramite la contrattazione collettiva, obbligando comunque gli Stati membri ad adottare misure per rafforzarla con particolare riferimento ai livelli retributivi. Solo qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva in un Paese risulti inferiore all’80%, è richiesta l’adozione di un piano dettagliato di misure, elaborate in consultazione o concordate con le parti sociali, dirette a elevare progressivamente il suddetto tasso. Non viene neppure imposta l’attribuzione di una generalizzata efficacia dei contratti collettivi.

In Italia, la copertura sindacale degli accordi è, se non corrispondente alla totalità dei settori, molto prossima al 100%, quindi la previsione di un salario minimo legale sarebbe una scelta politica e non una imposizione sovranazionale.

Nel nostro Paese, in realtà, la discussione sul salario minimo o, più correttamente, adeguato non si è mai sopita nella giurisprudenza giuslavoristica che, in occasione dell’emanazione della citata Direttiva, ha avuto nuovo slancio e nuovi spunti argomentativi.

Non è possibile trascurare il fatto che il fondamento della retribuzione “adeguata”, nella nostra civiltà giuridica deriva dalla Costituzione che all’art. 36 prevede il diritto “in ogni caso” ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Ovviamente, tutti i principi vanno declinati nel concreto e la giurisprudenza ha avuto molte occasioni di pronunciarsi.

La prima domanda che ci si pone è quale contratto collettivo prendere a riferimento e quindi adottare.

La risposta è di solito abbastanza scontata, ovvero quello stipulato per un determinato settore, dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Si pone però il problema di capire quali siano, perché la risposta non è in realtà così scontata.

Recentemente, anche l’art. 51, d.lgs. 81/2015 ha stabilito che «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché quelli stipulati dalle loro RSA, ovvero dalla RSU».

E’ noto il problema dei c.d. contratti collettivi “pirata” o dei sindacati detti di comodo o “gialli”.

Un tentativo di arginare il problema è stato fatto con gli accordi interconfederali del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e con il c.d. T.U. sulla rappresentanza sindacale del 2014 e successive integrazioni, i quali hanno in sintesi:

  1. a) introdotto la misurazione della rappresentatività per allargare la partecipazione negoziale;
  2. b) assunto come cardine del sistema a tutti i livelli il principio di maggioranza;
  3. c) adottato lo strumento del controllo “popolare” a livello interconfederale, di categoria e aziendale;
  4. d) aperto il sistema ad una maggiore aziendalizzazione, prima affidata alla contrattazione di produttività, estendendola alla contrattazione in deroga e ammettendo l’efficacia di contratti anche separati (rappresentatività espressa attraverso le R.S.A.).

Perno del nuovo sistema è la misurazione della rappresentatività sindacale “ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria” (T.U., parte prima, punto 1) affidata all’Inps (per la rilevazione del numero delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori). Spetta ad un comitato di composizione triangolare (un rappresentante del Ministero del lavoro che è anche presidente, due di Confindustria, e poi “tutte le OO.SS. che raggiungano la soglia del 5% di rappresentanza sulla base dell’ultimo dato della rappresentanza certificato”) proclamare il risultato annuale della misurazione e certificazione della rappresentanza “per ogni singolo contratto nazionale censito”. La soglia di rappresentatività per l’ammissione al tavolo delle trattative nazionali è fissata al 5%.

Nella prassi giurisprudenziale, a quanto consta, tale meccanismo non ha trovato grande applicazione con riferimento alla verifica della rappresentatività delle Organizzazioni Sindacali da considerare maggiormente rappresentative in funzione della adeguatezza dei livelli retributivi previsti nei rispettivi contratti collettivi.

La giurisprudenza tradizionalmente ha declinato l’art. 36 Cost., evidenziando la necessità di cercare parametri di riferimento che per lo più sono stati individuati nella contrattazione collettiva nazionale di categoria ma anche territoriale o aziendale, ritenuta, in via presuntiva, indice di proporzionalità e sufficienza del trattamento retributivo.

In ipotesi di rapporti non tutelati da uno specifico contratto collettivo, il giudice può utilizzare la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell’attività svolta dal datore di lavoro o, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe.

Ma anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro applichi un contratto proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta, il giudice può richiamare la disciplina di un contratto collettivo diverso e quindi anche quello di categoria non applicandolo direttamente, ma prendendolo a riferimento per la determinazione della retribuzione costituzionalmente adeguata.

Vi sono poi altri parametri che possono essere considerati quali le caratteristiche in concreto dell’attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi.

Pertanto il giudice gode di una certa discrezionalità nella scelta dei canoni da considerare, purchè motivi adeguatamente i criteri seguiti.

È evidente quindi che anche la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi costituzionali.

Ne discende anche che è onere del lavoratore allegare il tipo di lavoro svolto, la paga ricevuta nonché le motivazioni che ritengono inadeguato il trattamento praticato nei suoi confronti in raffronto con la contrattazione collettiva applicata.

Piuttosto numerose sono le decisioni sul tema, con riguardo al lavoro in cooperativa, in applicazione del riferimento normativo previsto dall’art. 3,1° comma, della legge 142/2001, dove è previsto un espresso rinvio ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.

Anche in tali casi la giurisprudenza ha ribadito il proprio ruolo nell’interpretazione dei canoni costituzionali rispetto al salario previsto dalla normativa di riferimento sopra richiamata.

Il dibattito sul salario minimo, almeno dal punto di vista giurisprudenziale ha avuto recenti riscontri con riferimento al settore della vigilanza e del portierato che in certi punti si sovrappongono, ma con differenti livelli retributivi e con diversi contratti collettivi astrattamente applicabili.

La giurisprudenza di merito sul punto si è dimostrata piuttosto restrittiva.

Per tali motivi, vasta eco hanno ricevuto le Sentenze della Cassazione n. 27711 del 2 ottobre 2023, n. 27713 e n. 27769/2023[1].

Tali Sentenze hanno avuto modo di ribadire tra l’altro che il giudice:

  1. può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, eventualmente mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale;
  2. quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato, può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271 del 10/06/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice;
  3. può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art. 2070 c.c., e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (sentenza Cass. n. 7157 /2003, Sezioni unite n. 2665/1997);
  4. fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017, Cass. 2758/2006, Cass. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).
  5. il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 1987/2791, Cass. n. 1985/2193, Cass. n. 24449/2016).

Più volte i giudici hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. nn. 14211/2001, 5519/2004, 27591/2005, 24092/2009, 3918/1982).

Inoltre, come già rilevato nella sentenza n. 24449/2016, a seguito del mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita, è stato ritenuto legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’art. 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”.

La novità delle recenti sentenze della Cassazione sopra richiamate sta nel riferimento esplicito al considerato n. 28 della direttiva UE 2022/2041, secondo il quale «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali», rendendo più moderno il concetto di vita libera e dignitosa, ricomprendendo non solo la mera sussistenza ma anche la realizzazione di una vita sociale altrettanto degna ed adeguata.

Resta sullo sfondo l’aspetto delle allegazioni dei motivi in fatto da porre a base della decisione che il lavoratore ha l’onere di esporre. Tuttavia, con riferimento a tale onere ed in generale a quello probatorio i citati arresti giurisprudenziali hanno chiarito che, “in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento. Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002)….omissis…” “Inoltre, la violazione dell’art. 36 Cost., è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979, sul punto anche Cass. n. 1255 del 1976 e n. 2380 del 1972)”.

Su solco della recente giurisprudenza della Cassazione, si ritiene di dover segnalare la Sentenza della Corte di Appello di Torino del 6 giugno 2024 n. 237 che ha avuto modo di valorizzare la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni quale parametro di adeguatezza della retribuzione, raffrontando due diversi CCNL per quanto in settori affini.

Il caso riguarda un lavoratore a cui era applicabile il CCNL ANISA, relativo tra l’altro agli addetti alla sicurezza antincendio sulle autostrade, in rapporto al CCNL ANGAF relativo all’analogo servizio delle c.d. Guardie ai Fuochi, in pratica il servizio antincendio in porti, autostrade, luoghi privati, ecc.

Occorre premettere che il CCNL ANGAF è stato adeguato nel 2019 con un aumento della retribuzione pari alla svalutazione monetaria rispetto alla precedente tornata, mentre il CCNL ANISA è stato rinnovato solo nel 2022 per un importo decisamente inferiore e non prevedeva alcun sistema di indennizzo della c.d. vacanza contrattuale in attesa dei futuri rinnovi, che nel caso specifico mancavano dal 2011.

La Corte d’Appello ha quindi fatto espressa e piena applicazione dei principi richiamati dalla citata giurisprudenza della Cassazione del 2023, prescindendo da parametri rigidi e teorici quali la soglia di povertà dell’Istat, ma ha dato particolare rilievo al tempo intercorso tra le tornate di rinnovo contrattuale e alla mancanza di adeguamento delle retribuzioni rispetto all’aumentato costo della vita.

Che tale soluzione non fosse scontata è reso evidente dal fatto che il Tribunale in primo grado aveva respinto la domanda, rifacendosi ad una impostazione concettuale più tradizionale ma certamente più rigida.

 

Si può pertanto affermare che, forse sulla spinta della Direttiva citata, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora che di merito, abbia voluto rimarcare e legittimare il proprio ruolo di “regolatore” dell’adeguatezza della retribuzione rispetto ai canoni costituzionali, forse volendo chiarire che un vero e proprio salario minimo di fonte legale non è così necessario e, se vi sarà, probabilmente la giurisprudenza rivendicherà anche in futuro la propria funzione interpretativa in chiave costituzionalmente orientata della normativa qualora introdotta.

 

*Avvocato in Biella

#salariominimo#retribuzioneadeguata#sentenzesalariominimo#parametriretributivi

[1]  Vedasi, tra gli altri, “Il Lavoro nella Giurisprudenza 11/2023 con nota di Milena d’Oriano – La Cassazione sul salario minimo costituzionale: squarciato il velo sul lavoro “povero”, pagg. 1032 ss.

INCREMENTO OCCUPAZIONALE NEL 2024:

 LA MAXI DEDUZIONE C’È MA NON CONVIENE A TUTTI

di Maurizio Centra*

 

L’art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 ha introdotto nel nostro ordinamento un’agevolazione temporanea a favore degli imprenditori e dei professionisti che aumenteranno l’organico del personale dipendente nell’anno 2024, rispetto alla media dei lavoratori occupati nell’anno precedente (c.d. maxi deduzione), le cui modalità di attuazione sono state stabilite con il decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Nell’attesa che si completi la revisione del sistema di imposizione sui redditi delle società e degli enti (ex art. 6, legge 9 agosto 2023, n. 111) e delle agevolazioni a favore degli operatori economici, il suddetto provvedimento ha stabilito che per l’anno 2024, precisamente per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, ai titolari di reddito d’impresa e agli esercenti arti e professioni, è consentito dedurre dal reddito il costo del personale dipendente incrementativo, assunto nello stesso anno a tempo indeterminato, maggiorato del 20% (venti per cento).

Ambito applicativo

Possono usufruire dell’agevolazione in discorso i soggetti che si trovino in condizioni di normale operatività, di conseguenza, ne sono esclusi quelli sottoposti a procedure di liquidazione volontaria o giudiziaria come pure ad altri istituti liquidatori regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza (decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14), come il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, gli accordi o il piano di ristrutturazione, il concordato minore e il concordato preventivo. Inoltre, sono esclusi dall’ambito applicativo della maxi deduzione anche i soggetti esercenti attività per le quali il reddito non è determinato in modo analitico, come i contribuenti forfetari e le imprese marittime che hanno optato per la c.d. tonnage tax.

A condizione che si trovino nelle suddette condizioni, la platea dei soggetti che possono usufruire dell’agevolazione è composta da:

  • società di capitali, quali s.p.a, s.a.p.a., s.r.l., società cooperative e di mutua assicurazione, ed enti che svolgono attività commerciale in via esclusiva o principale, di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b) del D.P.R. 917/1986 (Tuir);
  • enti non commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lettera c) del D.P.R. 917/1986 (Tuir) limitatamente ai lavoratori nuovi assunti nel 2024 e impiegati in attività commerciali;
  • soggetti non residenti, di cui all’art. 73, comma 1, lettera d) del D.P.R. 917/1986 (Tuir), che svolgono attività commerciali in Italia mediante una stabile organizzazione e limitatamente ai lavoratori nuovi assunti nel 2024 e impiegati in tali attività commerciali;
  • imprese individuali, anche nella forma di imprese familiari o aziende coniugali;
  • società di persone ed enti equiparati, di cui all’art. 5 del D.P.R. 917/1986 (Tuir);
  • lavoratori autonomi, anche organizzati in forma di associazione tra professionisti o società semplice.

Condizioni generali

Per usufruire dell’agevolazione si debbono verificare le seguenti condizioni:

  • il soggetto (datore di lavoro) deve aver esercitato l’attività nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023 per almeno 365 (trecentosessantacinque) giorni;
  • le nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2024 debbono determinare un incremento occupazionale netto, infatti, ai fini dell’agevolazione, il numero dei dipendenti in forza a tempo indeterminato al termine del periodo d’imposta 2024, in pratica il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, deve risultare superiore al numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupati nel 2023 (periodo d’imposta precedente). Tenendo presente che l’incremento occupazionale va considerato al netto delle diminuzioni (per dimissioni o altre cause) verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.

Per stabilire il numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupati, si utilizza la formula di calcolo delle unità lavorative per anno (ULA), sommando i rapporti tra il numero dei giorni di lavoro previsti contrattualmente in relazione a ciascun lavoratore dipendente e trecentosessantacinque (o trecentosessantasei se il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023 include il 29 febbraio).

 Misura dell’agevolazione

Per il calcolo dell’agevolazione, occorre determinare il costo relativo all’incremento occupazionale netto (base di calcolo), sul quale applicare l’aliquota di maggiorazione (20%). A tal fine, la norma stabilisce che la maggiorazione si applichi al minore tra:

  1. il costo effettivo relativo ai nuovi assunti (stipendi, contributi, TFR, ecc.);
  2. l’incremento complessivo del costo del personale risultante dal bilancio di esercizio al 31 dicembre 2024 (conto economico ex 2425, primo comma, lettera B), numero 9), del codice civile), rispetto a quello relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2023.

A prescindere dalla iscrizione nel conto economico, sono esclusi dal costo del personale gli oneri accessori, quali: (i) buoni pasto, (ii) auto aziendali concesse in uso promiscuo, (iii) vitto e/o pernottamento in trasferta e (iv) aggiornamento professionale.

Per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio, il calcolo dell’agevolazione si esegue sulle corrispondenti voci di costo del personale di cui all’art. 2425 del codice civile.

 

Condizione specifica

Lo stesso art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 stabilisce, inoltre, che qualora al 31 dicembre 2024 (precisamente alla fine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023) il numero dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, risulti inferiore o pari al numero degli stessi lavoratori mediamente occupati nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023, non si beneficia dell’agevolazione.

 

Operazioni straordinarie e casi particolari

Lo scopo della norma, dunque, è quello di agevolare l’incremento occupazionale reale, per questo sono esclusi dal calcolo dell’incremento i lavoratori dipendenti in forza a seguito di trasferimento d’azienda o rami d’azienda ovvero di cessione del contratto individuale di lavoro, si sensi dell’art. 1406 del codice civile. Analogamente, sono esclusi dal calcolo dell’incremento i dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato precedentemente occupati presso altra società del gruppo e il cui rapporto di lavoro con quest’ultima sia interrotto a decorrere dal 30 dicembre 2023. Mentre sono inclusi nel calcolo dell’incremento i lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato se trasformato a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, in tal caso si può usufruire dell’agevolazione dalla data della trasformazione del contratto (Cfr. D.M. 25 giugno 2024, cit.).

Lavoratori meritevoli di particolare tutela

Per favorire l’assunzione di soggetti svantaggiati, individuati nell’allegato 1 al decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 (es. disabili, donne con almeno due figli minorenni, ecc.), l’aliquota di maggiorazione è aumentata dal 20% al 30%, limitatamente al costo del lavoro relativo all’incremento occupazionale netto dei soggetti svantaggiati.

 

Effetti sulla deducibilità degli interessi passivi

In materia di deducibilità degli interessi nella determinazione del reddito imponibile, l’art. 96 del D.P.R. 917/1986 (Tuir) stabilisce che “gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati, compresi quelli inclusi nel costo dei beni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, lettera b), sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza dell’ammontare complessivo:

  1. degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta;
  2. degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta precedenti ai sensi del comma 6”;

e che “l’eccedenza degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati rispetto all’ammontare complessivo degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di cui alle lettere a) e b) del comma 1 è deducibile nel limite dell’ammontare risultante dalla somma tra il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica del periodo d’imposta e il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica riportato da periodi d’imposta precedenti ai sensi del comma 7” (omissis).

Ebbene, la maxi deduzione riduce il risultato operativo lordo (ROL) del periodo d’imposta, di cui all’art. 96 del D.P.R. 917/1986 (Tuir), come precisato dalla Relazione illustrativa del decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con effetti (negativi) sulla deducibilità degli interessi passivi per il contribuente.

Altre considerazioni

La stessa norma che ha introdotto l’agevolazione fin qui illustrata (decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216), all’art. 5 sancisce l’abrogazione dell’aiuto alla crescita economica (Ace) a far data dal 2024 (“a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, è abrogato l’articolo 1 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 2014” – omissis), prima ancora che la riforma tributaria “in corso” stabilisca l’introduzione della aliquota Ires ridotta (15%), che dovrebbe applicarsi sugli incrementi del reddito imponibile. Appare, infatti, singolare non solo che l’abrogazione dell’Ace sia scollegata dall’introduzione di quella che potrebbe costituire un’agevolazione compensativa (aliquota ridotta Ires), ma anche che si rinunci ad uno strumento di collaudato utilizzo, che ha favorito l’incremento patrimoniale di molte società in un Paese caratterizzato dalla sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese, apparentemente senza un’adeguata valutazione in termini di politica economica.

I primi dubbi sui vantaggi che le imprese potranno ottenere dalla nuova agevolazione non sono arrivati solo dai professionisti ma anche dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), il quale ha rilevato che l’introduzione della maxi deduzione del costo del lavoro per incremento occupazionale “interesserà solo il 5,6% delle imprese, mentre il 25,3% delle imprese risulterà svantaggiato dalla soppressione dell’Ace” (Cfr. ANSA del 5 luglio 2024). Non ci resta che aspettare…

 

Ma, a ben vedere, c’è qualcuno che potrà ottenere dei vantaggi concreti dalla nuova agevolazione: le società di produzione di software! Infatti, le modalità di calcolo della maxi deduzione e le necessarie verifiche richiederanno l’utilizzo di nuovi servizi e procedure informatiche che, ragionevolmente, determineranno un incremento dei loro ricavi. Lo stesso non può certo prevedersi per i professionisti che assistono i datori di lavoro, che lottano quotidianamente con il famigerato “tutto compreso”.

 

*ODCEC Roma

 

#maxideduzione #lavoro #agevolazione #costodipendenti

PER  GARANTIRCI  UN  FUTURO  PREVIDENZIALE  SERENO

SIAMO  ANCORA  IN  TEMPO

Nell’ultimo  trimestre  dell’anno  in  Italia  l’argomento  della  Legge  di  Bilancio  diventa  di  estrema  attualità,  non  solo  nel  dibattito  tra  politici  e/o  addetti  ai  lavori,  ma  anche  nelle  conversazioni  tra  comuni  cittadini.  Tale  legge,  come  è  noto,  è  prevista  dall’art.  81  della  costituzione  (“lo  Stato  assicura  l’equilibrio  tra  le  entrate  e  le  spese  del  proprio  bilancio”  –  omissis)  e  la  sua  redazione  inizia  –  ogni  anno  –  con  la  comunicazione  che  il  Governo  deve  fare  al  Parlamento,  circa  le  previsioni  di  entrata  e  di  uscita  dell’anno  successivo.

Molto  più  di  altri  provvedimenti  legislativi,  la  Legge  di  Bilancio  genera  aspettative,  speranze  e  riflessioni  sul  futuro  dei  cittadini,  delle  comunità  e,  più  in  generale,  del  Paese.  Lo  confermano  le  frasi  ad  effetto  che  vengono  usate  per  illustrarne  le  caratteristiche  o  i  possibili  effetti,  come  “finanziaria  di  lacrime  e  sangue”,  “assalto  alla  diligenza”“equilibrio  sociale  trascurato”,  “previsione  di  crescita  irrealistica”,  “aspettative  tradite”,  ecc.  A  ciò  si  aggiunga  che,  visti  i  commenti  e  le  riflessioni  scaturite  dall’analisi  della  recente  Nota  di  aggiornamento  al  documento  di  economia  e  finanza  (NADEF),  presentata  alle  Camere  dal  Governo  entro  il  27  settembre  2024,  non  sarà  certo  l’anno  in  corso  a  fare  eccezione,  tutt’altro!

Considerando,  da  un  lato,  che  sempre  l’art.  81  della  costituzione  non  consente  di  introdurre  con  la  Legge  di  Bilancio  nuovi  tributi  e  nuove  spese,  a  differenza  di  quanto  può  accadere  con  la  Legge  di  stabilità,  e  impone  che  ogni  (diversa)  legge  che  importi  nuovi  o  maggiori  oneri  deve  prevedere  la  relativa  copertura  finanziaria,  e,  dall’altro  lato,  che  il  nuovo  Patto  di  Stabilità  dell’Unione  Europea  ha  previsto  in  4  anni  (estendibili  a  7),  il  tempo  a  disposizione  di  ciascuno  stato  per  risanare  i  conti  pubblici  e  ricondurre  il  deficit  sotto  il  3%  del  Prodotto  interno  lordo  (Pil)  nonché  il  debito  pubblico  sotto  il  60%  del  Pil,  quando  il  debito  pubblico  del  nostro  Paese  è  più  del  doppio  (137,3%  del  Pil  al  31  dicembre  2023)  e  nel  mese  di  luglio  2024  ha  sfiorato  i  2.950  miliardi,  è  facile  prevedere  che  quest’anno  il  compito  del  Governo  per  far  “quadrare  i  conti”  sarà  piuttosto  arduo.

La  riduzione  del  rapporto  tra  il  debito  pubblico  (numeratore)  e  Prodotto  interno  lordo  (denominatore)  è  più  agevole  se  il  contenimento  delle  spese  non  essenziali  è  associato  a  un  aumento  del  Pil,  ma  questa  ipotesi  non  sembra  potersi  verificare  in  Italia  nel  breve/medio  periodo,  infatti,  la  crescita  attesa  del  Pil  è  dell’1%  nel  2024  e  dell’1,1%  nel  2025  (fonte  Istat,  giugno  2024).  Quindi,  la  riduzione  del  debito  pubblico  prevista  dal  nuovo  Patto  di  Stabilità  dell’Unione  Europea,  che  è  un  obiettivo  positivo  per  il  Paese,  basti  pensare  solo  alla  conseguente  riduzione  degli  interessi  passivi,  dipenderà  in  modo  considerevole  dalla  riduzione  delle  spese,  incluse  quelle  destinate  alla  previdenza  e  all’assistenza  dei  lavoratori,  per  non  parlare  della  sanità.

In  questo  contesto  non  c’è  da  stupirsi  se  al  Ministero  del  lavoro  e  della  previdenza  sociale  è  “riapparsa”  l’ipotesi  di  imporre  il  trasferimento,  anche  parziale,  ai  fondi  di  previdenza  complementare  del  trattamento  di  fine  rapporto  (TFR),  regolato  dall’art.  2120  del  codice  civile,  alle  imprese  che  occupano  fino  a  50  dipendenti,  mentre  oltre  tale  soglia  dimensionale  l’obbligo  già  esiste  dal  2007,  per  il  100%  del  TFR  maturato  annualmente.

Poiché  in  gran  parte  delle  imprese  di  minori  dimensioni  non  sono  attive  forme  di  previdenza  complementare,  l’eventuale  obbligo  di  trasferimento  del  TFR  ne  determinerebbe,  almeno  per  i  primi  anni,  il  versamento  al  Fondo  di  tesoreria  dell’Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale  (Inps),  come  avviene  –  in  forma  piuttosto  diffusa  –  anche  nelle  imprese  di  più  grandi  dimensioni.  Questa  soluzione,  quindi,  consentirebbe  una  riduzione  dei  trasferimenti  –  per  cassa  –  di  risorse  dal  bilancio  dello  stato  a  quello  dell’Inps,  per  la  copertura  dei  disavanzi  di  alcune  delle  sue  gestioni.  Deduzione  che  trova  conferma  nel  XXIII  Rapporto  annuale  Inps  (settembre  2024),  dalla  lettura  del  quale  si  apprende  che  l’8%  delle  pensioni  dell’Istituto  è  di  tipo  assistenziale  e  che  l’età  media  di  uscita  dal  lavoro  è  stata  di  64,2  anni  nel  2023,  contro  il  requisito  anagrafico  di  67  anni  per  la  pensione  di  vecchiaia;  requisito  che  solo  dal  2027  sarà  adeguato  agli  incrementi  della  speranza  di  vita.

Sebbene  dal  1°  gennaio  2012  in  Italia  sia  stato  introdotto  il  metodo  contributivo  di  calcolo  delle  pensioni  e,  nel  contempo,  siano  state  abolite  le  pensioni  di  anzianità,  ancora  oggi,  anche  a  causa  di  provvedimenti  straordinari  (es.  quota  100/103),  tra  i  lavoratori  stenta  a  diffondersi  la  consapevolezza  della  necessità  di  costituire  una  copertura  previdenziale  integrativa  di  quella  obbligatoria,  per  garantirsi  un  trattamento  pensionistico  non  troppo  inferiore  al  livello  retributivo  raggiunto  prima  del  pensionamento.  Per  questo,  al  di  là  dei  possibili  vantaggi  per  i  conti  pubblici,  l’estensione  dell’obbligo  di  trasferimento  (totale  o  parziale)  del  TFR  ai  fondi  di  previdenza  complementare  può  costituire  una  soluzione  per  diffondere  la  cultura  previdenziale  e  far  capire  ai  lavoratori  che  con  la  sola  pensione  obbligatoria  il  loro  tenore  di  vita  è  destinato  a  cambiare  in  peggio  una  volta  “collocati  a  riposo”.

Senza  contare  che  nei  casi  di  carriere  lavorative  discontinue,  di  cambiamenti  di  regimi  previdenziali  nel  corso  degli  anni,  ad  esempio  da  lavoro  dipendente  ad  autonomo  e  viceversa,  come  pure  di  attività  svolte  all’estero,  c’è  il  rischio  concreto  che  il  trattamento  contributivo  assicurato  dalla  gestione  obbligatoria  non  sia  in  grado  di  raggiungere  il  livello  economico  minimo  per  un’esistenza  libera  e  dignitosa,  con  la  necessità  per  lo  stato  di  istituire,  in  futuro,  sistemi  di  assistenza  che  finirebbero  per  ridurre  sensibilmente  gli  effetti  della  riforma  previdenziale  del  2012  (legge  12  novembre  2011,  n.  183).

D’altronde,  l’Italia  è  uno  dei  paesi  occidentali  con  la  più  alta  età  media  della  popolazione  e,  negli  ultimi  venti  anni,  il  più  basso  tasso  di  crescita  dell’economia,  come  dimostra  l’andamento  del  prodotto  interno  lordo.  L’aumento  dell’età  media  è  dovuto  in  massima  parte  alla  riduzione  delle  nascite  e  all’innalzamento  dell’aspettativa  di  vita  che,  assieme,  costituiscono  vere  e  proprie  “mine”  del  sistema  di  previdenza  pubblica.  Le  modifiche  introdotte  negli  ultimi  anni  hanno  comportato  che  le  pensioni  calcolate  integralmente  con  il  sistema  contributivo  sono  più  basse  di  quelle  calcolate  con  il  previgente  sistema  retributivo,  in  rapporto  all’ultima  retribuzione  percepita  (c.d.  tasso  di  sostituzione).  Con  il  mutamento  del  sistema  di  calcolo  dei  trattamenti  pensionistici,  il  legislatore  ha  previsto  una  serie  di  istituti  volti  non  a  sostituire  ma  a  integrare  il  sistema  pensionistico  pubblico,  dei  quali  i  fondi  di  previdenza  complementare  sono  il  “perno  centrale”.  Il  primo  intervento  significativo  in  materia  di  previdenza  complementare  è  stato  il  decreto  legislativo  21  aprile  1993,  n.  124  “Disciplina  delle  forme  pensionistiche  complementari,  a  norma  dell’art.  3,  comma  1,  lettera  v),  della  legge  23  ottobre  1992,  n.  421”,  cui  ha  fatto  seguito  la  legge  8  agosto  1995,  n.  335  “Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e  complementare”,  anche  se  la  “riforma  delle  riforme”  si  è  realizzata  con  il  decreto  legislativo  5  dicembre  2005,  n.  252  “Disciplina  delle  forme  pensionistiche  complementari”,  che  ha  avuto  il  merito  di  accorpare  in  un  unico  testo  normativo  tutta  la  disciplina  della  previdenza  complementare,  compresi  gli  aspetti  fiscali,  al  fine  di  trasformare  questa  nel  “secondo  pilastro”  del  nostro  sistema  previdenziale.

L’articolo  2  del  decreto  legislativo  n.  252/2005,  individua  i  soggetti  che  possono  aderire,  in  modo  individuale  o  collettivo,  alle  forme  pensionistiche  complementari,  ossia  i  lavoratori  dipendenti  (pubblici  o  privati),  i  lavoratori  autonomi,  i  liberi  professionisti  e  i  soci  di  cooperativa.  I  fondi  pensione  previsti  dal  nostro  ordinamento  ai  quali  tali  soggetti  possono  aderire  sono:

  • fondi pensione  negoziali,  la  cui  adesione  avviene  su  base  collettiva  e  trovano  istituzione  per  effetto  di  contratti  e  accordi  collettivi,  anche  aziendali,  nonché  di  accordi  fra  soli  lavoratori  che,  in  realtà,  sono  i  meno  diffusi;
  • fondi pensione  aperti,  la  cui  adesione  può  avvenire  su  base  individuale  o  collettiva  e  trovano  anch’essi  istituzione  per  effetto  di  contratti  e  accordi  collettivi,  anche  aziendali,  nonché  di  accordi  fra  soli  lavoratori  ovvero  di  regolamenti  di  enti  ed  aziende,  qualora  i  rapporti  di  lavoro  non  siano  disciplinati  da  contratti  o  accordi  collettivi,  anche  aziendali;
  • fondi pensione  istituiti  dalle  Regioni,  cui  possono  aderire  i  lavoratori  dipendenti  che  svolgono  attività  lavorativa  nel  territorio  della  Regione  istitutrice  del  fondo;
  • fondi pensione  individuali,  la  cui  adesione  avviene  su  base  unicamente  individuale  e  trovano  attuazione  mediante  contratti  di  assicurazione  sulla  vita  con  finalità  previdenziale  (PIP);
  • fondi pensione  preesistenti,  ovvero  fondi  pensione  già  in  vigore  alla  data  del  15  novembre

Il  finanziamento  del  sistema  di  previdenza  complementare  per  i  lavoratori  dipendenti,  che  costituiscono  la  parte  preponderante  degli  aderenti,  avviene  (ex  art.  8  del  decreto  legislativo  n.  252/2005)  con  quote  integrali  del  trattamento  di  fine  rapporto  (TFR)  e/o  con  contributi  a  carico  sia  del  lavoratore  sia  del  datore  di  lavoro,  la  cui  entità  minima  e  massima  è  –  di  norma  –  stabilita  dai  contratti  e  dagli  accordi  collettivi,  anche  aziendali.  Gli  accordi  fra  soli  lavoratori  determinano,  invece,  il  livello  minimo  della  contribuzione  a  carico  degli  stessi.

Allo  scopo  di  incentivare  l’adesione  a  forme  di  previdenza  complementare,  il  decreto  legislativo  n.  252/2005  prevede  agevolazioni  tributarie  per  il  lavoratore  (aderente)  nonché  l’obbligo,  per  i  datori  di  lavoro  del  settore  privato  che  abbiano  alle  proprie  dipendenze  almeno  50  addetti,  di  versare  il  TFR  dei  lavoratori  in  forza  ai  fondi  pensione,  come  accennato  in  precedenza.  Per  consentire  al  lavoratore  di  decidere  in  modo  consapevole  la  destinazione  del  TFR,  laddove  sia  già  obbligatoria,  la  normativa  vigente  consente  –  entro  sei  mesi  dall’assunzione  –  di  scegliere  se  farlo  a  un  fondo  di  previdenza  complementare  o  lasciarlo  in  azienda,  sapendo  che  nel  caso  in  cui  decida  di  lasciarlo  in  azienda  il  TFR  è  versato  ad  un  apposito  fondo  dell’Inps,  denominato  Fondo  di  tesoreria  (citato  in  precedenza).

Per  garantire  un  futuro  previdenziale  sereno  ai  lavoratori  italiani,  in  particolare  a  quelli  nati  nel  periodo  del  c.d.  boom  economico  (1959-1963)  nel  quale  il  livello  delle  nascite  ha  raggiunto  il  massimo  assoluto,  i  soli  interventi  in  materia  di  previdenza  complementare,  potrebbero  non  essere  sufficienti,  a  causa  dell’attuale  andamento  demografico,  illustrato  plasticamente  da  alcuni  fatti  ben  noti,  come  la  “fuga  dei  cervelli”  (emigrazione  dei  giovani  laureati),  la  riduzione  costante  della  natalità  (sei  neonati  e  11  decessi  per  1.000  abitanti),  che  risulta  più  sensibile  nelle  aree  interne  del  mezzogiorno  (circa  il  5  per  mille  in  meno  sull’anno  precedente),  l’aumento  della  speranza  di  vita  alla  nascita,  che  ha  raggiunto  gli  83,1  anni,  e  l’aumento  del  popolazione  residente  straniera,  pari  a  5  milioni  e  308  mila  persone  al  1°  gennaio  2024  (fonte  Istat,  marzo  2024).

Proprio  l’impiego  di  lavoratori  stranieri  residenti,  congiuntamente  ad  una  politica  economica  che  favorisca  la  crescita,  prevalentemente  mediante  iniziative  di  ricerca,  sviluppo  e  innovazione  (pubbliche  e  private),  coordinate  con  quelle  degli  altri  paesi  dell’Unione  Europea,  può  costituire  l’ulteriore  leva  per  accelerare  l’aumento  del  Pil  ed  evitare  all’Italia  il  declino  che  –  diversamente  –  potrebbe  essere  inevitabile.

Visto  che  uno  dei  vantaggi  della  globalizzazione  è  quello  di  poter  “attrarre”  dall’estero  le  risorse  umane  migliori,  cosa  che  già  accade,  ad  esempio,  con  gli  ingegneri  indiani  nel  settore  dell’informatica,  con  una  politica  migratoria  funzionale  agli  obiettivi  di  crescita  economica  si  potrebbe  non  solo  “rimpiazzare”  i  lavoratori  che  andranno  in  pensione  nei  prossimi  anni,  ma  anche  accrescere  il  livello  qualitativo  delle  attività  più  evolute  in  settori  strategici  per  il  Paese.  Nel  contempo,  con  risorse  umane  di  diversa  professionalità,  si  potrebbero  anche  “riempire”  i  crescenti  vuoti  di  organico  in  attività  tradizionali,  come  le  costruzioni,  i  trasporti,  il  turismo,  i  pubblici  esercizi  e  i  servizi  domestici,  solo  per  fare  degli  esempi.

Ricordando  che  il  sistema  della  previdenza  si  basa  su  previsioni  di  lungo  periodo,  prevalentemente  attuariali,  si  ritiene  che  nel  nostro  Paese  sia  possibile  –  con  pochi  interventi  –  migliorarne  i  livelli  di  “copertura”,  con  vantaggi  sia  per  i  lavoratori  sia  per  lo  stato.

La  Redazione

 

#futuro  #pensione  #TFR

a cura della Redazione 

 Gli iscritti all’Albo dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili sono circa 120 mila su tutto il territorio nazionale e, in base alle informazioni disponibili, il 25%, quindi circa 30 mila, si occupa sistematicamente di diritto e pratica del lavoro, oltre che di materie connesse e complementari, come fiscalità del lavoro, previdenza e assistenza, organizzazione del lavoro, pari opportunità, welfare aziendale, processi di esternalizzazione del lavoro, reti d’impresa, ecc. Continua a leggere

di Graziano Vezzoni*

In attuazione di quanto previsto dagli articoli 26, c.7 bis, e 30, c.1 bis del D.Lgs n.148 del 2015 ed in seguito alle modifiche apportate dal DM 8.08.2023 al Decreto interministeriale n.90401 del 2015, viene previsto il passaggio dal FIS al Fondo Solimare dei datori di lavoro marittimo a prescindere dal numero dei dipendenti. Con la circolare n.16 del 23.01.2024, l’Inps ci fornisce le istruzioni operative per l’adeguamento. Continua a leggere

di Paolo Soro*

Una delle novità apportate con il D.lgs. 209/2023 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, è la disciplina scritta nell’art. 6 (Trasferimento in Italia di attività economiche), che – di fatto – inaugura una sorta di inedito “Regime Impatriati” per imprese, società e associazioni professionali. La disposizione punta evidentemente a promuovere lo svolgimento nel territorio dello Stato italiano di attività economiche completando l’offerta concernente il lavoro dipendente, assimilato e autonomo. La nuova regolamentazione 2024 per gli impatriati vede espunta la previsione contenuta nel comma 1-bis, art. 16, D.lgs. 147/2015 e pertanto, il reddito di impresa risulta esserne completamente escluso. Continua a leggere

di Filippo Moschini*

L’intento dell’odierna normativa in materia di dimissioni di cui all’art. 26 del D. Lgs n. 151 del 14.09.2015 era finanche meritevole, mirando infatti a contrastare l’odioso fenomeno delle “dimissioni in bianco” in base al quale in passato molte lavoratrici e lavoratori, al momento dell’assunzione, si vedevano sottoporre alla firma non solo il contratto di lavoro, ma anche una loro lettera di dimissioni che il datore di lavoro, a proprio piacimento, avrebbe potuto poi tirare fuori dal cassetto, datare e far valere, laddove in futuro non avesse più inteso proseguire il rapporto lavorativo. Continua a leggere

di Stefano Lapponi*

Il DL 7.5.2024 n. 60 (c.d. DL “Coesione”) prevede, tra le altre, una serie di misure volte ad incentivare l’autoimpiego e le assunzioni di soggetti caratterizzati da particolari condizioni soggettive e territoriali. Nelle intenzioni del legislatore il decreto è volto “a realizzare la riforma della politica di coesione inserita nell’ambito della revisione del PNRR, al fine di accelerare e rafforzare l’attuazione degli interventi finanziati dalla politica di coesione 2021-2027 e mirati a ridurre i divari territoriali introducendo una serie di novità in materia di lavoro”. Continua a leggere

di Marco D’Orsogna Bucci*

Contesto normativo: D.lgs. 231/2001

La materia della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato è regolamentata dal D.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 – Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società edelle associazioni ancheprivedipersonalità giuridica, nei limiti e con l’osservanza dei principi e criteri direttivi indicati nella legge delega 29 settembre 2000 n. 300.  Continua a leggere