REITERAZIONE DI CONTRATTI A TEMPO DETERMINATO E TERMINI PER L’IMPUGNAZIONE: LA RILEVANZA FATTUALE DEI RAPPORTI PREGRESSI NELLA PIÙ RECENTE GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ

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di Paolo Galbusera* e Andrea Ottolina*

L’articolo 28 co. 1 del d.lgs. 81/2015, così come modificato da d.l. 87/2018, dispone che l’impugnazione del contratto a tempo determinato debba avvenire “entro centottanta giorni dalla cessazione del singolo contratto”, mentre, per quanto riguarda i contratti di somministrazione, il successivo art. 39 co. 1, prevede un onere di impugnazione entro il termine di 60 giorni, decorrente dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore.

Rispetto al suddetto onere di impugnazione, il dibattito giurisprudenziale degli ultimi anni si è incentrato in particolare sul caso di reiterazione di più contratti a tempo determinato (anche in somministrazione) e, nello specifico, sulla decorrenza del termine di decadenza per l’impugnazione stragiudiziale, da intendersi decorrente in relazione ad ogni singolo contratto, con conseguente necessità di una apposita impugnativa per ciascuno di essi, ovvero dall’ultimo contratto della serie, con estensione dell’impugnazione a tutti i contratti precedenti. Sul punto, è ormai da ritenersi consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto a termine della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello utile per l’impugnativa. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, al di fuori dei casi specifici per i quali la reiterazione del contratto a termine comporta per legge che il secondo contratto si consideri a tempo indeterminato, ovvero che il rapporto sia tale sin dalla stipula del primo contratto (come ad es. nel caso di successione di assunzioni a termine senza il rispetto del c.d. stop&go), la mera reiterazione di contratti a termine non può configurare a priori la sussistenza di un unico continuativo rapporto di lavoro. Di conseguenza, a ciascun contratto a termine devono essere applicate le regole inerenti alla sua impugnabilità.

Tale interpretazione, peraltro, risulta essere conforme con il dato letterale dell’art. 28 co. 1 in esame, il quale dispone espressamente che la decadenza per l’impugnativa decorre “dalla cessazione del singolo contratto”, ove la parola singolo assume, evidentemente, il significato specifico di isolare, ai fini dell’impugnativa, ogni contratto dalla serie nella quale viene ad inserirsi. Premesso tutto quanto sopra, la Corte di Cassazione, con la recentissima la sentenza n. 15226 del 30 maggio 2023, ha avuto modo di articolare ulteriormente la propria interpretazione sull’argomento, trovandosi a dover valutare il ricorso di un lavoratore contro una sentenza della Corte d’Appello di Brescia, la quale lo aveva dichiarato decaduto dalla facoltà di contestare la legittimità di otto contratti a termine succedutisi nel tempo in sostanziale continuità, avendo egli provveduto ad impugnare tempestivamente solo l’ultimo di essi e non potendosi considerare tale impugnazione valida anche per i contratti precedenti.

Con tale decisione la Cassazione, pur ribadendo il principio secondo cui l’impugnazione dell’ultimo contratto a tempo determinato non può estendersi ai contratti precedenti, ha tuttavia precisato che, per quanto riguarda la questione relativa al superamento della durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore per effetto di una successione di contratti (oggi stabilita in 24 mesi dall’art. 19 co. 2 D.Lgs. 81/2015), la complessiva vicenda contrattuale, pur insuscettibile di poter costituire fonte di azione diretta per essere intervenuta la decadenza, può tuttavia avere rilevanza fattuale come antecedente storico che entra a far parte di una sequenza di rapporti, valutabile dal Giudice in via incidentale, al fine appunto di verificare se la reiterazione dei contratti abbia oltrepassato il limite massimo di durata.

Per motivare tale interpretazione, la Corte di Cassazione richiama la sentenza della Corte di Giustizia UE del 14 ottobre 2020 causa n. C-681/18, la quale, seppur riferendosi ai contratti a termine in regime di somministrazione, ha affermato che la normativa degli Stati membri deve prevedere il mantenimento della natura temporanea del lavoro interinale, al fine di evitare l’elusione della normativa comunitaria.

Partendo da questo assunto, la Corte di Cassazione afferma che, nell’interpretare la normativa sui contratti a tempo determinato, non si possa prescindere dal principio generale di origine comunitaria secondo cui il contratto di lavoro è normalmente a tempo indeterminato ed il contratto a termine resta una ipotesi eccezionale e che, di conseguenza, per poter ritenere effettivamente temporanea l’esigenza del datore di lavoro di ricorrere a tale forma contrattuale, la valutazione non possa essere parcellizzata ma debba estendersi necessariamente alle modalità complessive di svolgimento del rapporto.

Alla luce di ciò, la circostanza che il ricorrente sia decaduto dalla possibilità di impugnare specificatamente i termini apposti ai contratti precedenti non esclude che il Giudice debba tenere conto, nel valutare la legittimità del contratto tempestivamente impugnato, del dato fattuale dell’esistenza di pregressi contratti a termine con lo stesso datore di lavoro e ciò al fine di accertare se, complessivamente, l’esigenza datoriale possa effettivamente qualificarsi come temporanea, oppure non denoti un ricorso abusivo a tale forma di lavoro.

Nel caso specifico oggetto della decisione in commento, quindi, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore e ha rinviato alla Corte d’Appello di Brescia per una nuova valutazione in diversa composizione.

*Avvocato in Milano – Galbusera & Partners

 

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