di Giovanni Dall’Aglio*
Nell’era dell’intelligenza artificiale, il lavoro sembra diventato un’operazione senza attrito: tutto è più veloce, più efficiente, più immediato. Ma cosa accade quando l’immediatezza sostituisce la profondità? Diceva Jean-Paul Sartre: “L’uomo è condannato a essere libero, perché una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa”. La libertà in cui siamo proiettati oggi è tuttavia illusoria: crediamo di scegliere quando in realtà stiamo delegando ad una macchina l’esercizio di pensare al posto nostro. In questa rincorsa verso l’automazione e la flessibilità, che ruolo gioca la percezione che abbiamo di noi stessi nel contesto professionale?
L’effetto Dunning-Kruger e la sindrome dell’impostore sono due facce della stessa medaglia che, seppur antitetiche, contribuiscono a dare un quadro della distorsione dell’identità lavorativa in un mondo che ha smesso di riconoscere il vero significato del lavoro. Da una parte abbiamo l’esperto apparente: la figura con scarse competenze ma che si sopravvaluta, considerandosi “esperto”. Anni di (vuote) esperienze lavorative accompagnati da scatti di carriera lo autoconvincono di essere “senior”, e dunque esperto. Spesso utilizza strumenti o software che generano output molto complessi di cui ignora totalmente la profondità sottostante. È vittima della sindrome di Dunning-Kruger, convinto di sapere solo perché uno strumento gli fornisce risposte. Ma è un’illusione di competenza: senza la macchina, rimane vuoto, incapace di pensare autonomamente.
Se l’effetto Dunning-Kruger è l’autocompiacimento del saputo, la sindrome dell’impostore è il rovescio della medaglia, e cioè la costante paura di non essere mai abbastanza, anche quando lo siamo. È spesso il lavoratore che, pur avendo le competenze giuste, non riesce a riconoscere il proprio valore. Una sorta di riflessivo in crisi. Vive un disagio derivante dal fatto che non vuole rinunciare a pensare, anche se il mondo circostante tende a premiarlo quando smette di farlo. In un contesto in cui l’autocelebrazione è il principale motore di riconoscimento, l’individuo è sospeso tra il timore di non essere mai abbastanza e la sicurezza di essere un “esperto” senza aver acquisito una comprensione profonda di sé e del proprio ruolo. E’ un fenomeno che possiamo osservare (e non) sui portali web relativi al mercato del lavoro. Quante volte vediamo profili con titoli ed esperienze altisonanti, che postano quotidianamente articoli caccia like per guadagnare condivisioni, ma dei quali non si capisce concretamente quale sia davvero la profondità del loro sapere? Viceversa, quanti profili di talento decidono di non iscriversi a questi portali per non sentirsi obbligati a condividere riflessioni con persone mediocri che tuttavia sono riconosciute come “esperte”?
Oggi l’AI ci offre risposte, ma non ci spinge a pensare, e quindi ad evolverci. Il nostro pensiero rimane immobile, congelato in un mondo dove ogni domanda ha una risposta facile. Se da un lato l’AI promette di liberarci dalle operazioni ripetitive, dall’altro rischia di distoglierci dal reale fondamento della libertà umana: l’esercizio dello spirito critico e creativo.In un mondo in cui una macchina ci fornisce la risposta giusta, è il dubbio umano a fare la differenza. Essere esperti non è una questione di conoscere le risposte, ma di saper porre le domande. Il lavoratore del futuro non dovrà scegliere tra essere un “esperto superficiale” che sfrutta ciecamente l’AI o un “impostore” che si sente alienato dal mondo che lo circonda. La vera sfida sarà quella di trovare un equilibrio tra l’uso efficace degli strumenti tecnologici e la preservazione delle qualità che fanno di un essere umano un lavoratore autentico: la riflessione critica e l’esercizio della propria natura creativa.
Se l’AI ci offre risposte senza fatica, forse è il momento di chiedersi se stiamo ancora cercando le domande giuste. L’automazione può liberarci dai compiti ripetitivi, ma chi ci libererà dal pericolo di non pensare?
Diceva Kierkegaard:
“La vita può essere compresa solo all’indietro, ma deve essere vissuta in avanti” …
Eppure, oggi sembriamo più ossessionati dalle risposte che dal viaggio stesso. È la ricerca, non la risposta, a dare valore al nostro cammino. Se ci dimentichiamo di questo, forse non stiamo più vivendo, ma solo consumando.
*Ingegnere e Phd in Trieste