Dipendente in malattia e attività secondarie: quali oneri probatori in capo al datore di lavoro? (Cass., sez. lav., 5.9.2024 n. 23858)
di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*
Con la sentenza n. 23858 resa in data 2 luglio 2024 e pubblicata in data 5 settembre 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato una questione molto delicata in ordine agli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro che intenda licenziare un suo dipendente in malattia, dopo avere scoperto che costui, in costanza di malattia, svolgeva attività secondarie e parallele.
Sul punto, la Suprema Corte ha, infatti, enunciato il principio di diritto in base al quale “nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un’altra attività durante un’assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l’attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede”.
A supporto di tale principio, la Suprema Corte – dopo avere opportunamente ricordato che la nozione di malattia rilevante a fini della sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, seppur provvisoria, incapacità al lavoro dello stesso – ha, nondimeno, puntualizzato che lo stato di malattia non è, di per sé, incompatibile con lo svolgimento di altre diverse attività parallele e secondarie.
Pertanto, a detta del Supremo Collegio, non può dirsi legittimo un licenziamento motivato unicamente sulla circostanza che il dipendente in malattia svolga altre e diverse attività, posto che, ai fini della fondatezza del recesso datoriale, il datore di lavoro è tenuto ad assolvere a rigorosi oneri probatori – secondo quanto dispone l’art. 5 della L. 604 del 15 luglio 1966 – che prevedono, più precisamente: (i) la dimostrazione della fittizietà dello stato di malattia; (ii) la dimostrazione che lo svolgimento di altre e diverse attività sia idonea a pregiudicare e/o a ritardare la completa guarigione, ove mai lo stato di malattia sia reale, e, dunque, il ritorno in servizio.
Trattasi di una pronunzia importante, in quanto, in linea con altra e precedente pronunzia della stessa Suprema Corte (Cass., sez. lav., 13.3.2018 n. 6047), sancisce un equo contemperamento tra il diritto del dipendente a non vedere pregiudicato il diritto ad una piena espressione delle sue attitudini e inclinazioni, anche sul piano extra lavorativa, ed il diritto del datore di lavoro di pretendere una condotta seria e diligente del dipendente anche durante il periodo di sospensione – quale, ad esempio, quello derivante da malattia – del rapporto di lavoro.
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Un recente caso di reintegrazione di una lavoratrice licenziata per motivi legati al concreto utilizzo dei permessi ex Legge 104/1992. Cassazione, sez. lav., ordinanza del 9 settembre 2024, n. 24130.
di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*
Un datore di lavoro intimava il licenziamento per giusta causa ad una propria lavoratrice a motivo dell’utilizzo improprio dei permessi ex Legge 104/1992 richiesti al fine di prestare assistenza alla di lei madre disabile.
Alla lavoratrice, in particolare, veniva contestato:
– in relazione a due giorni di permesso, di aver prestato assistenza per un periodo di tempo minore (per sole tre ore e mezza ovvero cinque ore), rispetto all’intera giornata lavorativa di permesso richiesta, svolgendo per le restanti ore varie commissioni, come l’acquisto di capi d’abbigliamento al mercato;
– per ulteriori due giorni di permesso, di non aver prestato alcuna assistenza, essendo rimasta presso la propria abitazione.
La lavoratrice impugnava il licenziamento a lei intimato, che, all’esito dei giudizi di merito, veniva dichiarato illegittimo con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento del danno in applicazione dell’art. 18 S.L.
In particolare, la Corte d’Appello di Napoli, così come il Tribunale di primo grado, ritenevano non sussistente la prova circa l’utilizzo improprio da parte della lavoratrice dei permessi ex Legge 104/1992.
Avverso tale decisione, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione.
Con l’ordinanza qui in commento (n. 24130 del 9 settembre 2024), la Corte di Cassazione, pur ribadendo che “può costituire” giusta causa di licenziamento, l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex Legge 104/1992 per “attività diverse dall’assistenza al familiare disabile”, ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento.
A tale proposito, la Cassazione ha innanzitutto precisato che i cd. “ permessi 104” sono funzionali a garantire esigenze di assistenza “in forme non specificate”.
D’altra parte, ricorda ancora la Cassazione, gli stessi permessi sono “giornalieri” e non vengono concessi “su base oraria o cronometrica”.
Tenuto conto di ciò, ad avviso della Cassazione, la Corte di merito avrebbe correttamente ritenuto che l’attività svolta durante il tragitto per l’acquisto di beni potesse considerarsi come “marginale” e che comunque ben avrebbe potuto essere finalizzata a soddisfare le esigenze dell’assistita (posto che, come detto, l’assistenza può esplicarsi in attività “non specificate”).
Del pari, proseguono i Giudici di legittimità, la Corte di merito avrebbe altresì correttamente ritenuto che non potesse escludersi che anche per i giorni di permesso fruiti presso la propria abitazione la lavoratrice fosse dedita all’assistenza della madre.
Di qui, dunque, il rigetto del ricorso datoriale.
L’ordinanza si inserisce fra le numerose pronunce di legittimità sul tema in oggetto (molte delle quali richiamate dalla stessa ordinanza in commento), che richiede di essere attentamente valutato caso per caso, alla luce dei precedenti anzidetti e dei principi ivi affermati. Ciò a maggior ragione a fronte del rischio di reintegrazione che incombe sul datore di lavoro nell’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato”, come nel caso esaminato.
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