Il Welfare sconosciuto

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di Loris Beretta* 

A differenza dell’italiano, in inglese ci sono tre tipi di benessere: il Welfare ossia l’insieme di interventi e di prestazioni erogati dalle istituzioni pubbliche e finanziati tramite entrate fiscali (Welfare State) quindi considerato orientato al benessere sociale; il Well-being ossia il benessere generale, tutto ciò che contribuisce al benessere psichico, economico e sociale del singolo individuo; il Wellness ossia uno stato psico-fisico di piena salute dell’individuo, al quale si aggiunge un benessere globale che, nel complesso, denota un’elevata qualità della vita.

Nella lingua italiana, invece, abbiamo solo la parola “benessere” che raggruppa tutti i concetti di cui sopra ossia comprende uno stato di buona salute fisica e psichica, felicità, senso di benessere interiore, prosperità economica, agiatezza: vivere in condizioni di benessere (dal Dizionario Sabatini Coletti) in questa definizione il termine “prosperità” significa stato di floridezza, di rigoglioso sviluppo, di grande benessere soprattutto economico (dal Vocabolario Treccani).

A seguito delle recenti riforme fiscali la parola “welfare” di origine inglese è stata adottata da noi italiani come termine che richiama il proposito di offrire una vita migliore ad altri; così abbiamo il welfare classico ossia quello di Stato, sempre lo Stato ha poi incentivato la creazione di un welfare contrattuale (nei Contratti Collettivi Nazionali) e un welfare “privato” ossia quello aziendale spinto dalla revisione ed ampliamento dell’articolo 51 del TUIR.

Queste premesse sono importanti per evitare le tante mal comprensioni del termine welfare assumendolo come sinonimo del termine “benessere” che da noi è molto più generale e non distingue tra benessere del singolo e benessere sociale. Se ne conclude che quando si parla di “welfare” si deve intendere un insieme di azioni mosse da un intento assistenziale.

Bene il concetto di assistenzialismo per i più fragili ma quando lo Stato, per una questione democratica e costituzionale (artt. 32 e 38 Cost.), allarga le maglie a tutti i cittadini ecco che le questioni di finanza cominciano a farsi largo e a divenire sempre più il vero motivo per cui viene incentivato un allargamento della sfera di aiuto proveniente dal mondo privato.

L’assistenzialismo porta troppo spesso i lavoratori a non sentirsi responsabili per il proprio futuro in quanto il supporto in caso di bisogno si considera scontato in quanto dovuto, dall’altra parte i datori di lavoro sapendo che poco ci si occupa di loro, tendono troppo spesso a trascurare la costruzione di congrui piani di sostentamento in caso di bisogno e di vecchiaia. In tutto ciò, quello che osservo, è che quando si delega a qualcun altro la gestione del proprio futuro le probabilità di ritrovarsi in gravi difficoltà sono davvero molte! Lo dimostrano i tanti pensionati che non arrivano a fine mese o le persone costrette a non curarsi perché anche il pagamento del ticket sanitario è un problema serio.

Ecco, quindi, qualche spunto che propongo per migliorare la situazione di tutti, imprenditori e lavoratori.

Adriano  Olivetti,  già  più  o  meno  settant’anni  fa,  si esprimeva dicendo che “limpresa è uno dei principali fattori di mutamento del tessuto sociale e quindi deve contribuire alla ricerca di una migliore qualità della vita individuale e collettiva”; oggi, con uno Stato in affanno e straindebitato, lo è più che mai. Basti pensare che nel   modello   didattico   sull’educazione   finanziaria presentata non molto tempo fa alle scuole secondarie di II grado la CONSOB suggerisce che “Ogni cittadino è chiamato a compiere nel corso della vita scelte importanti – piccole e grandi che siano – che riguardano la sua sfera economica. Sono decisioni che incidono sulla qualità presente e futura della vita individuale e famigliare e che necessitano, quindi, di attitudini e competenze adeguate.” Se ne conclude che la responsabilità dell’imprenditore oggi non è tanto quella di aggiungere ulteriore assistenzialismo a quello già esistente, ma di impegnarsi a diffondere cultura che migliori la capacità individuale (sua e dei propri collaboratori) di compiere scelte coerenti con l’idea di un futuro sereno.

Quanti piani “welfare” vedo costruiti solo con motivazioni di risparmio fiscale che poi regolarmente falliscono scontentando tutti. Il criterio non è tanto il “dare” ma far comprendere che con «responsabilità» si intende la capacità di percepire gli effetti ad ampio raggio che le proprie azioni hanno su ciò che ci circonda. Ogni azione che facciamo (o non facciamo) determina degli effetti, ha delle conseguenze e tutto parte dalle nostre idee sulla base delle quali agiamo ottenendo dei risultati. Ne consegue che qualsiasi risultato che otteniamo dipende dalle idee che abbiamo e da come le mettiamo in pratica. Se non comunichiamo tutto questo ai nostri collaboratori essi resteranno dei dipendenti e in quanto dipendenti dipenderanno e non si sentiranno mai chiamati a dover prendere decisioni o a “metterci del loro” per migliorare, anzi, penseranno che migliorare non esiste, che non è compito loro, che se le cose vanno male la colpa è certamente di qualcun altro.

Per dipanare la matassa parto da uno scenario in tre punti che delinea le sfide che abbiamo di fronte oggi:

  1. I giovani di adesso, lavoratori pubblici e privati, atipici e precari, liberi professionisti, artigiani, commercianti e industriali avranno, per pensione, nella migliore delle ipotesi, la metà del loro ultimo salario, stipendio o emolumento (vi è sempre più un allargamento della forbice tra persone che lavorano e pensionati per cui diminuiscono i primi ed aumentano i secondi).
  2. Oggi si vive di più e con meno soldi, i nonni che un tempo erano la colonna portante del trasferimento di cultura ed erano sostegno attivo per le famiglie, oggi sono sempre meno presenti nel nucleo dei figli e sempre meno possono aiutare a livello
  3. L’Istat ha rilevato che la più grande paura per gli italiani è la non autosufficienza e le ultime rilevazioni ne spiegano la ragione: “Circa un terzo degli over 75 presenta una grave limitazione dell’autonomia e per un anziano su 10 questa incide sia sulle le attività quotidiane di cura personale che su quelle della vita domestica (8,5% nell’Ue22)” (fonte ISTAT).

Ne consegue che il vero disagio sociale è rappresentato dal ritrovarsi domani a dover gestire la propria assistenza con l’incertezza delle condizioni economiche e questo può succedere solo se non ci si informa, se non si agisce in prevenzione.

Pochi sanno che, in continuità con le indicazioni della Comunità Europea per quanto riguarda la formazione dei cittadini, il Governo italiano con troppa poca enfasi ha creato il Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria che ha il compito di programmare e promuovere iniziative di sensibilizzazione ed educazione finanziaria per migliorare in modo misurabile le competenze dei cittadini italiani in materia di risparmio, investimenti, previdenza, assicurazione [salute] (https://www.mef.gov.it/ministero/comitati/comitato educazione-finanziaria/index.html). 

Questo la dice lunga su quanto oggi sia indispensabile formare sé stessi e i propri collaboratori su come va gestito il danaro, su come il benessere, soprattutto quello futuro, va costruito con cura e attenzione e sul fatto che come sto, come starò, come stanno e come staranno le persone che mi sono vicine dipende solo da me, dalle mie scelte.

Tre sono le colonne portanti per la costruzione di un futuro sereno:

i fondi per la pensione integrativa, i piani di assistenza sanitaria integrativa, la gestione del danaro.

Oggi ci concentreremo sul tema “salute”: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia o infermità”. [Zimmer, Ben (2010-04-16), “Wellness”, The New York Times].

Lo abbiamo detto prima, lo Stato è chiamato dall’art. 32 della Costituzione a garantire la salute dei cittadini, il punto è capire come stanno davvero le cose visto che l’aspettativa media tra uomo e donna oggi l’Ocse la misura in 82,3 anni (l’aspettativa di vita tra il 1900 e il 2020 è cresciuta di oltre 40 anni in più) e che l’Istat ci dice che gli over 65 rispetto alla popolazione attiva sono ben il 35,2%.

Eppure, a fronte di tutto ciò, nel decennio 2010 – 2019 tra  tagli  e  riduzione  dei  finanziamenti  al  Servizio Sanitario Nazionale sono stati sottratti circa 37 miliardi; la spesa sanitaria pubblica nel 2019 è stata di 119,1 miliardi  (74,5%  del  totale)  mentre  quella  privata  è salita a 40,8 miliardi (25,5% del totale). Il fenomeno non è nuovo, basti pensare che nel 1993 le proporzioni erano molto simili (72,8% la spesa pubblica e il 27,2% quella privata). Il calcolo della spesa pro-capite è di 665 euro a cittadino e di 1.995 in media per famiglia. Di tutto ciò ben 10,7 miliardi sono stati spesi dai privati per assistenza domiciliare e residenziale (a riconferma della preoccupazione della non autosufficienza di cui si è detto più sopra). Mai risolto poi il problema delle attese per una visita nella sanità pubblica che restano da sempre bibliche.

A  fronte  di  questa  situazione  il  Censis  ha  condotto una  rilevazione  statistica  chiedendo  se  le  persone intervistate   fossero   disponibili   ad   aderire   ad   un programma di sanità integrativa ottenendo un 57% di risposte affermative, che sale all’81% per chi è nella fascia di età compresa tra i 50 e i 70 anni e più avanti capiremo il perché.

Peccato che questa predisposizione, poi, non trovi attuazione pratica a causa della mancanza di conoscenza sul come fare. Il problema incide principalmente su imprenditori e professionisti, dato che per i lavoratori dipendenti i contratti collettivi già prevedono ampie forme di tutela sanitaria tramite enti appositamente costituiti, anche se alla perdita del lavoro tutto diventa più complicato, ecco perché vanno formati loro stessi sulla possibilità di integrare le coperture per i momenti più duri. Basti pensare che le polizze sanitarie, per quanto siano ben pubblicizzate, sono poco diffuse (la Banca d’Italia osserva che solo il 6,9% della popolazione italiana possiede una polizza sanitaria volontaria).

D’altra parte, per quanto le assicurazioni offrano pacchetti anche molto completi, la scarsa appetibilità deriva da diversi aspetti. Innanzitutto vi è la totale indeducibilità fiscale delle polizze sanitarie, le polizze contengono sempre una clausola di libertà di recesso da parte della compagnia assicuratrice che può essere fatto valere in qualsiasi momento e, nella maggior parte dei casi, senza limitazioni, la stipula di una polizza sanitaria richiede preventive visite di controllo per verificare che non vi siano malattie pregresse dato che queste non sono assicurabili. In ogni caso le polizze coprono in genere fino a settant’anni e solo in qualche raro caso fino a 75, lasciando pertanto scoperta la fascia di età più critica, infine, i costi per avere una buona copertura anche per il nucleo familiare sono molto elevati e tutti i premi versati vengono incamerati dalla compagnia assicuratrice e, se per fortuna la polizza non è stata utilizzata o lo è stata poco, alla fine della copertura sono totalmente a fondo perduto perché restano nei ricavi della compagnia assicuratrice.

Quindi, esiste una soluzione al problema della costruzione di un buon piano di sanità integrativa?

La risposta è sì!

Si tratta solo di avere il giusto grado di informazione su alcuni strumenti poco conosciuti ma di grandissima utilità.   Mi   sto   riferendo   alle   mutue   sanitarie. Eppure,  pensate  che  le  società  di  mutuo  soccorso sono  associazioni  nate  intorno  alla  seconda  metà dell’Ottocento per aiutare i lavoratori a darsi una prima forma di copertura del rischio di eventi quali incidenti sul lavoro, malattia, perdita del posto di lavoro (una delle  prime  leggi  regolatrici  delle  società  di  mutuo soccorso fu la legge n.3818 del 18 aprile 1886). Esse rimasero  il  principale  sistema  assistenziale  sanitario fino al 1978, anno in cui nacque il servizio sanitario nazionale (mentre nel 1958 fu costituito il Ministero della Sanità), tuttavia le società di mutuo soccorso non scomparirono ma se ne parlò sempre meno fino a che già negli anni 90 la spesa sanitaria pubblica registrò disavanzi davvero impressionanti (nel 1994 il disavanzo del servizio sanitario nazionale arrivò a 5.208 miliardi di lire).

Oggi, le società di mutuo soccorso stanno tornando fortemente alla ribalta per una serie di validissimi motivi;

il primo che si tratta di società di persone costituite in forma cooperativa senza scopo di lucro.

Questo significa che il beneficiario non è un cliente ma bensì un socio e, in quanto socio, partecipa attivamente allo scambio mutualistico che consiste nell’erogare sussidi, prestazioni e servizi sanitari, sociosanitari e assistenziali ai propri aderenti che vengono assistiti da una forma organizzativa che non è orientata al profitto, ma totalmente al loro benessere e alla loro tutela senza alcuno scopo di lucro.

La società di mutuo soccorso e aperta a qualsiasi cittadino e, a differenza dell’assicurazione privata, non applica alcuna selezione preventiva, al punto che il suo funzionamento è sostanzialmente parificabile a quello del servizio sanitario nazionale. Il rapporto associativo è libero e volontario e non esiste alcuna clausola di recesso unilaterale garantendo, e questa è la caratteristica dal mio punto di vista più grande in assoluto, l’assistenza per tutta la vita del socio e della sua famiglia senza alcun limite di età; altro grandissimo vantaggio è che i contributi versati non vengono perduti come nel mondo dell’assicurazione privata ma possono addirittura essere oggetto di trasferimento ereditario (si tratta pur sempre di quote di partecipazione).

Pochissimi poi, sanno che il codice del terzo settore (d.lgs. 117/2017) comprende anche le società di mutuo soccorso col fine di rilanciare la mutualità in una logica giuridica e sistemica evidenziando, soprattutto nell’ambito della sanità integrativa, il valore della sussidiarietà e della condivisione piuttosto che il criterio del profitto. Per questo è stato operato lo spostamento della lettera i-bis dell’art. 15 TUIR all’interno del comma 5 articolo 83 del predetto d.lgs. 117/2017, che consente la detrazione dei contributi associativi fino ad un importo pari a 1300 € versati dai soci alle società di mutuo soccorso (mentre la polizza sanitaria resta indeducibile totalmente), di questo davvero in pochi se ne sono accorti.

Un ulteriore vantaggio fiscale si ha nel caso in cui l’azienda nel proprio programma welfare preveda di versare un contributo finalizzato alla tutela sanitaria dei propri collaboratori in quanto resta totalmente deducibile ed esente da imposte in capo al lavoratore fino al limite di euro 3.615,20 venendo assoggettato al solo contributo di solidarietà Inps del 10%.

Oggi sono poco più di 500 le società di mutuo soccorso attive in Italia e il loro valore sociale è stato sottolineato anche dal Decreto Sviluppo e Crescita 2.0 (d.l. n°179 del 18 ottobre 2012) all’art. 23 secondo il quale le mutue devono garantire come minimo la:

  1. erogazione di trattamenti e prestazioni sociosanitari nei casi di infortunio, malattia ed invalidità al lavoro, nonché in presenza di inabilità temporanea o permanente;
  2. erogazione di servizi di assistenza familiare o di contributi economici ai familiari dei soci deceduti;
  3. erogazione di sussidi in caso di spese sanitarie sostenute dai soci per la diagnosi e la cura delle malattie e degli infortuni;
  4. erogazione di contributi economici e di servizi di assistenza ai soci che si trovino in condizione di gravissimo disagio economico a seguito dell’improvvisa perdita di fonti reddituali personali e familiari e in assenza di provvidenze pubbliche.

Si legge nelle linee guida per la riforma del terzo settore: “Esiste un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no‐profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Un settore che si colloca tra lo Stato e il mercato, tra la finanza e l’etica, tra l’impresa e la cooperazione, tra l’economia e l’ecologia, che dà forma e sostanza ai principi costituzionali della solidarietà e della sussidiarietà. E che alimenta quei beni relazionali che, soprattutto nei momenti di crisi, sostengono la coesione sociale e contrastano le tendenze verso la frammentazione e disgregazione nel senso di appartenenza alla comunità nazionale”.

L’adesione ad una società di mutuo soccorso può davvero essere la strada per garantire a sé stessi e alla propria famiglia una corretta copertura nel momento del bisogno.

*Odcec Milano

 

 

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