di Francesco Genna, Erika Pietrocola e Simona Gentile*

L’ATS Brianza ha attivato la Campagna informativa “Impariamo dagli errori” raccontando, sul sito Web aziendale, alcune dinamiche infortunistiche di casi indagati, con la speranza che l’informazione su questi eventi contribuisca a ridurre la possibilità del ripetersi ancora di infortuni con le stesse dinamiche.

La campagna “Impariamo dagli errori” è stata ideata per offrire alle imprese un “archivio” di esperienze e conoscenze relative alle dinamiche infortunistiche che si sono verificate nei vari settori di attività, con l’intento di fornire anche indicazioni utili per la prevenzione. L’obiettivo principale è quello di offrire delle schede come strumento di supporto e consultazione per la gestione della salute e sicurezza sul lavoro in azienda.

Le schede possono essere utilizzate durante le attività formative, dove è più efficace la visione e la discussione di casi concreti di infortuni che hanno coinvolto lavoratori con le stesse mansioni, consentendo al lavoratore di immedesimarsi più facilmente nella situazione descritta.

Il principio sul quale è basato tale progetto può sintetizzarsi con il motto “conoscere per prevenire”. Difatti, la conoscenza delle dinamiche incidentali può aumentare la consapevolezza di possibili situazioni di pericolo e rischio e supportare il datore di lavoro nell’adozione di misure di prevenzione e protezione e i lavoratori nel loro rispetto.

Tra gli obiettivi della campagna, vi è anche quello di esaminare eventi poco esplorati dal sistema di prevenzione: i near-miss, ovvero quelli eventi incidentali che non hanno avuto conseguenze lesive per le persone. Raccogliere, analizzare e condividere le informazioni sui near-miss rappresenta una opportunità di miglioramento e uno strumento per la prevenzione degli infortuni. È stato possibile accedere a tale fonte informativa solo grazie al diretto e prezioso contributo di alcune imprese, che hanno messo a disposizione del gruppo di lavoro le informazioni sugli incidenti accaduti nei luoghi di lavoro.

La Campagna è svolta in collaborazione con altri operatori Tecnici della Prevenzione di alcune Ats Lombarde, personale INAIL nazionale, Inail di Monza e con il coinvolgimento di alcune Associazioni datoriali dell’industria, dell’Edilizia e dell’Agricoltura del territorio di ATS Brianza.

Il modello di analisi utilizzato nella realizzazione delle schede d’infortunio è quello “multifattoriale a scambio di energia” del metodo Infor.Mo (ex Sbagliando s’impara) adottato dal sistema si sorveglianza nazionale degli infortuni mortali e gravi, https://www.inail.it/nsol-informo/analisi.do, che prevede l’identificazione dei fattori di rischio (i cosiddetti determinanti ed eventuali modulatori) che hanno portato al verificarsi dell’evento. Per determinante si intende ogni fattore che concorre a determinare un incidente, aumentandone la probabilità di accadimento. Il modulatore, invece è quel fattore ininfluente sulla probabilità di accadimento, ma è in grado di aggravare o attenuare il danno che ne consegue dall’evento.

Il metodo è stato implementato con la collaborazione dell’Inail, inserendovi una classe di fattori di rischio remoti denominati Criticità organizzative alla base dell’evento per analizzare anche le carenze nell’organizzazione aziendale e nel suo sistema di sicurezza.

Nella parte finale la scheda contiene anche la rappresentazione grafica degli elementi, utile per ricostruire la sequenza logico-cronologica della dinamica infortunistica.

Le schede di infortuno e di incidente pubblicate in questa campagna, evidenziano in primo luogo la multifattorialità di ogni evento. L’infortunio è considerato come il risultato di una sequenza di eventi, perturbazioni e variazioni che intervengono nello svolgimento normale dell’attività lavorativa. Le azioni poste in essere dall’individuo vengono messe in relazione con altri fattori quali le attrezzature e l’ambiente. L’applicazione di questo modello fa emergere la considerazione che la sequenza degli eventi coinvolge fattori più o meno prossimi all’infortunio, includendo anche i fattori che sono maggiormente distanti dall’infortunio e che spesso vengono dimenticati.

Di conseguenza, tale multifattorialità degli eventi impone strategie che prevedano misure di prevenzione e di protezione individuate su molteplici piani di azione; il che significa mettere concretamente in atto, in azienda, più misure di sicurezza (attrezzature sicure, procedure di lavoro corrette, informazione, formazione, addestramento, vigilanza, ecc.) a tutela dei lavoratori. (Fig. 2 – Classificazione dei fattori di rischio individuati negli infortuni analizzati).

Si riportano di seguito i risultati di uno studio di analisi condotto sulle schede prodotte dal 2018 (anno di nascita della Campagna).

Risultati della campagna

I dati seguenti derivano dall’analisi delle schede realizzate fino al mese di Febbraio 2025. Per i 144 casi esaminati sono stati individuati 711 fattori di rischio.

Dall’analisi è emerso che i fattori di rischio si suddividono quasi equamente tra determinanti dell’incidente e criticità organizzative che ne sono alla base. I modulatori invece, rappresentano una quota minore.

Il 44% dei fattori è rappresentato dalle criticità organizzative.  Tra i determinanti al primo posto vi è l’attività dell’infortunato con il 20%, seguita dalle problematiche connesse alle attrezzature di lavoro 17%, l’attività di terzi 8%, l’ambiente 5%, materiali 4%, e DPI 2%.

Nelle criticità organizzative, i processi più coinvolti negli errori sono:

  • Carente Valutazione del rischio (32%)
  • Mancanza di procedure di lavoro (18%)
  • Assenza o inefficace formazione (18%)
  • Mancata vigilanza (10%)
  • Mancata o errata progettazione (7%)
  • Mancato coordinamento (2%)
  • Assenza o carenza di manutenzione (3%)
  • Non corretta gestione degli appalti (2%)
  • Errata installazione (2%)
  • Errata costruzione (2%)

Secondo il modello, i fattori di rischio vengono classificati come stato quando si tratta di una condizione di rischio pregressa e permanente, o come processo quando si tratta di un’azione dinamica come ad esempio un comportamento errato del lavoratore o la rottura di una protezione.

Nell’analisi dei casi trattati, sono stati rilevati per il 52% fattori determinanti di processo e per il 48% fattori determinanti di stato.

Anche l’analisi di questi fattori risulta fondamentale per comprendere come implementare le misure di prevenzione. Gli stati possono essere affrontati prima dell’incidente, in quanto rappresentano situazioni di rischio preesistenti, evidenti e legate alle criticità. Per quanto riguarda i fattori denominati processi, che si riferiscono alle azioni compiute dall’infortunato o da terzi, pur essendo più difficili da controllare, è possibile intervenire attraverso percorsi formativi e programmi di addestramento.

Utilizzando i dati raccolti, è stato possibile analizzare anche altre variabili: comparti, luogo dell’infortunio, attrezzature coinvolte e attività infortunato.

Il settore metalmeccanico e quello delle costruzioni sono i più colpiti da infortuni gravi. Per contrastare il continuo verificarsi di infortuni mortali facilmente evitabili con le misure di prevenzione, Ats Brianza ha sviluppato un Piano di Prevenzione mirato “Primo non morire”, accessibile al seguente link Primo, non morire, con l’obiettivo di sensibilizzare le aziende e fornire strumenti di valutazione e formazione per affrontare le situazioni lavorative che, per frequenza e gravità, causano la maggior parte degli incidenti mortali anche nel nostro territorio.

Il grafico seguente riporta le percentuali relative al luogo di di accadimento dell’infortunio. Si evince
che il reparto aziendale è il luogo in cui si registra il maggior numero di infortuni, seguito dai magazzini
e piazzali.

Riguardo le attrezzature di lavoro o gli altri agenti materiali che hanno determinato l’infortunio, troviamo le macchine di sollevamento e trasporto (27%), seguite dalle macchine di produzione (24%).

L’ATS Brianza affianca questo progetto ai Piani Mirati di Prevenzione (https://www.ats-brianza.it/ it/approfondimenti-sui-rischi-lavorativi-specificipiani-mirati-di-prevenzione-faq-e-informazioni/23master-category/cat-servizio-imprese/2228-pianimirati-di-prevenzione.html), ulteriore strumento che promuove un approccio proattivo orientato al supporto e assistenza alle imprese.

La Campagna è visibile direttamente a questo link: https://www.ats-brianza.it/it/casi-infortuni.html o più semplicemente utilizzando un motore di ricerca indicando “Ats Brianza impariamo dagli errori”.

*ATS Brianza

di Florianna Golino*

Fino a qualche decennio fa, il concetto sicurezza sui luoghi di lavoro veniva associato all’insieme delle misure, adottate dalle organizzazioni, per garantire le migliori condizioni ai lavoratori, intese come assenza di malattie professionali e danni cagionati da eventi accidentali (infortuni).

I decreti sulla sicurezza degli anni 50, infatti, che ponevano l’Italia in vantaggio rispetto agli altri paesi europei in merito alla sensibilità ai temi della sicurezza e salute dei lavoratori, erano incentrati fondamentalmente sulle “condizioni sicure”, da garantire sui luoghi di lavoro e, quindi, sul concetto di salute come assenza di infermità e di danni all’integrità fisica dei lavoratori.

Con il passare degli anni e con il recepimento delle direttive europee in materia di sicurezza sul lavoro, si è consolidata l’attenzione a questi temi, ma è anche emerso un dato molto significativo, che ha mutato l’accezione stessa del termine “salute” sui luoghi di lavoro, ovvero l’incidenza degli aspetti organizzativi sulla psiche dei lavoratori, che ha condotto all’attuale definizione di salute come stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o infermità (OMS).

Non a caso, l’introduzione, con il D.lgs. 81/2008, del rischio “Stress Lavoro correlato”, da valutare, alla stregua di tutti gli altri rischi per i lavoratori, all’interno del “Documento di Valutazione dei rischi”, che il datore di lavoro è obbligato a redigere, in collaborazione con il Medico Competente per la Sorveglianza Sanitaria ed il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. La metodologia di valutazione di tale rischio, implementata dal Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale e disponibile anche on line sulla piattaforma dell’Inail, prende in considerazione una serie di fattori contenuti in una “Lista di controllo” ed appartenenti alle tre aree: indicatori aziendali, contesto del lavoro e contenuto del lavoro.

Viene quindi valutata, tra le altre cose, la presenza e la relativa applicazione di procedure organizzative adeguate, che mettano l’azienda al riparo dai “rischi organizzativi o psicosociali” (rischi trasversali alle mansioni lavorative aziendali “derivati da una o più carenze dell’organizzazione, in termini gestionali, metodologici, operativi come un’insufficiente formazione, attribuzioni di responsabilità poco chiare, mancanza o inefficacia di procedure interne, scarso coinvolgimento, carenze metodologiche nell’analisi del rischio) e dagli innumerevoli effetti di tali inefficienze sulla salute dei lavoratori: “sintomi fisici, psichici e sociali legati all´incapacità delle persone di colmare uno scarto tra i loro bisogni e le loro aspettative e la loro attività lavorativa” (National Institute for Occupational Safety and Health).

Sono da attenzionare, quindi, in fase di valutazione, tutti i fattori, interni od esterni all’organizzazione, che possano portare a condizioni di stress, ivi compresi episodi, ricorrenti od occasionali, di mobbing, stalking occupazionale, straining, ma anche tutte le forme di discriminazione (come quelle legate al genere), o gli abusi e le molestie sui luoghi di lavoro.

Questi ultimi in particolare, seppur già genericamente ricompresi nella valutazione dello stress lavoro correlato, a seguito dell’emanazione della L. 15/01/2021 n. 4 (in attuazione dell’art. 9 comma c) della Convenzione 190 sull’eliminazione della Violenza e delle Molestie nel Mondo del Lavoro) devono essere oggetto di una specifica valutazione dei rischi relativi alla violenza e alle molestie, con la partecipazione dei lavoratori e dei rispettivi rappresentanti, ai fini dell’adozione di misure per prevenirli e tenerli sotto controllo.

Oggi sempre di più, in un’ottica di sostenibilità e di valori “ESG”, nella cornice dei sistemi di gestione e di organizzazione più vicini a queste tematiche, come il SGSSL conforme alla norma ISO 45001:2018 o il sistema di gestione sulla Parità di genere conforme alla prassi Uni Pdr 125:2022, l’attenzione del datore di lavoro e di tutti gli attori della prevenzione, che lo coadiuvano in tale difficile compito, deve essere incentrata al benessere generale del lavoratore, come parte dell’organizzazione, ma anche nel suo ruolo al di fuori di essa, in un perfetto equilibrio di conciliazione vita lavoro.

*ODCEC Caserta

LA RESPONSABILITA’ AMMINISTRATIVA EX ART. 25SEPTIES DEL D. LGS. N. 231/2001 ED I CONCETTI DI INTERESSE E VANTAGGIO DELL’ENTE NELLA SENTENZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 30813 DEL 29 MAGGIO 2024

 

di Marco D’Orsogna Bucci*

 

Una interessante sentenza della Corte di cassazione (n. 30813) del 29 maggio 2024 permette di introdurre ed esaminare il tema della responsabilità amministrativa ex decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231, “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000 n. 300”, in relazione ai reati in materia di sicurezza sul lavoro commessi nell’interesse e/o a vantaggio dell’ente.

Il caso specifico è un infortunio occorso nel 2016 ad una impiegata di una importante società multinazionale della moda. La dipendente svolgeva normalmente mansioni amministrative, operando in una postazione di lavoro classica: scrivania, sedia, personal computer. Il giorno dell’infortunio la lavoratrice era intenta ad aiutare una collega nella ricerca di prodotti, all’interno del magazzino dove c’era la postazione lavorativa appena descritta e, muovendosi, inciampava su un carrello appendiabiti, cadeva e si procurava una “infrazione del polo distale della rotula sinistra” con prognosi di guarigione definita nei 91 giorni successivi.

 

Contesto normativo

L’art. 2087 del Codice civile impone al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei lavoratori. La disciplina legislativa in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro ha sempre avuto un approccio giustamente prevenzionistico, con importanti riforme succedutesi nel tempo (d. lgs. 626/1994 e d. lgs. 81/2008) che hanno cercato di rendere “testo unico” una vasta regolamentazione tecnico-normativa.

Il d. lgs. 231 del 2001 introduce per la prima volta nel nostro ordinamento una responsabilità penale dell’ente, con strumenti sanzionatori, di natura pecuniaria e interdittiva, che incidono significativamente sul patrimonio e sulle attività economiche degli enti colpiti dalle misure.

 

Tra i reati presupposto che possono essere addebitati all’ente se commessi dai vertici aziendali, dai dipendenti e/o altre figure apicali, all’art. 25-septies figurano i seguenti due reati in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro:

 

Omicidio colposo (art. 589 c.p.)

È punita la condotta di chiunque cagiona per colpa la morte di una persona con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro.

 

Lesioni colpose gravi o gravissime (art. 590 c.p.)

È punita la condotta di chiunque cagioni ad altri per colpa una lesione personale grave o gravissima con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute e della sicurezza sul posto di lavoro.

A differenza delle altre ipotesi di reato presupposto previste nel d. lgs. 231/2001 che richiedono la sussistenza del dolo (coscienza e volontarietà dell’azione criminosa), i delitti di cui sopra sono puniti a titolo di colpa. A norma dell’art. 43 del Codice penale, il reato è colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Quanto al reato di lesioni, la distinzione tra grave e gravissima è la seguente.

La lesione è grave se:

  1. dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa ovvero una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni;
  2. il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.

La lesione è gravissima se dal fatto deriva:

  1. una malattia certamente o probabilmente insanabile;
  2. la perdita di un senso;
  3. la perdita di un arto o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;
  4. la deformazione ovvero lo sfregio permanente del viso.

 

I decreti legislativi 81/2008 e 231/2001 rappresentano oggi fonti normative che ruotano entrambe intorno al concetto di Valutazione del Rischio, ma con finalità diverse: i) prevenzionistico il Documento di Valutazione dei Rischi che è espressione documentale della valutazione effettuata, di vigilanza e ii) controllo il Modello Organizzativo ex d. lgs. 231/2001. Una affermazione di tale diversità la troviamo in una interessante sentenza di primo grado del Tribunale di Trani, sentenza 26/10/2009: E’ tuttavia evidente che il sistema introdotto dal d. lgs. 231/2001 impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla normativa antinfortunistica, onde evitare in tal modo la responsabilità amministrativa. Non a caso, mentre i documenti presentati dalla difesa sono stati redatti a mente degli artt. 26 e 28 del d. lgs. 81/08, il modello di organizzazione e gestione del d. lgs. 231/01 è contemplato dall’art. 30 del d. lgs. 81/08, segnando così una distinzione non solo nominale ma anche funzionale” e che sulla finalità a cui deve ispirarsi il Modello Organizzativo ex d. lgs. 231/2001 la definisce in questo modo “il modello immaginato dal legislatore in questa materia è un modello ispirato a distinte finalità che debbono essere perseguite congiuntamente: quella organizzativa, orientata alla mappatura ed alla gestione del rischio specifico nella prevenzione degli infortuni; quella di controllo sul sistema operativo, onde garantirne la continua verifica e l’effettività. Non è possibile che una semplice analisi dei rischi valga anche per gli obiettivi del d. lgs. 231/2001. Anche se sono ovviamente possibili parziali sovrapposizioni, è chiaro che il modello teso ad escludere la responsabilità societaria è caratterizzato anche dal sistema di vigilanza che, pure attraverso obblighi diretti ad incanalare le informazioni verso la struttura deputata al controllo sul funzionamento e sull’osservanza, culmina nella previsione di sanzioni per le inottemperanze e nell’affidamento di poteri disciplinari al medesimo organismo dotato di piena autonomia. Queste sono caratteristiche imprescindibili del modello organizzativo”.

Oltre alla finalità troviamo differenze anche rispetto ai destinatari, che sono i lavoratori per quanto concerne il Documento di Valutazione dei Rischi ex d. lgs. 81/2008, coloro i quali sono esposti al rischio di commettere reati colposi per quanto riguarda il Modello Organizzativo ex d. lgs. 231/2001. Il d. lgs. 81/2008, altresì, prevede al proprio interno (art. 30), come dovrebbe essere strutturato un modello integrato di organizzazione e gestione, ponendo l’accento su un aspetto fondamentale: che nel modello siano riportati i requisiti individuati dalla norma ma soprattutto che i contenuti siano efficacemente attuati. “Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l’adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate”.

Da qui l’importanza di una fattiva collaborazione tra Organismo di Vigilanza e funzioni del sistema prevenzionistico quali il Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione, il Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza, eventuali figure apicali con specifiche deleghe, non ultima la delega ex art. 16 co.1 del d. lgs. 81/2008.

 

La violazione del d. lgs. 231/2001: i concetti di “interesse” e “vantaggio”

Come noto, le condizioni di sussistenza della responsabilità amministrativa ex d. lgs. 231/2001, dando per scontato che siamo in una delle casistiche di cui ai reati presupposto quindi previste esplicitamente dal decreto legislativo, sono le seguenti:

– il reato deve essere commesso nell’”interesse” o a “vantaggio” della Società;

– il reato deve essere stato commesso da un soggetto apicale e/o da un soggetto sottoposto alla direzione o vigilanza dei soggetti apicali;

– l’ente ha omesso di adottare e/o efficacemente attuare un Modello di Organizzazione, Gestione e Controllo ex d. lgs. 231/2001.

Torniamo al caso affrontato dalla Cassazione con cui abbiamo introdotto il presente articolo. Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Firenze avevano dichiarato il datore di lavoro (figura coincidente con la carica di presidente del Consiglio di amministrazione) responsabile del reato di cui all’art. 590 del Codice penale, altresì la società quale responsabile dell’illecito amministrativo in relazione all’infortunio, con riferimento a quanto previsto dall’art. 25 septies del d. lgs. 231/2001. La difesa aveva puntato sulle dimensioni aziendali (società multinazionale), sulla complessità organizzativa e sulla conseguente impossibilità da parte del datore di lavoro di svolgere una completa attività di vigilanza su tutto il personale assunto.

Di norma è difficile pensare che da un infortunio sul lavoro (pensiamo ad esempio ai casi di omicidio colposo) l’ente possa trarne un vantaggio. L’analisi, tuttavia, va fatta sulla condotta illecita che ha portato al sinistro ed è probabile che si possa riscontrare in tale fase un interesse (anche solo tentato e non ottenuto). Secondo l’orientamento prevalente, dalla lettura dell’art. 5 del d. lgs. 231/2001, i concetti di “interesse” e “vantaggio” sono da considerarsi concorrenti ed alternativi, entrambi rilevanti per l’attribuzione della responsabilità amministrativa. “Interesse” come elemento valorizzato in situazione ex ante (indebito arricchimento tentato ma non per questo riuscito), “vantaggio” come dato oggettivo, che richiede una misurazione successiva al fine di quantificarne l’entità.

La Suprema corte, nella sentenza 30813/2024, riscontra un vantaggio di spesa per la società multinazionale in quanto la stessa ha mancato di organizzare il lavoro in un ambiente più grande. Affermano i giudici in tema della responsabilità amministrativa: “…alla società, la colpevole scelta gestionale in ordine alle dimensioni inadeguate del punto vendita in questione, finalizzata al vantaggio in termini di risparmio di spesa correlato alla mancata predisposizione di un ambiente di lavoro più ampio o ad una diversa organizzazione del sistema di approvvigionamento-conservazione in magazzino delle merci, oltre al costo correlato alla (omessa) formazione dei dipendenti in materia di sicurezza”. A seguito di tale sentenza alla società è stata applicata una sanzione pecuniaria pari a € 103.000,00, sulla base di quanto previsto dall’art. 12 del d. lgs. 231/2001, mentre per il reato ex art. 590 c.p. in capo al datore di lavoro è intervenuta la prescrizione.

I giudici della Suprema corte con la loro decisione confermano quindi la responsabilità amministrativa della società, come già era avvenuto nei primi due gradi di giudizio. Dalla lettura della sentenza, si deduce come la responsabilità dell’ente sia stata ricercata nella condotta del reo e le conseguenze per l’ente stesso (risparmio di spesa), ampliando quel principio consolidato in giurisprudenza che considera vantaggio il risparmio dovuto al mancato investimento in misure di prevenzione e protezione necessarie ad evitare il verificarsi di infortuni gravi e/o con esiti mortali.

Ricordiamo a tal proposito la sentenza di condanna alla società ThyssenKrupp per la nota tragedia che costò la vita a sette lavoratori. In quella circostanza i giudici stabilirono la condotta colpevole degli imputati che agendo nell’interesse della società avevano permesso il conseguimento di un preciso vantaggio economico pari all’entità dei finanziamenti stanziati per la messa in sicurezza della linea di produzione, ma non utilizzati in quanto era stata decisa la prossima chiusura dello stabilimento.

 

*ODCEC Lanciano

 

#sicurezzalavoro #lesionigravi #omicidio #infortunio

 

SICUREZZA SUL LAVORO: criteri di identificazione del datore di lavoro

di Raffaele Bergaglio*

 

In un settore del diritto come quello penale, dove tutto dovrebbe essere connotato da un livello di certezza tale da non lasciare dubbi interpretativi, non fosse altro che per le conseguenze che ne possono derivare, non è ancora del tutto pacifica la rosa soggettiva delle attribuzioni di responsabilità penale derivanti da infortuni sul lavoro.

Non vi è dubbio che i responsabili di un infortunio sul lavoro possano essere più di uno, tuttavia nel corso del tempo si sono avvicendati vari criteri di attribuzione della responsabilità.

Chi è il datore di lavoro? La sua figura coincide con il concetto civilistico di datore di lavoro consistente tendenzialmente nella titolarità cartolare del rapporto di lavoro?

Il problema, ovviamente, non si pone nelle imprese in cui, vuoi per scelta, vuoi per le dimensioni aziendali di piccola o media consistenza, vi è un unico amministratore, nel qual caso ricade su costui la qualifica di datore di lavoro, fatti salvi casi eccezionali, ma cosa accade di fronte ad organizzazioni più complesse, come molte società di capitali, amministrate tramite organi direttivi di tipo collegiale?

La definizione normativa di cui all’art. 2 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro a ben vedersi, fa riferimento sia ad un dato formale, costituito dal «titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», sia al dato sostanziale o fattuale di chi «ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa».

Questo dovrebbe di per sé essere sintomatico della volontà del legislatore di valorizzare entrambe le accezioni del datore di lavoro: quella di tipo civilistico, che riguarda la titolarità del rapporto lavorativo in senso contrattuale, e quella di tipo prettamente fattuale, che guarda all’esercizio concreto delle prerogative datoriali nell’organizzazione dell’impresa.

Recentemente la giurisprudenza si sta assestando su posizioni che cercano di mixare vari orientamenti succedutisi negli ultimi anni.

Di volta in volta le responsabilità in materia di sicurezza vengono ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che di solito rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unità organizzative, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Le Sezioni Unite della Cassazione, nella nota sentenza pronunciata per il caso ThyssenKrupp, hanno ribadito che “ruoli, competenze e poteri segnano le diverse sfere di responsabilità gestionale ed al contempo definiscono la concreta conformazione, la latitudine delle posizioni di garanzia, la sfera di rischio che deve essere governata”, sicché, “nell’ambito di organizzazioni complesse, d’impronta societaria, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l’organizzazione dell’istituzione, l’individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura” (Cass. Pen., S.U., 18.9.2014, n. 38343).

Così, con riferimento all’infortunio di un muratore, si è sostenuto che anche un soggetto estraneo all’organigramma aziendale possa assumere il ruolo di datore di lavoro e divenire destinatario della normativa antinfortunistica, in presenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici, dai quali possa desumersi l’effettivo esercizio di funzioni datoriali. Il datore di lavoro titolare degli obblighi prevenzionistici va individuato sia in colui che risulta parte in senso ”formale” del contratto di lavoro sia nel soggetto che ”di fatto” assume i poteri tipici della figura datoriale (Cass. pen. IV, 23.09.2016, n. 39499; ma v. altresì Cass. pen., Sez. IV, 23.10.2015, n. 2536).

Nelle imprese di grandi dimensioni, ampiamente articolate, si può determinare la contestuale presenza di un datore di lavoro al vertice dell’intera organizzazione, che pertanto potrebbe dirsi ”apicale”, e di uno o più datori di lavoro che potrebbero definirsi ”sottordinati”. Sennonché il ruolo datoriale di questi ultimi non elide il vincolo gerarchico verso il datore di lavoro apicale, che resta unico, con la particolarità che tale vincolo si esprime con modalità che non intaccano i poteri di decisione e di spesa dei datori sottordininati nella autonoma gestione delle unità produttive.

Quando, invece, il vincolo gerarchico con il datore di lavoro apicale si riflette anche sulle gestioni secondarie o sotto-articolate, è da escludersi che ricorrano anche datori di lavoro sottordinati, profilandosi piuttosto dei dirigenti, con la conseguenza che la responsabilità penale rimane totalmente in capo all’apicale. Ne deriva che nelle imprese articolate in una pluralità di unità operative, il datore di lavoro sottordinato è destinatario di tutte le prescrizioni che si indirizzano alla figura datoriale ancorché in funzione della gestione della sicurezza nell’ambito dell’unità organizzativa affidatagli. Esemplificando, egli sarà tenuto ad eseguire la valutazione di tutti i rischi connessi alle attività lavorative svolte nell’unità; a redigere il documento di valutazione dei rischi; a nominare il medico competente ed il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione (in tal senso v. Cass. pen., III, n. 9028 del 15.02.2022; Cass. pen. Sez. IV, n. 32899 dell’08.01.2021; Cass. pen. Sez. IV, n. 18200 del 07.01.2016).

Concludendo, per ciò che attiene alla sicurezza sul lavoro, non esiste un criterio univoco per individuare il datore di lavoro nelle organizzazioni complesse. La giurisprudenza oggi tende ad utilizzare entrambi i criteri previsti dall’art. 2 del TUSL, quello ”formale”, che identifica il datore di lavoro nel «soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», e quello ”sostanziale”, che lo individua nel «soggetto che … esercita i poteri decisionali e di spesa».

La conseguenza di tale impostazione è che nell’ambito degli organi direttivi collegiali, a seconda dei casi concreti che si prospettano, le responsabilità datoriali in materia di sicurezza saranno ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che normalmente rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unita, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Particolare rilievo nell’individuazione del datore di lavoro assume anche l’art. 28, D.lgs. 81/2008, dedicato all’«oggetto della valutazione dei rischi», atteso che la redazione del documento di valutazione di rischi (DVR), non può essere delegato da parte del datore di lavoro, a fronte di quanto previsto dall’art. 17 D.lgs. 81/2008. Tale documento, si ricorda, deve contenere la valutazione dei rischi per i lavoratori, l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione, l’individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidate a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Pertanto, la semplice disamina di tale documento e della sua sottoscrizione, tendenzialmente consente di identificare il soggetto originariamente tenuto a prevenire e governare il rischio medesimo.

Si deve tenere presente che esistono vari rimedi per sgravare il datore di lavoro della maggior parte degli obblighi incombenti sulla sua posizione di garanzia e sulle conseguenti responsabilità, ma di questo abbiamo avuto modo di parlare nello speciale sicurezza.

* Avvocato in Milano

#prevenzione; #RSPP; #sicurezza #datoredilavoro

di Florianna Golino*

Il concetto della parità di genere sui luoghi di lavoro, già affrontato in ambito sicurezza sul lavoro, con l’emanazione nel 2008 del D.Lgs. 81/08, recentemente è divenuto oggetto di particolare attenzione da parte delle organizzazioni tenendo anche conto i principi di sostenibilità “ESG”. Tra i rischi presenti sui luoghi di lavoro, infatti, da valutare ai sensi dell’art.28 del decreto e da trattare nel documento di Valutazione dei rischi (DVR), sono richiamati quelli connessi alle differenze di genere. Come per tutte le altre tipologie di rischio presenti sui luoghi di lavoro, anche questi ultimi devono essere contemplati nel DVR, documento che, come chiarito dall’art.2 del D.lgs. 81/08, deve contenere una “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protezione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”. Gli specifici aspetti da considerare nell’ambito della valutazione dei rischi sono gli effetti prodotti dalla differenza di genere sull’attività lavorativa ovvero, tenendo conto delle differenze che mediamente di fatto esistono dal punto vista “biologico” fra uomini e donne (statura, in genere inferiore nelle donne; volume polmonare, maggiore negli uomini; differenza nell’assorbimento e nella eliminazione degli agenti chimici; diverso rapporto tra esposizione al rumore di bassa intensità e danni extra uditivi; effetti degli agenti mutageni sul sistema riproduttivo femminile; vulnerabilità verso i rischi; ecc. ecc.) andrebbero adottate delle misure, per lo più organizzative, per evitare o quantomeno ridurre i possibili danni alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori, in relazione a tali aspetti, che non siano necessariamente riconducibili all’eventuale stato di gravidanza delle lavoratrici. Questa tutela, infatti, presente nel nostro ordinamento sin dalla Costituzione e con la L. 53/2000, è stata rafforzata con il D.lgs. 151/2001 (che, in un’ottica di parità e tutela sostiene la genitorialità, garantendo anche ai padri la possibilità di dedicarsi alla cura dei figli) e successivamente è stata recepita ed estesa con il Testo Unico della sicurezza (D.lgs. 81/08), nel quale sono stati considerati, come base per la valutazione dei rischi legati al genere, anche gli aspetti “socio ambientali”. Quindi, mentre da un punto di vista normativo risulta evidente un approccio “non neutrale”, ma attento alle diversità ed alla soggettività, dal punto di vista pratico questo approccio non è supportato da un riferimento metodologico standardizzato, come invece accade per altri rischi presenti sui luoghi di lavoro, quali ad esempio i rischi legati alla movimentazione manuale dei carichi, quelli da esposizione al rumore o alle vibrazioni, i rischi chimici, biologici, quelli da stress lavoro correlato e diversi altri. Per la valutazione di tali tipologie di rischio, infatti, esistono norme tecniche che rappresentano utili riferimenti per datori di lavoro, Rspp e medici competenti, ai fini della redazione del DVR per la parte ad essi dedicati e dell’adozione delle più adeguate misure di prevenzione e protezione. A fronte, quindi, di una normativa che stabilisce la tutela della salute nei luoghi di lavoro orientata al genere, le indicazioni riportate nella stessa non sempre risultano di facile applicazione.

Un altro aspetto strettamente connesso al tema della “sicurezze e parità di genere” e rientrante in quelli che vengono definiti “rischi psico sociali”, è quello degli abusi e delle molestie sui luoghi di lavoro. Queste fattispecie di rischio, a seguito del recepimento dell’Accordo Europeo sulle molestie e violenze nei luoghi di lavoro (2007), avvenuto soltanto nel 2016, e dell’emanazione della L. 15/01/2021 n. 4 (in attuazione dell’art. 9 comma c della Convenzione 190 sull’eliminazione della Violenza e delle Molestie nel Mondo del Lavoro), devono essere oggetto di una specifica valutazione dei rischi relativi alle violenze e alle molestie, con la partecipazione dei lavoratori e dei rispettivi rappresentanti, ai fini dell’adozione di misure per prevenirli e tenerli sotto controllo.

L’ Accordo europeo, anche se recepito in modo parziale (Accordo Confindustria, Cgil, Cisl, Uil) e ridottosi ad una dichiarazione di intenti con l’indicazione dei principi ai quali ispirarsi per gestire situazioni di molestie e violenze, senza quindi specificare procedure, obblighi /doveri e relative sanzioni, ha quantomeno chiarito definitivamente come la gestione delle molestie e delle violenze sui luoghi di lavoro debba prescindere dalla sua natura specifica (fisica, psicologica e/o sessuale). In ogni caso, infatti, occorre prevenirla garantendo la migliore assistenza alle vittime degli abusi, anche attraverso l’attivazione di una funzione di ascolto, e validi strumenti di punizione dei colpevoli.

La Legge 4 del 15 gennaio, invece, ha ampliato il concetto stesso di violenza/molestie, integrandolo con lo stress lavoro correlato, dando maggior risalto rispetto al passato ai rischi psicosociali e riconoscendo che la violenza e le molestie sul lavoro possono tradursi in danni per la salute psicologica, fisica e sessuale, per lo status economico, per la dignità e l’ambiente familiare e sociale della persona, da cui la necessità di valutare i fattori di rischio ed adottare misure di tipo preventivo e correttivo, a partire dai dispositivi di risoluzione delle controversie e di denuncia, ai meccanismi di supporto, ai servizi per il ricorso e risarcimento che tengano in considerazione la prospettiva di genere e che siano sicuri ed efficaci (art.10).

Anche la recente ISO 45003: 2021 Gestione della salute e sicurezza sul lavoro — Salute psicologica e sicurezza sul lavoro — Linee guida per la gestione dei rischi psicosociali tra i fattori sociali sul lavoro da valutare inserisce i concetti di “Violenza sul lavoro” (incidenti che comportano una sfida esplicita o implicita alla salute, alla sicurezza o al benessere sul lavoro; violenza interna od esterna che si traduce in abusi, minacce, aggressioni fisiche, verbali o sessuali, violenza di genere) e “molestie” quali comportamenti indesiderati, offensivi, intimidatori, di natura sessuale o non, che si riferiscono a una o più caratteristiche specifiche dell’individuo quali identità di genere, religione o credo, orientamento sessuale, disabilità ed età.

In conclusione, in un’ottica di sostenibilità e di valori “ESG”, considerando sistemi di gestione e organizzazione di tematiche vicine come il SGSSL, o lo specifico sistema di gestione sulla Parità di genere, conformi a relative norme e prassi, l’attenzione del datore di lavoro (e di tutti gli attori della prevenzione) deve essere incentrata sul garantire parità di trattamento, condizioni di salute e sicurezza.

A prescindere dal genere quindi (considerabile solo in funzione delle differenze biologiche e delle conseguenti assegnazioni dei compiti), l’attenzione deve essere rivolta alla tutela di lavoratori e lavoratrici verso possibili violenze, molestie, abusi , compresi altri rischi psico sociali, potenzialmente presenti sui luoghi di lavoro

*ODCEC Caserta

#sicurezzasullavoro #sicurezzadeilavoratori #tuteladeilavoratori #paritadignere #differenzedigenere #violenzasullavoro #esg #gestionedelpersonale #benesseresullavoro #benesserepsicologico #psicologiadellavoro #organizzazionedellavoro #prevenzioneesicurezza #inclusione #commercialistidellavoro #commercialisti #consulenzadellavoro #lavoro #noieillavoro

di Alice Salducco*

Durante i corsi di formazione sullo stress cito spesso una battuta di Giorgia Fumo che recita più o meno così: “andare al lavoro è diventato come andare all’asilo, piangi tutte le mattine”.
Piangere è uno dei segnali più potenti dello stress: un allarme che ci impone la necessità di prenderci cura di quello che sta succedendo. Ci indica che lo stress da positivo sta diventando negativo. Il pianto, così come altri sintomi, ci segnala che la situazione in cui ci si trova è “troppo”, ovvero che non ci sono le risorse necessarie per rispondere in modo adeguato e sostenibile per noi a quello che sta succedendo.

Quando il distress – lo stress negativo – diventa molto e si prolunga nel tempo, si può incorrere nella sindrome da burnout. Chi ne soffre? Sono maggiormente esposti al rischio di burnout coloro che si sentono sopraffatti dalla routine quotidiana o che sentono le proprie aspettative deluse. Il burnout è un fenomeno complesso che indica una situazione di malessere fisico e mentale, con punti in comune con patologie come gli stati d’ansia o gli stati depressivi.

Con il termine burnout facciamo riferimento a uno stato in cui le persone sperimentano esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione.

Proviamo a entrare nel significato di questi termini tecnici con delle immagini.

  • L’esaurimento è quella sensazione che proviamo quando abbiamo l’impressione di avere la nostra batteria scarica, di aver terminato le energie a disposizione per qualsiasi cosa. È diversa dalla stanchezza, perché il sonno e il riposo non sempre aiutano a contrastarla. Un’altra sensazione associata all’esaurimento è la percezione di avere esaurito lo spazio mentale a disposizione, “di essere arrivati”. Lo possiamo osservare sia su di noi, sia sugli altri. Sui colleghi, ad esempio, si osserva nella difficoltà di concentrazione, nelle dimenticanze o nei segni di stanchezza sul volto.
  • La depersonalizzazione è quella sensazione di vedersi da fuori, come se si osservasse il mondo da una telecamera che riprende anche noi nella stanza, a differenza di quello che succede normalmente (osservare il mondo dal nostro punto di vista). Si tratta di un sintomo che può essere sperimentato anche negli attacchi di panico. Questo sintomo dall’esterno è più complesso da osservare e da riconoscere.
  • La derealizzazione, invece, riguarda la sensazione di scollamento con la realtà, il percepirsi distanti da quello che sta succedendo in quel momento, e in alcuni casi anche la sensazione che ciò che si è come persona non corrisponda a ciò che si sta facendo nella vita. La derealizzazione la possiamo osservare nel modo in cui le persone intorno a noi parlano del loro lavoro, nel modo in cui si rapportano ai progetti futuri o all’aumento delle responsabilità.

Come avrete intuito leggendo, la sindrome da burnout indica che la persona si trova in una situazione di forte malessere. Questo tipo di diagnosi può essere effettuato da una figura che si occupa di salute mentale come il medico di base, lo psichiatra o lo psicologo. È qualcosa di cui di solito si accorge la persona che vive la situazione, nel momento in cui i sintomi iniziano a diventare un ostacolo per il proprio benessere fisico e psicologico.

E da fuori? Come mi posso accorgere che un collega, un collaboratore, una persona amica si trova in una situazione di burnout lavorativo? La cosa importante è osservare i cambiamenti a livello comportamentale: tutti quei comportamenti che differiscono molto dalla “normalità” della persona che avete conosciuto. Ad esempio: prima pranzava sempre, adesso salta il pasto; prima era una persona socievole e disponibile, adesso sta in disparte. Altri indicatori possono essere legati al modo in cui percepisce la responsabilità e il nuovo: l’idea di vedere aumentate le proprie responsabilità o l’essere ingaggiati in un nuovo progetto lavorativo diventano motivo di ansia, insoddisfazione e frustrazione.

A questo punto la domanda sorge quasi spontanea: e quindi cosa faccio? Cosa si può fare se sul posto di lavoro mi accorgo che qualcuno mostra segnali di difficoltà che da fuori sembrano simili al burnout? Per rispondere è necessario tenere conto che non possiamo sostituirci a chi si trova in difficoltà quando si parla di salute mentale. Una buona strategia può essere chiedere: “come posso aiutarti?”, “di che cosa hai bisogno?”. Lo stress, come abbiamo visto, è un fenomeno complesso in cui intervengono fattori individuali, fattori ambientali e fattori sociali.

A livello più globale poi, è possibile introdurre delle misure di contenimento e prevenzione sul luogo di lavoro che possono essere più focalizzate su interventi di tipo ambientale/sociale o più personali.

Strategie orientate all’ambiente:

  • Creare un ambiente di lavoro “sano”, in termini di gestione del tempo, dello stile di comunicazione, di leadership;
  • Riconoscere le prestazioni e le qualità dei lavoratori, ad esempio attraverso feedback e premi;
  • Investire sulla formazione dei manager.

Strategie orientate alla persona:

  • Ideare, pensare e offrire programmi specifici che possano accompagnare e sostenere il benessere dei gruppi più a rischio, ad esempio attraverso la formazione o il welfare;
  • Regolare il monitoraggio medico-psicologico, ad esempio attraverso il welfare con “check up a tema stress”.

*Psicologa in Magenta (MI)

#burnout #stress #lavoro #prevenzione #benessere #ansia

dii Paolo Belluco*

In Italia e in Europa, la sicurezza e la salute sul lavoro sono una questione di fondamentale importanza, sottolineata dall’alto numero di incidenti e patologie correlate al lavoro che continuano a verificarsi ogni anno. Nonostante le campagne di sensibilizzazione, c’è ancora molto da fare per educare alla cultura della sicurezza e garantire che tutti i lavoratori siano protetti e che le aziende possano operare in un ambiente sicuro ed efficiente. In questo contesto, diverse tecnologie innovative, tra le quali quelle indossabili (wearable device) stanno emergendo come strumenti chiave per migliorare la sicurezza e la salute sul lavoro.

Patologie Correlate al Lavoro e l’Importanza delle Tecnologie di Monitoraggio

Esiste un’altissima prevalenza di disturbi muscolo-scheletrici (DMS) nella forza lavoro europea, con oltre 100 milioni di cittadini europei che soffrono di DMS cronici, di cui 40 milioni attribuiscono direttamente questa problematica al proprio lavoro. Il 46% dei lavoratori europei riferisce dolori alla schiena, mentre il 43% ha dolori muscolari alle spalle, al collo e agli arti superiori (Fonte: Eurostat). È stato dimostrato che i DMS aumentano l’ansia, causano problemi di sonno, aumentano la fatica e riducono il benessere non solo fisico, ma anche mentale. I costi connessi ai DMS legati al lavoro hanno un elevato impatto, ammontando intorno al 2% del PIL europeo. Questi costi incidono direttamente sulla produttività aziendale. Inoltre, i DMS costano ai fondi pensione milioni di euro, contribuendo all’aumento dei costi dovuti all’invecchiamento della popolazione.

In Italia, secondo l’INAIL, queste patologie includono condizioni infiammatorie e degenerative delle articolazioni, dei dischi vertebrali, della cartilagine, dei muscoli, dei tendini, dei legamenti e dei nervi periferici. I DMS sono associati a fattori di rischio fisici, come la movimentazione manuale dei carichi (MMC), il sollevamento di carichi pesanti, movimenti ripetitivi e posture incongrue mantenute per lunghi periodi. I dati dell’INAIL evidenziano che, nel 2021, delle 55.202 denunce di malattia professionale, ben 38.472 (il 70%) riguardavano disturbi muscoloscheletrici. Inoltre, nello stesso anno, si è registrato un aumento del 22,8% delle denunce di malattia professionale rispetto all’anno precedente, in cui la pandemia da Covid-19 aveva temporaneamente attenuato il fenomeno. Questo aumento riflette la necessità urgente di intervenire con soluzioni efficaci per prevenire e gestire queste patologie, che rappresentano una parte consistente delle malattie professionali in Italia.

Le tecnologie indossabili (wearable computer)

In questo scenario, sta diventando sempre più rilevante l’adozione di tecnologie come i sistemi di monitoraggio indossabili (wearable computer device) basati su sensori, integrati nei vestiti o in altri oggetti indossabili (orologi, caschi, occhiali, etc.) che hanno la capacità di acquisire dati e di poterli inviare a piattaforme informatiche con la alta capacità di elaborazione ed interpretazione, data dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA). I dispositivi wearable per il monitoraggio e la valutazione dello stato psicofisico dei lavoratori sono tecnologie avanzate che, grazie a sensori integrati, raccolgono dati fisiologici come: la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, la respirazione, il movimento del corpo e molti altri segnali fisiologici. Inizialmente impiegati soprattutto in contesti medici e sportivi, questi dispositivi sono ora pronti per essere utilizzati anche nella sicurezza sul lavoro. Infatti, gli attuali dispositivi indossabili, wireless e miniaturizzati, permettono l’acquisizione di tutte quelle informazioni necessarie per il calcolo di appropriati indici che la letteratura scientifica ha dimostrato essere sensibili al livello di rischio e correlati alle variabili che generano il danno (Fonte: INAIL).

Immagine: Concept generato attraverso la AI.

L’uso di algoritmi di machine learning (i.e. una particolare branca della IA) permette una classificazione ottimizzata e automatica del livello di rischio biomeccanico durante l’esecuzione di attività di MMC.Il lavoratore può essere anche avvertito in tempo reale che si trova in una situazione di forte rischio di sovraccarico e può ridurre il rischio modificando il suo comportamento e preservando la propria salute e sicurezza.

Questi approcci strumentali possono essere utilizzati per stimare direttamente il rischio o per quantificare le variabili richieste dai metodi tradizionali. La possibilità di disporre di un analisi del livello di rischio accurato e preciso, in tempo reale, offre una maggiore capacità di prevenzione dei DMS. Questo approccio non solo riduce il rischio di infortuni, ma migliora anche l’efficienza complessiva delle operazioni produttive. Questi dispositivi (e la loro infrastruttura di calcolo) non si limitano a raccogliere dati e restituire un riscontro al lavoratore, in tempo reale, ma possono analizzare i dati per identificare potenziali rischi muscoloscheletrici a lungo termine. Possono quindi, individuare schemi e tendenze che segnalano l’insorgenza di disturbi come ad esempio, problematiche legate alla postura, arrivando anche a fornire raccomandazioni personalizzate per migliorare la postura o suggerire movimenti da eseguire per prevenire lesioni croniche.

L’Impatto Sociale ed Economico delle Tecnologie di Sicurezza

L’adozione di queste tecnologie per la sicurezza e salute sul lavoro avrà un impatto considerevole superando la semplice protezione fisica dei lavoratori. Queste innovazioni influenzeranno positivamente sia l’ambito sociale che economico, contribuendo a creare un ambiente di lavoro non solo più sicuro, ma anche più produttivo. Elenchiamo brevemente gli ambiti a nostro parere più significativi:

  • Riduzione dei Costi Sanitari e Assicurativi: uno degli effetti più immediati delle tecnologie di sicurezza è la sostanziale riduzione dei costi sanitari e assicurativi. Questo si traduce in significativi risparmi per le aziende, con una riduzione dei premi assicurativi, e per lo Stato, con un minore impatto economico sulla sanità pubblica.
  • Miglioramento della Produttività e Qualità del Lavoro: lavoratori che si sentono sicuri sono più motivati, diminuendo le assenze per malattia e mantenendo attiva la forza lavoro, riducendo le interruzioni nei processi produttivi. Inoltre, il monitoraggio in tempo reale delle condizioni lavorative permette di ottimizzare le operazioni, correggendo prontamente inefficienze o rischi. Questo non solo incrementa la produttività ma migliora anche la qualità complessiva del lavoro e dei prodotti o servizi offerti.
  • Vantaggio Competitivo e Sostenibilità per le Imprese: in un contesto economico competitivo, investire in tecnologie di sicurezza può essere strategico, anche in Italia, dove prevalgono le piccole e medie imprese (PMI). Le aziende che adottano queste soluzioni proteggono i loro dipendenti e migliorano anche la loro reputazione, attirando talenti e elevando il morale dei lavoratori, riducendo così il turnover e i costi di formazione dei nuovi assunti.
  • Benefici a Lungo Termine per la Società: una diminuzione degli infortuni e delle malattie professionali implica una popolazione lavorativa più sana e una minore pressione sul sistema sanitario, favorendo una maggiore partecipazione economica. Inoltre, la diffusione di queste tecnologie può stimolare innovazione e sviluppo di nuove competenze tra i lavoratori, preparandoli a operare in un ambiente sempre più automatizzato e tecnologicamente avanzato.

Siamo convinti che l’investimento in tecnologie di sicurezza e salute sul lavoro non riguardi solo la protezione dei lavoratori, ma rappresenta un elemento chiave per il successo economico e sociale.

La Sfida dell’Implementazione e le Prospettive Future

Nonostante i benefici evidenti, l’implementazione di queste tecnologie in Italia e non solo, presenta alcune sfide. La complessità e le specifiche esigenze dei luoghi di lavoro e la variabilità associata alle attività (non solo MM) richiedono la necessità di produrre una conoscenza e una cultura tecnico-scientifica ancora maggiore sul tema. È fondamentale garantire che questi strumenti siano efficacemente utilizzabili dai professionisti della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro e che siano accettati dai lavoratori stessi e che quindi, non vengano percepiti come uno strumento di controllo, ma come un supporto alla loro vita lavorativa. Ergo, è cruciale affrontare le questioni legate al trattamento dei dati personali e alle implicazioni etiche di tali tecnologie. Mentre, sul versante normativo sarà determinante aggiornare gli standard ergonomici a livello italiano e internazionale, per includere questi innovativi approcci, non solo nella valutazione del rischio biomeccanico, ma anche come sistema di monitoraggio continuo.

Inoltre, progettare un computer indossabile richiede competenze interdisciplinari diversificate, tra cui medicina del lavoro, ingegneria biomedica, elettronica, ergonomia, design del prodotto e naturalmente informatica. Ogni aspetto del dispositivo deve essere attentamente considerato per garantire che sia funzionale, comodo e sicuro per l’utente finale. Questa quindi, è la sfida che attende tutte le aziende che stanno compiendo sforzi nella progettazione e implementazione di queste tecnologie.

Conclusioni

La sicurezza e la salute sul lavoro sono una priorità che non può essere trascurata. In Italia, l’adozione di tecnologie basate su dispositivi indossabili e intelligenza artificiale, può rappresentare un cambiamento radicale nel modo in cui affrontiamo questa sfida. Queste innovazioni non solo proteggono i lavoratori, ma migliorano anche l’efficienza e la competitività delle aziende, contribuendo a creare un ambiente di lavoro più sicuro e sostenibile per tutti. In un momento storico in cui l’innovazione tecnologica sta ridefinendo, sempre più velocemente, ogni settore, è fondamentale che anche la sicurezza sul lavoro possa beneficiare di questi progressi, permettendo all’Italia di affrontare il futuro con maggiore fiducia e responsabilità.

*Ingegnere in Milano

 

#SicurezzaSulLavoro #WearableTech #TecnologieIndossabili #DMSi #SaluteLavoratori #machinelearning #DisturbiMuscoloScheletrici #Ergonomia #IoT #InnovazioneTecnologica #Salute #Sicurezza

di Luca Beretta *

La presenza sempre maggiore di lavoratori stranieri nei cantieri edili rende necessario ideare e progettare processi per superare le barriere culturali e linguistiche che spesso creano difficoltà quando è necessario tramettere istruzioni e spiegazioni e ad avere riscontro sull’effettiva comprensione da parte del lavoratore di quanto comunicato. Questa è una vera e propria sfida che sta mettendo a dura prova le imprese, una sfida che difficilmente si può vincere da soli. Nel comparto edile il tessuto imprenditoriale è composto prevalentemente da imprese medio/piccole che hanno difficoltà ad individuare il giusto percorso per affrontare questa diversità linguistica all’interno dell’azienda. Per questo motivo le Parti Sociali del settore (Associazioni Datoriali e Sindacali) hanno da tempo messo in campo numerose azioni per supportare imprese e lavoratori attraverso le attività ed i servizi erogati dagli Enti Bilaterali. Questi Enti, presenti su tutto il territorio nazionale, sono un valido supporto per imprese e lavoratori soprattutto in tema di formazione in materia di salute e sicurezza.

Prima di fornire degli esempi pratici di come poter affrontare e superare le barriere linguistiche è opportuno spiegare che, soprattutto in tema di formazione, non basta semplicemente utilizzare un traduttore perché tradurre un vocabolo non vuol dire comunicare un concetto. La differenza di lingua comporta anche una differenza culturale in termini di valori, interessi, concetti e valutazioni. La figura del mediatore linguistico-culturale si rivela di cruciale importanza in quanto, nonostante svolga la funzione primaria di assistente linguistico tra un formatore e i discenti, si occupa anche di riadattare il messaggio in funzione delle differenti implicazioni culturali rendendo più efficace la trasmissione dei concetti. Nonostante nel comparto edile vi sia una prevalenza di lavoratori stranieri di lingua araba troviamo anche molti altri lavoratori di origini differenti e conseguentemente un insieme linguistico e culturale assai variegato e complesso da gestire.

 

CAMPAGNE MIRATE CON VOLANTINI IN MULTILINGUA

Sono state avviate varie campagne di diffusione di materiale informativo inerente la sicurezza nei cantieri tradotti in varie lingue. La strategia dei dépliant informativi permette una maggiore diffusione e capillarità in quanto ogni impresa, conoscendo la nazionalità dei propri dipendenti, può scegliere il materiale nella lingua più appropriata.  Le imprese hanno sfruttato questo materiale fornendolo ai singoli lavoratori o affiggendolo in varie aree di cantiere.  Un esempio sono dei promemoria tascabili sulle principali regole da ricordare per chi, ogni giorno, lavora nei cantieri. Ogni opuscolo contiene il testo in italiano e le traduzioni in nove lingue: arabo, hindi, punjabi, francese, inglese, rumeno, albanese/kosovaro, spagnolo, ucraino.

Altre campagne riguardano argomenti specifici come i flyer, tradotti in 4 lingue, dedicati alle principali regole e ai comportamenti corretti da seguire in caso di imbracatura dei carichi e alla movimentazione aerea in quota, spesso causa di gravi infortuni.

 

FORMAZIONE BASE CON MEDIATORI LINGUISTICI

Ai sensi dell’Art. 37 del D.Lgs 81/08 il Datore di lavoro “assicura che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche”. La durata ed i contenuti di questi corsi variano a seconda del settore di appartenenza dell’impresa e del suo livello di rischio.   Il settore edile è considerato ad alto rischio quindi secondo la norma il corso base deve avere una durata di 16h. Sul territorio della provincia di Milano, Lodi e Monza e Brianza sono presenti delle realtà virtuose ove vengono organizzate periodicamente delle edizioni di corsi “base di sicurezza” con mediazione culturale in lingua araba.

CORSI DI ITALIANO PER STRANIERI

Per i lavoratori con maggiore difficoltà di conoscenza della lingua italiana sono stati promossi dei corsi di italiano, in orario extralavorativo, per lavoratori di lingua araba con diversi livelli di difficoltà e propedeutici ad un ulteriore corso inerente un linguaggio più tecnico legato al mondo dell’edilizia. Dopo un test volto ad appurare la conoscenza della lingua italiana i lavoratori vengono collocati in corsi idonei con livello omogeneo.  Il corso attualmente previsto è della durata di 40h.

FORMAZIONE E ADDESTRAMENTO ON THE JOB

Oltre alla formazione in aula risultano fondamentali anche dei momenti formativi e di addestramento erogati direttamente in cantiere inerenti argomenti specifici o legati all’uso di macchine/attrezzature di lavoro. Una parte di queste attività svolte “on the job” viene effettuata con il supporto di mediatori culturali, ad oggi in lingua araba o indiana. La facilità di comprensione dei contenuti ottenuta grazie ai mediatori culturali unita alla parte pratica necessaria per un addestramento rende molto efficace questo tipo di erogazione dei corsi per i lavoratori stranieri.

 

 

IL GIOCO COME STRUMENTO EFFICACE PER LA FORMAZIONE

La formazione è il mezzo principale per aumentare le competenze delle persone e il loro rendimento lavorativo. Per questo motivo, per potenziare la formazione finalizzata alla prevenzione, si possono sfruttare le nuove tecnologie digitali attraverso i Serious Game, corsi progettati per sensibilizzare gli addetti ai lavori sui temi della sicurezza in edilizia, in modo innovativo, mettendo in equilibrio intrattenimento, simulazione e apprendimento. Una esperienza virtuale interattiva che punta a raggiungere obiettivi di apprendimento predeterminati, attraverso l’attivazione di dinamiche ludiche, affiancando le metodologie tradizionali, al fine di formare in modo innovativo le prossime generazioni di addetti alla sicurezza. Anche per questi progetti sono stati tradotti i dialoghi dei protagonisti in varie lingue per permettere l’accesso a questo tipo diverso di formazione anche ai lavoratori stranieri.

In conclusione possiamo affermare che al giorno d’oggi ogni progetto formativo inerente la sicurezza sul lavoro non può non prescindere dalla declinazione dell’offerta anche per i lavoratori di lingua straniera.

* Ingegnere Edile Milano

di Monica Bernardi*

Sono ormai 16 anni che il TUSL (decreto legislativo 81/2008 – Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro) è entrato in vigore e, come per ogni legge che regolamenta i rapporti di lavoro, i commercialisti lavoristi hanno fin dall’inizio affiancato le aziende supportandoli negli adempimenti indispensabili per il pieno rispetto di questa normativa.

Spesso è difficile far capire agli imprenditori che nel rapporto di lavoro ci sono regole da rispettare e che occorre valutare caso per caso la fattibilità di alcune scelte imprenditoriali, soprattutto quando l’adeguamento a queste norme comporta ulteriori spese a carico dell’azienda.

Purtroppo infatti, le norme in materia di sicurezza sul lavoro vengono viste dagli imprenditori come un altro balzello da sostenere, un’altra incombenza cui far fronte alla quale si approcciano spesso in modo passivo, affidando ad un’azienda specializzata l’incarico di provvedere ai vari adempimenti, senza interessarsi direttamente degli stessi, senza comprenderne la finalità e la vera importanza.

L’imprenditore cerca sempre di risparmiare sui costi che deve sostenere per la propria attività, sia per quanto riguarda il personale che per il materiale e le attrezzature utilizzate, senza considerare che tali scelte possono incidere sulla sicurezza sul lavoro dei propri dipendenti.

Rispettare coscienziosamente gli adempimenti previsti dalla legge 81/08 inoltre prevede un investimento non solo economico, ma anche di tempo che il datore di lavoro “non ha” o comunque non vuole “perdere”: la compilazione del DVR (documento di valutazione dei rischi) e i suoi continui aggiornamenti, la formazione continua del personale dipendente e dei preposti, la verifica costante del rispetto delle norme da parte dei lavoratori, l’acquisto dei DPI e la verifica del loro corretto utilizzo, ….

Analizzando gli infortuni sul lavoro che ci troviamo a gestire, con particolare riguardo all’atteggiamento dei lavoratori sull’osservanza delle prescrizioni, in riferimento alla propria sicurezza sul luogo di lavoro, ci accorgiamo che tendono a non rispettare le norme ascritte. Spesso infatti lavorare nel rispetto delle regole è più scomodo, più lento oppure semplicemente diverso da quello che si è imparato in anni di pratica. Cambiare abitudini non è così immediato e in genere viene considerato inutile: si è sempre fatto così e non è mai successo nulla, perché ora dobbiamo imparare nuovi metodi e procedure?

Inoltre i lavoratori, come spiegato dalla Dottoressa Torre Casnedi sulle pagine di questa stessa rivista, tendono a sottovalutare le situazioni di pericolo cui sono esposti in lavorazioni eseguite in modo continuativo senza conseguenze negative. Tutti questi motivi, oltre ad una inadeguata informazione, spingono i lavoratori a comportamenti poco sicuri.

Tra le cause tipiche di infortuni infatti troviamo: scivolamenti, inciampi e cadute dovute al mancato rispetto delle norme di sicurezza; il malfunzionamento di strumenti o macchinari che spesso vengono utilizzati senza i dispositivi di protezione per velocizzare il lavoro; la routine del lavoro che porta i lavoratori a operare in modalità automatica e quindi a distrarsi e a correre più rischi; le operazioni di trasporto, sollevamento e immagazzinaggio svolte con posture errate; il mancato rispetto delle norme di sicurezza; la scarsa esperienza e l’assenza di consapevolezza dei rischi. Molti infortuni potrebbero essere evitati semplicemente con una maggiore vigilanza da parte del datore di lavoro che oltre a preoccuparsi di formare i lavoratori, consegnare i DPI, nominare i preposti, si deve attivare per vigilare e sanzionare i lavoratori che non rispettano le norme sulla sicurezza. L’istituzione di controlli costanti e il “richiamo all’ordine” di quei lavoratori con comportamenti non idonei agli standard previsti dall’azienda, è il modo più efficace per abituare i propri dipendenti ad attivare metodologie di lavoro corrette e sicure.

Non sempre però le sanzioni sono lo strumento più efficace per raggiungere un risultato. E’ invece importante che sia tra gli imprenditori che tra gli stessi lavoratori si formi una vera e propria cultura della sicurezza.

E’ qui che il commercialista del lavoro può fare la differenza: il cliente consulta il proprio commercialista per la maggior parte delle scelte in materia di lavoro che deve intraprendere ed è in queste occasioni che il professionista può spiegare all’imprenditore come gestire al meglio le tematiche relative alla sicurezza dei suoi lavoratori e del luogo di lavoro in cui operano.

I datori di lavoro devono essere formati e informati sui rischi generici e specifici della propria attività; devono essere in prima linea, insieme allo specialista incaricato, nella predisposizione del documento di valutazione dei rischi per capire cosa è pericoloso e come limitare i rischi di infortuni; devono essere consapevoli che il DVR è un documento dinamico da aggiornare ogni volta che si verifica un cambiamento, anche minimo, nella realtà aziendale: l’assunzione o le dimissioni di un dipendente, l’acquisto o la dismissione di un macchinario o anche la modifica dell’organigramma aziendale, per citarne alcuni.

Il commercialista può ancora aiutare l’imprenditore a sgravarsi di parte delle responsabilità con la corretta nomina dei preposti, individuare tutti gli incentivi disponibili e utili al proprio cliente (bandi Isi, formazione industria 4.0 finanziata, formazione finanziata dei lavoratori, …), supportarlo nelle scelte strategiche nei confronti dei dipendenti, affinché essi stessi per primi si interessino alla propria sicurezza lavorativa.

Il mondo del lavoro è cambiato e il professionista non può più limitarsi all’elaborazione dei cedolini paga o all’esecuzione degli adempimenti formali, ma deve aiutare l’azienda ad attuare tutte le strategie possibili per attrarre i lavoratori e fidelizzare quelli già presenti. Nella maggior parte dei settori lavorativi gli imprenditori lamentano di non riuscire a trovare personale, formato o anche da formare. Oggi i lavoratori, a prescindere dall’età, non si limitano a cercare un posto di lavoro retribuito che li aiuti a sostenere sé stessi e la propria famiglia, ma cercano anche il benessere: una migliore qualità della vita e quindi gli aspetti della conciliazione vita-lavoro, la serenità all’interno del luogo di lavoro ma anche la tutela della propria salute. A differenza delle generazioni precedenti, quella attuale spesso non ha paura di dimettersi anche senza un’alternativa lavorativa.

Per attirare e fidelizzare questi lavoratori, un imprenditore attento deve preoccuparsi di attivare strumenti di welfare, di coinvolgere ove possibile gli stessi lavoratori nelle scelte organizzative aziendali, creare un clima lavorativo sereno e senza stress e preoccuparsi della loro salute e sicurezza sul lavoro.

E’ fondamentale dunque spiegare ai lavoratori i rischi che hanno corso comportandosi in un certo modo anziché seguire i protocolli, richiamarli ogni volta che si dimenticano di seguire le procedure, discutere con loro sugli infortuni avvenuti o su quelli sfiorati, analizzare sistematicamente le situazioni critiche e trovare insieme a loro situazioni per eliminare i pericoli. Questi sono ottimi suggerimenti per ottenere la collaborazione del proprio personale e le scelte condivise saranno più facilmente rispettate. Infine non dobbiamo sottovalutare l’importanza del buon esempio nel rispetto delle regole di datore di lavoro, dirigenti e preposti.

Concludo ricordando quanto ci diceva nel numero 4/2024 di questa stessa rivista l’Avvocato Alessandro D’Addea: un’azienda virtuosa dal punto di vista della sicurezza è un’azienda economicamente più efficiente di un’altra che si preoccupa solo di minimizzare i costi: lavoratori qualitativamente più efficienti se lavorano in condizioni ottimali, minori costi legati agli infortuni (lavoratore infortunato assente, aumento del premio assicurativo inail, ….), minor turnover del personale, minori rischi di ritardi nelle lavorazioni.

Come possiamo notare leggendo questo speciale, nella gestione della sicurezza sul lavoro intervengono molti professionisti con competenze diverse e complementari tra loro: dalle aziende specializzate in materia di sicurezza all’avvocato, dal medico del lavoro allo psicologo.

Il professionista formato e attento è in grado di aiutare il datore di lavoro, restando al passo con i continui sviluppi normativi, affiancandolo nelle scelte strategiche fondamentali per l’azienda e che lo porteranno ad essere competitivamente all’altezza delle sfide del mercato.

*ODCEC Milano

#lavoro, #sicurezza, #lavoratori, #infortunisullavoro, #decretolegge, #prevenzione #incentivi

di Raffaele Bergaglio*

 Nell’ambito della sicurezza e della tutela della salute negli ambienti di lavoro la posizione di garanzia principale è quella ricoperta dal datore di lavoro, il quale rimane il soggetto più esposto a contestazioni, specie di natura penale.

Sul piano dei rimedi, nonostante gli oltre sedici anni trascorsi dalla pubblicazione del D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sono ancora frequenti i quesiti legali su cosa fare per schermare in qualche modo le posizioni dei soggetti apicali delle società, talvolta persino ipotizzando sotterfugi dei quali invero non se ne ravvisa il bisogno.

Diversi sono, infatti, gli strumenti di tutela previsti dal legislatore per sgravare il datore di lavoro di una parte assai significativa degli obblighi incombenti su di lui, sollevandolo specularmente dalle responsabilità; strumenti di tutela che aumentano nel caso di organi direttivi collegiali, sennonché molto spesso sembrano ignorati o interpretati erroneamente da chi potrebbe disporne in maniera cautelativa anche per sé stesso.

Vale dunque la pena di compiere alcune riflessioni sui mezzi prevenzionistici a disposizione del datore di lavoro nelle varie conformazioni legali che può assumere formalmente.

 

Il conferimento delle deleghe gestorie nel direttivo

Innanzitutto, all’interno degli organismi direttivi collegiali, è opportuno provvedere ad una razionale distribuzione dei compiti (deleghe), affinché siano chiare le attribuzioni di ciascuno e le conseguenti responsabilità.

Con la delega gestoria di cui all’art. 2381 Cc (da non confondere con la delega in materia di sicurezza di cui all’art. 16 D.lgs. 81/2008), all’interno di strutture aziendali complesse, si può affidare ad uno o più amministratori, con poteri illimitati di spesa, le attribuzioni relative alla sicurezza sul lavoro (cfr. Cass. pen., sez. IV, 20.10.2022, n. 8476).

Pur essendo le deleghe tipiche delle società per azioni, anche nelle società a responsabilità limitata, amministrate da organi collegiali, lo statuto può intervenire sull’organizzazione interna, stabilendo compiti in materia di sicurezza in capo a taluno degli amministratori. Inoltre, nulla vieta che l’organo direttivo di una Srl, al proprio interno, provveda ad approvare un documento scritto, con data certa, sottoscritto dai vari amministratori, con il quale si stabiliscano i compiti di ciascun amministratore, assegnando ad uno (o più) di essi quelli in materia di sicurezza.

Nell’ambito di un eventuale procedimento penale, all’intento del quale si tende soprattutto ad accertare i ruoli effettivamente ricoperti da ciascuno, un documento del genere assumerebbe un valore non indifferente.

Ciò farebbe sì che tutti gli altri membri dell’organo direttivo, indipendentemente dalla forma societaria prescelta, vengano sollevati da responsabilità in materia di sicurezza.

 

La valutazione dei rischi e la nomina del RSPP

Particolare attenzione dovrebbe essere dedicata sempre alla valutazione di tutti i rischi possibili, in modo tale da non escluderne alcuno di quelli nel cui ambito potrebbe verificarsi un infortunio o una malattia professionale.

In caso di qualsiasi eventuale futura contestazione di violazioni di norme afferenti alla sicurezza sul lavoro, una delle prime verifiche che sarà compiuta è quella della inclusione del rischio concretizzatosi nel documento di valutazione dei rischi (DVR).

Pertanto, assai importante è la qualità e la completezza con la quale deve essere redatto ed aggiornato questo documento, poiché eventuali sue lacune rispetto al tipo di rischio dal quale potrebbe scaturisca un incidente o una malattia, costituirebbero il presupposto dell’imputazione colposa a carico del datore di lavoro che sarà individuato.

Si ricorda, che la redazione del DVR e la nomina del RSPP, secondo l’art. 17 del TUSL, non sono delegabili da parte del datore di lavoro. Tuttavia, nella sostanza, il datore di lavoro si limita alla sottoscrizione del DVR, affidando la sua redazione a specialisti del settore, ferma restando la sua responsabilità in caso di infortunio, quantomeno nella maggior arte dei casi, il che rappresenta una circostanza di non poco conto.

Al riguardo, si ritiene indispensabile affidarsi ad un professionista di alto livello, interno o esterno all’azienda, quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), con cui il datore di lavoro dovrebbe mantenere un filo diretto ed ininterrotto, possibilmente documentato, al fine di individuare ogni potenziale rischio, specie di fronte a nuove lavorazioni, nuove mansioni, introduzione di nuove forze lavoro, nuovi macchinari ecc., così continuando ad aggiornane il DVR.

 

La delega di funzioni ex art. 16 D.lgs. 81/2008

I principali strumenti di sgravio della responsabilità datoriale consistono nel trasferimento ad altri soggetti degli obblighi previsti in materia di sicurezza. Non vi è dubbio, quindi, che la delega di funzioni, prevista all’art. 16 del TUSL, realizzi il formale trasferimento dei poteri e obblighi datoriali di natura prevenzionistica al delegato, fermo restando in capo al delegante l’obbligo di vigilanza sul corretto svolgimento delle funzioni affidate (cit. Cass. pen, sez. IV, 20.10.2022, n. 8476).

Proprio in virtù dell’obbligo residuale in capo al delegante, talvolta si discute ancora delle rimanenti responsabilità che ne conseguono in capo a quest’ultimo, poiché non ancora del tutto pacifiche in giurisprudenza.

La delega, normalmente, viene rilasciata ad un dirigente. Questi potrà certamente essere un membro del consiglio di amministrazione. Così, spesso si vedono deleghe a favore del direttore del personale o altro dirigente delle HR.

Secondo quanto si è detto sopra, la delega ex art. 16 del TUSL potrà essere conferita anche e soprattutto al consigliere già munito di della gestoria dal consiglio di amministrazione, per quanto attiene alla sicurezza.

Tuttavia, la legge non contiene indicazioni specifiche in tal senso e non impone che il delegato ai sensi dell’art. 16 D.lgs. 81/2008 sia per forza un dirigente, sicché nulla vieta che essa venga rilasciata a favore di un dipendente d’azienda sotto ordinato, ad esempio un quadro, purché vengano rispettate le condizioni di legge. Non vi è dubbio, pertanto, che la delega possa essere conferita anche ad un soggetto esterno all’organo direttivo.

Tranne la valutazione dei rischi e la nomina del RSPP (cfr. art. 17 D.lgs. 81/2008), gli obblighi datoriali in materia di sicurezza sul lavoro sono tutti delegabili, ma la delega prevista dall’art. 16, D.lgs. 81/2008 è ammessa con i seguenti limiti e condizioni: a) che essa risulti da atto scritto recante data certa; b) che il delegato possegga tutti i requisiti di professionalità ed esperienza richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; c) che essa attribuisca al delegato tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla specifica natura delle funzioni delegate; d) che essa attribuisca al delegato l’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate; e) che la delega sia accettata dal delegato per iscritto.

Troppo spesso capita ancora di vedere deleghe non sottoscritte, conferite a soggetti non sufficientemente formati in ordine ai rischi specifici d’impresa o senza idonei poteri di spesa, il che ne vanifica gli effetti.

Alla delega deve essere data adeguata e tempestiva pubblicità, ma talvolta i dipendenti non vengono neppure messi a conoscenza dell’aggiornamento dell’organigramma e dei ruoli all’interno della propria azienda da parte dei propri datori di lavoro.

Da notare che la norma non prevede che la delega venga registrata presso il registro delle imprese, anche se la cosa potrebbe essere consigliabile. Per giunta, da parte di molti si ritiene preferibile che la delega ai sensi dell’art. 16 TUSL venga conferita mediante atto notarile.

Invero, non essendo le modalità espressamente stabilite dalla legge, la pubblicità può essere realizzata anche attraverso altri canali informativi, peraltro pure congiuntamente, come circolari interne, diffusioni di organigrammi aziendali, ecc.

È vivamente consigliabile mantenere traccia di ogni forma di pubblicità della delega, salvando adeguatamente in file ogni tipo di comunicazione che ne attesti l’esistenza. In questa prospettiva, anche l’esportazione e il salvataggio di chat di gruppi WhatsApp, che dovessero contenere indicazioni nella prospettiva qui in commento rivestono utilità.

Di fondamentale importanza è il requisito di validità della delega afferente alla autonomia di spesa del delegato per quanto riguarda qualsiasi spesa necessaria per l’espletamento sicuro delle attività.

Al riguardo, nel mondo delle imprese, talvolta si suole delimitare i poteri di spesa al fine di prevenire eventuali acquisti inutili, sperperi o condotte infedeli, prevedendo la firma congiunta con uno degli amministratori per spese superiori a determinati importi. Affinché la delega mantenga efficacia, la cosa importante è che i limiti di spesa necessitanti di firma congiunta siano alti, in modo tale che il delegato possa far fronte autonomamente ad ogni necessità in ottica prevenzionistica.

Secondo il terzo comma dell’art. 16, la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. L’obbligo di cui al primo periodo si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’articolo 30, comma 4.

Per il comma 3-bis il soggetto delegato può, a sua volta, previa intesa con il datore di lavoro delegare specifiche funzioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro alle medesime condizioni di cui ai commi 1 e 2. La delega di funzioni di cui al primo periodo non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al delegante in ordine al corretto espletamento delle funzioni trasferite. Il soggetto al quale sia stata conferita la delega di cui al presente comma non può, a sua volta, delegare le funzioni delegate.

Quello che invece non è chiaro, perché non stabilito dalla legge, è il confine di tale obbligo di vigilanza, il quale, pertanto, viene lasciato alla interpretazione della giurisprudenza, che ha assunto posizioni ondivaghe, a discapito della certezza del diritto.

In epoca molto recente, in maniera condivisibile e garantista, si è affermato che tale obbligo debba attestarsi a un livello di alta vigilanza in forza del quale il delegante non deve procedere a un puntuale e continuo controllo sull’operato del delegato (Cass. Pen., Sez. IV, n. 51455 del 5.10.2023).

Tale obbligo, pertanto, potrebbe essere adempiuto mediante controlli a campione, e-mail e WhatsApp contenenti raccomandazioni e richieste.

Ad ogni buon conto, si deve ritenere che la presenza di una delega funzionale, conferita ex art. 16 del TUSL, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla norma e di un sufficiente livello di supervisione, sgrava il datore di lavoro da responsabilità penale.

 

La nomina dei preposti

Se, come si è dato sopra, il conferimento di una delega di funzioni per ciò che attiene alla sicurezza sul lavoro può sgravare enormemente il datore di lavoro, considerazioni simili, ancorché dotate di portata meno salvifica, valgono per la nomina di uno o più preposti.

Il preposto è la «persona che, in ragione delle competenze professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, sovrintende alla attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa» [art. 2 c. 1 lett. e), D.lgs. 81/2008].

Con il termine ”sovrintendere”, secondo il concorde orientamento della dottrina e della giurisprudenza, si indica l’attività rivolta alla vigilanza sul lavoro dei dipendenti per garantire che esso si svolga nel rispetto delle regole di sicurezza.

Generalmente questa figura, nell’organigramma aziendale, è costituita da capi-squadra, capi-reparto, capi-officina, capi-sala, capi-cantiere, ecc..

Il D.l. 21.10.2021, n. 14, convertito con L. 215/2021, modificando l’art. 18 D.lgs. 81/2008, intitolato agli «obblighi del datore di lavoro e del dirigente», ha introdotto il comma 1 la lettera b-bis), secondo il quale, ora, il datore di lavoro e il dirigente devono «individuare il preposto o i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza …».

In generale, si può affermare che non spetti al preposto adottare direttamente misure di prevenzione, bensì fare applicare quelle predisposte dal datore di lavoro e dal delegato (eventualmente su indicazione del RSPP), intervenendo con le proprie direttive, impartendo le cautele da osservare, inoltrando le dovute segnalazioni al datore e in casi estremi fermando i lavori.

Per una più esaustiva trattazione, si ricorda che l’art. 19 del TUSL prevede una serie di obblighi del preposto, che sonno stati ulteriormente integrati dal citato D.l. 21.10.2021, n. 14, conv. con L. 215/2021.

Per quanto qui rileva, la nomina di uno o più preposti, certamente sgrava in qualche misura il datore di lavoro, ma con altrettanta certezza non esime il datore di lavoro dalla dovuta vigilanza.

Si tratta, ora, di stabilire il perimetro di tale obbligo di vigilanza.

Recentemente, i giudici di legittimità, prendendo le mosse da un principio generale derivante dall’art. 18 del D.lgs. 81/2008 (TUSL), qual è il dovere di vigilanza del datore di lavoro nei confronti di tutti i suoi sottoposti, siano essi delegati, preposti, capi squadra, operai più o meno specializzati rispetto alle mansioni svolte, hanno spiegato che le modalità attraverso le quali esercitare il dovere di vigilanza datoriale, non essendo specificamente definite dal legislatore, devono essere rimesse all’organizzazione aziendale, che dovrà conformarle in maniera adeguata in base alle situazioni che di volta in volta si presentano (Cass. Pen., Sez. IV, n. 51455 del 5.10.2023).

Da tempo la giurisprudenza ha preso atto dell’impossibilità che il titolare formale degli innumerevoli obblighi in materia di sicurezza possa integralmente adempiervi personalmente, assumendo come essenziale per il corretto esercizio dell’attività d’impresa la presenza di centri intermedi di imputazione della responsabilità, a partire dalla nomina di preposti e dalla delega di funzioni ex art. 16, D.lgs. 81/2008.

Sulla base di tale assunto, nella sentenza citata si sostiene che il datore di lavoro possa assolvere all’obbligo di vigilare sull’osservanza delle misure di prevenzione degli infortuni, limitandosi ad adottare le procedure e gli strumenti che gli consentano di conoscere le attività lavorative effettivamente svolte e le loro concrete modalità esecutive. Pertanto, si stabilisce che “il controllo richiesto al datore di lavoro non è personale e quotidiano”, sicché “ogni volta che le dimensioni dell’impresa non consentano un controllo diretto [esso] è affidato a procedure: report, controlli a campione, istituzione di ruoli dirigenziali e quanto altro la scienza dell’organizzazione segnali come idoneo allo scopo nello specifico contesto”.

In altre parole, in assenza di una norma che delimiti il dovere di vigilanza del datore di lavoro rispetto ai compiti attribuiti al dipendente preposto, soggetto che ricopre una posizione di garanzia a titolo originario, poiché prevista dalla legge (artt. 299 e 2, D.lgs. 81/2008), i giudici di legittimità hanno mutuato principi stabiliti in un’area contigua, quella riguardante il delegato (di cui si è detto sopra), che è un garante a titolo derivato (art. 16), applicando i principi giurisprudenziali formatasi a tale riguardo.

Ne deriva che la nomina di uno o più preposti, effettuata in presenza di tutti i requisiti necessari (di cui si dirà), specie nelle imprese la cui organizzazione non consente una vigilanza datoriale su tutte le lavorazioni, sgrava parzialmente il datore di lavoro dalla verifica degli obblighi in materia prevenzionistica, in relazione a tutte quelle incombenze quotidiane, che attengono alle lavorazioni specifiche, che vengano svolte sotto la sovrintendenza del preposto, fermo restando il dovere di alta vigilanza del dolore di lavoro; dovere di vigilanza che, per quanto possa essere effettuato mediante ”controlli a campione”, come valentemente stabilito dalla corte, si ritiene opportuno conformare in maniera più dettagliata rispetto a quello esercitato sul delegato, atteso che il preposto non è un dirigente.

I preposti devono ricevere una formazione particolarmente approfondita e specifica rispetto dall’azienda in cui lavorano.

In un diritto penale del fatto, che privilegia la sostanza sulla forma, esiste anche la figura del preposto di fatto (cfr. art. 299 TUSL), attribuibile a colui che, quale capo-reparto-cantiere-turno-squadra, operi sostanzialmente in questa veste, senza aver ricevuto alcuna nomina formale.

Fermo restando che tale figura sta via via ridimensionandosi, essendo divenuta obbligatoria la nomina dei preposti, non si può escludere la presenza di ulteriori soggetti (rispetto a quelli formalmente già nominati) che di fatto abbiano assunto posizioni sovra ordinate rispetto ad altri dipendenti dell’impresa. Tuttavia, è del tutto evidente per quel che importa queste considerazioni, che il datore di lavoro attento, abbia tutto l’interesse a nominare preposti nella maniera più corretta possibile, al fine di restringere il perimetro delle proprie responsabilità, restando egli in ogni caso la figura più esposta nella piramide aziendale delle responsabilità.

 

*Avvocato in Milano

 

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