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SICUREZZA SUL LAVORO: criteri di identificazione del datore di lavoro

di Raffaele Bergaglio*

 

In un settore del diritto come quello penale, dove tutto dovrebbe essere connotato da un livello di certezza tale da non lasciare dubbi interpretativi, non fosse altro che per le conseguenze che ne possono derivare, non è ancora del tutto pacifica la rosa soggettiva delle attribuzioni di responsabilità penale derivanti da infortuni sul lavoro.

Non vi è dubbio che i responsabili di un infortunio sul lavoro possano essere più di uno, tuttavia nel corso del tempo si sono avvicendati vari criteri di attribuzione della responsabilità.

Chi è il datore di lavoro? La sua figura coincide con il concetto civilistico di datore di lavoro consistente tendenzialmente nella titolarità cartolare del rapporto di lavoro?

Il problema, ovviamente, non si pone nelle imprese in cui, vuoi per scelta, vuoi per le dimensioni aziendali di piccola o media consistenza, vi è un unico amministratore, nel qual caso ricade su costui la qualifica di datore di lavoro, fatti salvi casi eccezionali, ma cosa accade di fronte ad organizzazioni più complesse, come molte società di capitali, amministrate tramite organi direttivi di tipo collegiale?

La definizione normativa di cui all’art. 2 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro a ben vedersi, fa riferimento sia ad un dato formale, costituito dal «titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», sia al dato sostanziale o fattuale di chi «ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa».

Questo dovrebbe di per sé essere sintomatico della volontà del legislatore di valorizzare entrambe le accezioni del datore di lavoro: quella di tipo civilistico, che riguarda la titolarità del rapporto lavorativo in senso contrattuale, e quella di tipo prettamente fattuale, che guarda all’esercizio concreto delle prerogative datoriali nell’organizzazione dell’impresa.

Recentemente la giurisprudenza si sta assestando su posizioni che cercano di mixare vari orientamenti succedutisi negli ultimi anni.

Di volta in volta le responsabilità in materia di sicurezza vengono ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che di solito rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unità organizzative, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Le Sezioni Unite della Cassazione, nella nota sentenza pronunciata per il caso ThyssenKrupp, hanno ribadito che “ruoli, competenze e poteri segnano le diverse sfere di responsabilità gestionale ed al contempo definiscono la concreta conformazione, la latitudine delle posizioni di garanzia, la sfera di rischio che deve essere governata”, sicché, “nell’ambito di organizzazioni complesse, d’impronta societaria, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l’organizzazione dell’istituzione, l’individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura” (Cass. Pen., S.U., 18.9.2014, n. 38343).

Così, con riferimento all’infortunio di un muratore, si è sostenuto che anche un soggetto estraneo all’organigramma aziendale possa assumere il ruolo di datore di lavoro e divenire destinatario della normativa antinfortunistica, in presenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici, dai quali possa desumersi l’effettivo esercizio di funzioni datoriali. Il datore di lavoro titolare degli obblighi prevenzionistici va individuato sia in colui che risulta parte in senso ”formale” del contratto di lavoro sia nel soggetto che ”di fatto” assume i poteri tipici della figura datoriale (Cass. pen. IV, 23.09.2016, n. 39499; ma v. altresì Cass. pen., Sez. IV, 23.10.2015, n. 2536).

Nelle imprese di grandi dimensioni, ampiamente articolate, si può determinare la contestuale presenza di un datore di lavoro al vertice dell’intera organizzazione, che pertanto potrebbe dirsi ”apicale”, e di uno o più datori di lavoro che potrebbero definirsi ”sottordinati”. Sennonché il ruolo datoriale di questi ultimi non elide il vincolo gerarchico verso il datore di lavoro apicale, che resta unico, con la particolarità che tale vincolo si esprime con modalità che non intaccano i poteri di decisione e di spesa dei datori sottordininati nella autonoma gestione delle unità produttive.

Quando, invece, il vincolo gerarchico con il datore di lavoro apicale si riflette anche sulle gestioni secondarie o sotto-articolate, è da escludersi che ricorrano anche datori di lavoro sottordinati, profilandosi piuttosto dei dirigenti, con la conseguenza che la responsabilità penale rimane totalmente in capo all’apicale. Ne deriva che nelle imprese articolate in una pluralità di unità operative, il datore di lavoro sottordinato è destinatario di tutte le prescrizioni che si indirizzano alla figura datoriale ancorché in funzione della gestione della sicurezza nell’ambito dell’unità organizzativa affidatagli. Esemplificando, egli sarà tenuto ad eseguire la valutazione di tutti i rischi connessi alle attività lavorative svolte nell’unità; a redigere il documento di valutazione dei rischi; a nominare il medico competente ed il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione (in tal senso v. Cass. pen., III, n. 9028 del 15.02.2022; Cass. pen. Sez. IV, n. 32899 dell’08.01.2021; Cass. pen. Sez. IV, n. 18200 del 07.01.2016).

Concludendo, per ciò che attiene alla sicurezza sul lavoro, non esiste un criterio univoco per individuare il datore di lavoro nelle organizzazioni complesse. La giurisprudenza oggi tende ad utilizzare entrambi i criteri previsti dall’art. 2 del TUSL, quello ”formale”, che identifica il datore di lavoro nel «soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», e quello ”sostanziale”, che lo individua nel «soggetto che … esercita i poteri decisionali e di spesa».

La conseguenza di tale impostazione è che nell’ambito degli organi direttivi collegiali, a seconda dei casi concreti che si prospettano, le responsabilità datoriali in materia di sicurezza saranno ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che normalmente rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unita, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Particolare rilievo nell’individuazione del datore di lavoro assume anche l’art. 28, D.lgs. 81/2008, dedicato all’«oggetto della valutazione dei rischi», atteso che la redazione del documento di valutazione di rischi (DVR), non può essere delegato da parte del datore di lavoro, a fronte di quanto previsto dall’art. 17 D.lgs. 81/2008. Tale documento, si ricorda, deve contenere la valutazione dei rischi per i lavoratori, l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione, l’individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidate a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Pertanto, la semplice disamina di tale documento e della sua sottoscrizione, tendenzialmente consente di identificare il soggetto originariamente tenuto a prevenire e governare il rischio medesimo.

Si deve tenere presente che esistono vari rimedi per sgravare il datore di lavoro della maggior parte degli obblighi incombenti sulla sua posizione di garanzia e sulle conseguenti responsabilità, ma di questo abbiamo avuto modo di parlare nello speciale sicurezza.

* Avvocato in Milano

#prevenzione; #RSPP; #sicurezza #datoredilavoro

NUOVA RESIDENZA FISCALE DELLE SOCIETÀ

di Paolo Soro*

Il Decreto Legislativo di riforma in materia di fiscalità internazionale, al titolo I, capo I, articolo 2 – Residenza delle società e degli enti (di seguito, il Decreto), apporta importanti modifiche agli articoli 73 (commi 3 e 5-bis) e 5 (comma 3), del TUIR.

Come precisa la relazione illustrativa, in particolare, i criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono la ratio della novella legislativa, sottolineando la rilevanza degli aspetti di natura fattuale in relazione al collegamento personale all’imposizione del reddito e realizzando un approccio che lo amplia e – quanto meno nell’idea del Legislatore – dovrebbe rafforzare la certezza del diritto. Per quanto i due criteri sostanziali operino disgiuntamente, la duplice inclusione persegue l’obiettivo di escludere alla radice indebiti ampliamenti a ulteriori criteri di natura sostanziale.

Le attività di supervisione e l’eventuale attività di monitoraggio della gestione da parte dei soci sono ora ben differenziate dalla direzione effettiva e dalla gestione amministrativa corrente. A detto ultimo proposito, l’inserimento del criterio della “gestione ordinaria in via principale”, prosegue la relazione illustrativa, consente di allinearsi a quell’orientamento di altri Paesi europei che lo impiegano per stabilire il collegamento personale all’imposizione nei casi in cui vi sia un effettivo radicamento della persona giuridica sul territorio ma sorgano incertezze interpretative in merito al luogo di direzione effettiva. In altri termini, ciò che rileva ai fini del criterio qui considerato è che gli atti siano relativi alla gestione ordinaria, attinente al normale funzionamento della società o dell’ente nel suo complesso. L’impiego, poi, dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi può, se del caso, esistere una stabile organizzazione.

In continuità con la disposizione vigente, la novella mantiene la presunzione di residenza per i trust e gli enti di analogo contenuto istituiti in Stati o territori a fiscalità privilegiata, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano, con la possibilità per il contribuente – in riferimento a questi ultimi – di fornire la prova dell’effettiva residenza nello Stato o territorio estero.

Con le modifiche apportate al comma 3 dell’articolo 5, viene inoltre eliminato il riferimento al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione.

In definitiva, il criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma; quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione. Permane, ovviamente, l’alternatività fra tutti i criteri, anche nell’attuale normativa.

La decorrenza delle nuove disposizioni è stata fissata all’articolo 7 del Decreto, il quale prescrive che la novellata regolamentazione attinente alla residenza fiscale di società ed enti entri in vigore:

A decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.”

Considerato che il Decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale N. 301 del 28/12/2023 (ed entra in vigore dunque il giorno dopo, 29/12/2023), ne consegue che la normativa in argomento decorre dal 2024.

Facciamo ora un salto nel passato al fine di comprendere meglio le modifiche decise dall’odierno legislatore.

Come noto, si ricade nella fattispecie dell’estero-vestizione allorché un soggetto d’imposta sottragga al potere impositivo nazionale, in maniera strumentale o meno, delle attività d’impresa che siano teoricamente suscettibili di produrre materia reddituale attiva (aziende industriali, commerciali, etc.), ovvero passiva (dividendi, interessi, utili, royalties – c. d. passive income). In sostanza, se la residenza effettiva contraddice quella formale, siamo di fronte a un tipico caso di estero-vestizione. La disposizione normativa è quella di cui all’art. 73, commi 3 e 5-bis, del TUIR. In particolare, il comma 3 previgente stabiliva che:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Il comma 5-bis affermava che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Schematizzando quanto appena riportato, in base al previgente art. 73, laddove il management della società o ente estero sia principalmente composto da soggetti che, per la maggior parte del periodo dell’anno, sono residenti in Italia, potremmo incorrere in un’ipotesi di estero-vestizione. Il condizionale è d’obbligo, poiché la disposizione premette la locuzione “salvo prova contraria”: vale a dire che ci troviamo di fronte all’ennesima presunzione prevista dall’ordinamento tributario, certamente suscettibile di dimostrazione contraria, ma che comunque, ab initio, impone un’evidente inversione del naturale onere della prova, spostandolo a carico del contribuente.

Il nuovo comma 3 dell’art. 73 del TUIR, oggi ci presenta il seguente testo:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale”.

Dunque, la sede della direzione effettiva subentra alla generica “sede dell’amministrazione”. Dopo di che, il Legislatore chiarisce altresì che:

“Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso.”

Peraltro, la norma inserisce tra i requisiti anche la gestione ordinaria in via principale. Con ciò il Legislatore intende riferirsi al:

“Continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”.

Come anticipato, nel testo precedente, la disposizione faceva altresì riferimento pure al concetto di “oggetto esclusivo” dell’attività. L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente veniva determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Con tale locuzione, si intendeva l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale dell’ente residente veniva determinato in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applicava in ogni caso agli enti non residenti.

Con l’approvazione del Decreto, almeno questi riferimenti al criterio dell’oggetto principale, forieri di corposo contenzioso, sono stati fortunatamente eliminati. Considerato, peraltro, che tutti i requisiti restano alternativi fra di loro, ne consegue che ci troveremo potenzialmente di fronte a un caso di estero-vestizione quando, al di là del dato formale, è concretamente localizzata in Italia:

“La sede nella quale vengono adottate le decisioni strategiche” (presumibilmente, gestione straordinaria, piani di investimento, indirizzi di vendita/produzione, etc.) ovvero “la sede nella quale viene svolta la gestione corrente, ordinaria”

Fermo comunque restando il primo requisito formale legato alla sede legale.

Tra i citati tre requisiti iniziali, appare dunque chiaro come il POEM (Place Of Effective Management – sede effettiva dell’amministrazione, quale luogo in cui sono adottate le decisioni strategiche e/o viene svolta la gestione ordinaria) sia quello che risulti presentare le maggiori criticità. Lo stesso Modello Convenzionale dell’OCSE, all’art. 4, afferma infatti che, nell’ipotesi di doppia residenza di una società, quale criterio discriminante debba essere preso in considerazione proprio il Place Of Effective Management. Orbene, in quanto luogo in cui si formano le principali decisioni strategiche della gestione, il POEM viene di regola identificato con la sede in cui si riunisce l’organo amministrativo. Conseguentemente, il registro delle adunanze del CDA sarà oggetto di opportuna verifica da parte del Fisco.

Cionondimeno, secondo il precedente testo normativo, se dei soggetti (persone fisiche con residenza in Italia) componevano in prevalenza l’organo amministrativo, appariva alquanto arduo vincere la presunzione di residenza connessa al POEM, pensando di far passare la propria tesi semplicemente sulla base di un verbale che riportava la sede estera come quella nella quale si sono svolte le varie riunioni dell’organo amministrativo, o magari solo in funzione del tipo di lingua usata nel trascrivere lo stesso verbale. Invero, il parametro cui l’Agenzia delle entrate ha sempre posto particolare cura con riferimento al POEM era piuttosto quello concernente la complessiva attività di direzione e di coordinamento. Ebbene, laddove tale attività si trasformava – ad esempio – in una costante ingerenza nella vita quotidiana della società (come spesso accadeva), risultava inevitabile far coincidere la residenza della società estera con quella di chi era deputato a compiere (o, comunque, indirizzare regolarmente) gli atti di gestione, proprio in virtù della sopra citata presunzione prevista nella richiamata disposizione normativa. Tale presunzione, a detta dell’Amministrazione finanziaria, poteva essere vinta fornendo valide prove circa l’effettività della residenza. Tali erano, per esempio:

– documenti atti a dimostrare che le riunioni del CDA erano state concretamente svolte all’estero (biglietti aerei, ricevute di alberghi, ristoranti, bus, metro, taxi etc., concomitanti con la data delle riunioni);

– documenti che dimostrano l’effettiva esecuzione di atti autonomi da parte dei membri del locale CDA (progetti, presentazioni, meeting e ogni altra documentazione diretta a migliorare l’economicità della società non residente);

– documenti, anche fattuali, testimonianti il grado di autonomia funzionale della società non residente e del suo personale dal punto di vista organizzativo, amministrativo, finanziario e contabile (direttive interne, contratti di natura commerciale e finanziaria, corrispondenza ordinaria con soggetti terzi, apertura e gestione dei conti correnti bancari, richiesta di mutui o prestiti etc.), vale a dire qualunque documentazione in condizione di provare l’effettivo svolgimento in loco dell’intera gestione operativa della società non residente.

In proposito, i principali indici di controllo reputati dall’Amministrazione finanziaria sintomatici ai fini della collocazione in Italia dell’effettivo potere decisionale/amministrativo, onde consentire di verificare l’esistenza di una società estero-vestita, erano i seguenti:

– mail scambiate tra residenti e non residenti;

– documenti personali degli amministratori della società non residente;

– concomitanza degli stessi soggetti nei CDA delle due società (residente e non residente);

– qualifica professionale degli amministratori esteri (ossia, se persone di comodo, o magari soggetti che abitualmente svolgono la funzione di “amministratori” per conto anche di altre società);

– residenza effettiva della società non residente (eventuale sede presso lo studio di qualche professionista locale: commercialista, avvocato, società di consulenza, etc.);

– abituale svolgimento delle riunioni del CDA presso la sede estera;

– verbali di assemblea dei soci (quindi, come anzidetto: verifica del luogo in cui sono materialmente deliberati – ancorché eseguiti – gli atti di gestione);

– contratti della società non residente e luogo effettivo in cui sono conclusi;

– disponibilità di conti correnti bancari italiani ed eventuale gestione dall’Italia di conti correnti bancari esteri.

Ebbene, si reputa che gli anzidetti elementi, in quanto mirati alla dimostrazione del luogo in cui è concretamente condotta l’amministrazione societaria, debbano continuare ad assumere pieno valore con l’introduzione dell’art. 2 del Decreto (e, anzi, ciò a maggior ragione, proprio oggi). Per quanto attiene all’amministrazione, l’attuale novella consente invero di escluderne la sede intesa come indice meramente formale, atteso che detto elemento dovrà essere valutato riferendosi ai luoghi nei quali sono effettivamente assunte le decisioni gestionali, indipendentemente dall’eventuale residenza personale degli amministratori. Detta residenza degli amministratori, peraltro, rimane prevista dalla norma con riguardo ai gruppi societari di cui al successivo comma 5-bis del Decreto.

I criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono dunque la ratio della novella legislativa. Inoltre, l’impiego dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi potrebbe, se del caso, esistere una stabile organizzazione: è noto – ad esempio – che la gestione corrente di un ramo d’impresa di regola configuri una stabile organizzazione (“place of management” ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a, del Modello OCSE e articolo 162, comma 2, lettera a, del TUIR, ossia “sede di direzione”). D’altronde, sulla stessa linea si era già posta pure la Corte di Giustizia UE nella sentenza del 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg Sarl, in cui era stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica:

“Indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)”.

È già stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della estero-vestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento. Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas (richiamata da Cassazione Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a escludere la normativa dello Stato membro interessato.

Proseguendo nella lettura del testo odierno troviamo la conferma della presunzione in capo ai trust che hanno a che fare con i Paesi a fiscalità privilegiata, mantenendo entrambe le disposizioni di carattere antielusivo:

“Si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust sono fiscalmente residenti nel territorio dello Stato.

Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi.”

Il successivo comma 5-bis, relativo alla presunzione di residenza nel territorio dello Stato di società ed enti controllati o amministrati da soggetti residenti nel territorio dello Stato (estero-vestizione), è riformulato come conseguenza dell’introduzione dei nuovi criteri della sede di direzione effettiva e della gestione ordinaria. Peraltro, nella sostanza, la disposizione conferma che, sempre ai fini delle imposte dirette, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

L’ipotesi elusiva tipica che tale ultima disposizione mira fondamentalmente a combattere è quella delle società Italiane che costituiscono una holding estera, la quale detiene a cascata la partecipazione di società Italiane. Questa costruzione fittizia veniva, infatti, molto usata un tempo, per evitare la tassazione delle plusvalenze in capo alla holding estera, su cessioni di partecipazioni di società Italiane.

Da notare, poi, che (come indicato al comma 5-ter), ai fini della verifica, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio (o periodo di gestione del soggetto estero) e che, ai medesimi fini, per le persone fisiche, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari.

Infine, giova ricordarlo, nulla cambia per gli organismi di investimento collettivo del risparmio che si considerano residenti se istituiti in Italia. L’incipit del comma 3 è, però, riformulato per esigenze di chiarezza, meglio esplicitando – in linea con la prassi dell’Agenzia delle entrate – che ai fini della residenza per gli organismi di investimento collettivo del risparmio rileva il criterio del luogo di istituzione.

Ricapitolando quanto qui evidenziato, dunque, la novellata disposizione modifica il criterio di collegamento ai fini della determinazione della residenza fiscale delle società, degli enti e delle associazioni, sopprimendo il criterio dell’oggetto principale e sostituendo il criterio della sede dell’amministrazione con quelli della sede di direzione effettiva e/o della gestione ordinaria in via principale. Inoltre, resta quale criterio di collegamento rilevante ai fini della residenza fiscale la presenza della sede legale nel territorio dello Stato.

In accoglimento di quanto richiesto nella lettera c) del parere reso dalla VI Commissione finanze della Camera dei deputati e della 6^ Commissione finanze e tesoro del Senato della Repubblica, nell’articolo 2 del Decreto qui oggetto di esame è stato inserito il comma 2 che riformula la lettera d) del comma 3 dell’articolo 5 del TUIR in materia di residenza delle società di persone e delle associazioni equiparate alle società di persone. Secondo le intenzioni del Legislatore, anche in tal caso, l’obiettivo consisterebbe nel cercare di assicurare maggiore certezza giuridica, allineando i criteri di radicamento con il territorio dello Stato con quelli previsti per le persone giuridiche.

Sostanzialmente, in coerenza con le modifiche intervenute nell’art. 73 TUIR, vengono eliminati i riferimenti al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione, e al criterio della sede dell’amministrazione formale. Analogamente alla residenza delle persone giuridiche, la residenza di società di persone e delle associazioni equiparate viene ricondotta agli usuali tre criteri:

  • Il primo criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma;
  • Quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione.

Come sempre, essendo i tre criteri fra loro alternativi, ciascuno di essi è di per sé in grado di fondare il collegamento delle società di persone con il territorio dello Stato.

La previgente disposizione recava il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale, nel territorio dello Stato.

L’oggetto principale è determinato in base all’atto costitutivo, se esistente in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e, in mancanza, in base all’attività effettivamente esercitata”.

Nell’odierna riperimetrazione di tipo più prettamente sostanziale/fattuale, la norma prevede il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale.

Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso.

Per gestione ordinaria si intende il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso”.

In definitiva, dunque, in collegamento con quanto stabilito per le società di capitali (ed enti equiparati) nell’art. 73, TUIR, il Legislatore non può che modificare altresì, di pari passo, quanto previsto nell’art. 5, TUIR, per: società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate, ai fini di determinare i requisiti di residenza fiscale nel territorio dello Stato.

Riassumendo tutto quanto fin qui esposto, la parte del Decreto di riforma della fiscalità internazionale che interessa il tema della residenza fiscale delle società è finalizzata all’allineamento del nostro ordinamento alla prassi internazionale e alla disciplina prevista dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, con l’obiettivo di dare maggiore certezza e, contestualmente, ridurre il contenzioso. La disciplina viene riformata intervenendo sui criteri di collegamento (ex articolo 73 del TUIR).

Nello specifico, l’articolo 2 del Decreto di recepimento lascia invariato il criterio di collegamento fondato sulla presenza della sede legale nel territorio dello Stato, rimuovendo, invece, il criterio dell’oggetto principale inteso in ottica meramente formale, estraneo alla prassi internazionale. La disposizione, inoltre, formula diversamente il criterio della sede dell’amministrazione, specificando i criteri di collegamento di natura sostanziale: la direzione effettiva e la gestione ordinaria in via principale.

Come già più volte ricordato, anche nell’attuale perimetrazione, tutti e tre i criteri di collegamento permangono tra loro alternativi, di tal guisa che il verificarsi di uno solo di essi consente al Fisco di qualificare la residenza fiscale in Italia.

In sede di conclusioni, pare doveroso osservare che, in genere, un tentativo del Legislatore che vada nella direzione di modificare i parametri formali ricercando piuttosto la sostanza, è sicuramente apprezzabile. Peraltro, francamente, lo sforzo compiuto appare alquanto insufficiente e resta l’amaro in bocca per l’ennesima occasione sprecata.

Oltre a ciò, considerato il tenore letterale della novella, resta tuttora il timore – più che fondato – di contenziosi nei quali i contribuenti saranno ancora una volta vittime di un’ingiustificata inversione dell’onere della prova, in assoluta controtendenza rispetto alla sbandierata certezza del diritto. Invero, la legge imporrebbe all’Agenza delle entrate di dimostrare l’esistenza di uno degli anzidetti tre criteri. Ciononostante, nella pratica, abbiamo visto spesso delle incomprensibili inversioni dell’onere della prova a carico del contribuente, per giunta avallate da taluna giurisprudenza.

Ecco, almeno sotto questo punto di vista, una riscrittura più puntuale ed esente da qualsivoglia interpretazione soggettiva della norma, sarebbe parsa doverosa e, proprio nell’ottica di perseguire gli obiettivi dichiarati, avrebbe drasticamente diminuito il volume del contenzioso, quanto meno in previsione futura.

*ODCEC Roma

#società #lfiscalitàinternazionale #residenza #decretolegislativo

IL SALARIO MINIMO “GIURISPRUDENZIALE”

 

di Andrea Sella*

 

Il salario minimo stabilito per legge ha visto un acceso dibattito politico nell’estate e nell’autunno del 2023. Quest’estate sembra più di moda la discussione sullo “ius scholae”. Resta il fatto che la Direttiva che aveva dato lo spunto per la trattazione dell’argomento, la DIR. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, è stata inserita nella Legge 21 febbraio 2024, n. 15 che conferisce la Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee 2022-2023. Il provvedimento è entrato in vigore il 10 marzo 2024 ed entro dodici mesi dovrebbe essere recepita la Direttiva. Quindi non è escluso che l’argomento ritorni di stretta attualità politica.

Oggetto del presente contributo non è però l’approccio normativo.

In proposito, ci si limita ad evidenziare che la Direttiva non obbliga in modo esclusivo gli Stati ad istituire un salario minimo legale, inteso come un minimo comune a tutti i lavoratori, prevedendo, in alternativa, la garanzia dell’adeguatezza dei salari minimi tramite la contrattazione collettiva, obbligando comunque gli Stati membri ad adottare misure per rafforzarla con particolare riferimento ai livelli retributivi. Solo qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva in un Paese risulti inferiore all’80%, è richiesta l’adozione di un piano dettagliato di misure, elaborate in consultazione o concordate con le parti sociali, dirette a elevare progressivamente il suddetto tasso. Non viene neppure imposta l’attribuzione di una generalizzata efficacia dei contratti collettivi.

In Italia, la copertura sindacale degli accordi è, se non corrispondente alla totalità dei settori, molto prossima al 100%, quindi la previsione di un salario minimo legale sarebbe una scelta politica e non una imposizione sovranazionale.

Nel nostro Paese, in realtà, la discussione sul salario minimo o, più correttamente, adeguato non si è mai sopita nella giurisprudenza giuslavoristica che, in occasione dell’emanazione della citata Direttiva, ha avuto nuovo slancio e nuovi spunti argomentativi.

Non è possibile trascurare il fatto che il fondamento della retribuzione “adeguata”, nella nostra civiltà giuridica deriva dalla Costituzione che all’art. 36 prevede il diritto “in ogni caso” ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Ovviamente, tutti i principi vanno declinati nel concreto e la giurisprudenza ha avuto molte occasioni di pronunciarsi.

La prima domanda che ci si pone è quale contratto collettivo prendere a riferimento e quindi adottare.

La risposta è di solito abbastanza scontata, ovvero quello stipulato per un determinato settore, dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Si pone però il problema di capire quali siano, perché la risposta non è in realtà così scontata.

Recentemente, anche l’art. 51, d.lgs. 81/2015 ha stabilito che «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché quelli stipulati dalle loro RSA, ovvero dalla RSU».

E’ noto il problema dei c.d. contratti collettivi “pirata” o dei sindacati detti di comodo o “gialli”.

Un tentativo di arginare il problema è stato fatto con gli accordi interconfederali del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e con il c.d. T.U. sulla rappresentanza sindacale del 2014 e successive integrazioni, i quali hanno in sintesi:

  1. a) introdotto la misurazione della rappresentatività per allargare la partecipazione negoziale;
  2. b) assunto come cardine del sistema a tutti i livelli il principio di maggioranza;
  3. c) adottato lo strumento del controllo “popolare” a livello interconfederale, di categoria e aziendale;
  4. d) aperto il sistema ad una maggiore aziendalizzazione, prima affidata alla contrattazione di produttività, estendendola alla contrattazione in deroga e ammettendo l’efficacia di contratti anche separati (rappresentatività espressa attraverso le R.S.A.).

Perno del nuovo sistema è la misurazione della rappresentatività sindacale “ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria” (T.U., parte prima, punto 1) affidata all’Inps (per la rilevazione del numero delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori). Spetta ad un comitato di composizione triangolare (un rappresentante del Ministero del lavoro che è anche presidente, due di Confindustria, e poi “tutte le OO.SS. che raggiungano la soglia del 5% di rappresentanza sulla base dell’ultimo dato della rappresentanza certificato”) proclamare il risultato annuale della misurazione e certificazione della rappresentanza “per ogni singolo contratto nazionale censito”. La soglia di rappresentatività per l’ammissione al tavolo delle trattative nazionali è fissata al 5%.

Nella prassi giurisprudenziale, a quanto consta, tale meccanismo non ha trovato grande applicazione con riferimento alla verifica della rappresentatività delle Organizzazioni Sindacali da considerare maggiormente rappresentative in funzione della adeguatezza dei livelli retributivi previsti nei rispettivi contratti collettivi.

La giurisprudenza tradizionalmente ha declinato l’art. 36 Cost., evidenziando la necessità di cercare parametri di riferimento che per lo più sono stati individuati nella contrattazione collettiva nazionale di categoria ma anche territoriale o aziendale, ritenuta, in via presuntiva, indice di proporzionalità e sufficienza del trattamento retributivo.

In ipotesi di rapporti non tutelati da uno specifico contratto collettivo, il giudice può utilizzare la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell’attività svolta dal datore di lavoro o, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe.

Ma anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro applichi un contratto proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta, il giudice può richiamare la disciplina di un contratto collettivo diverso e quindi anche quello di categoria non applicandolo direttamente, ma prendendolo a riferimento per la determinazione della retribuzione costituzionalmente adeguata.

Vi sono poi altri parametri che possono essere considerati quali le caratteristiche in concreto dell’attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi.

Pertanto il giudice gode di una certa discrezionalità nella scelta dei canoni da considerare, purchè motivi adeguatamente i criteri seguiti.

È evidente quindi che anche la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi costituzionali.

Ne discende anche che è onere del lavoratore allegare il tipo di lavoro svolto, la paga ricevuta nonché le motivazioni che ritengono inadeguato il trattamento praticato nei suoi confronti in raffronto con la contrattazione collettiva applicata.

Piuttosto numerose sono le decisioni sul tema, con riguardo al lavoro in cooperativa, in applicazione del riferimento normativo previsto dall’art. 3,1° comma, della legge 142/2001, dove è previsto un espresso rinvio ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.

Anche in tali casi la giurisprudenza ha ribadito il proprio ruolo nell’interpretazione dei canoni costituzionali rispetto al salario previsto dalla normativa di riferimento sopra richiamata.

Il dibattito sul salario minimo, almeno dal punto di vista giurisprudenziale ha avuto recenti riscontri con riferimento al settore della vigilanza e del portierato che in certi punti si sovrappongono, ma con differenti livelli retributivi e con diversi contratti collettivi astrattamente applicabili.

La giurisprudenza di merito sul punto si è dimostrata piuttosto restrittiva.

Per tali motivi, vasta eco hanno ricevuto le Sentenze della Cassazione n. 27711 del 2 ottobre 2023, n. 27713 e n. 27769/2023[1].

Tali Sentenze hanno avuto modo di ribadire tra l’altro che il giudice:

  1. può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, eventualmente mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale;
  2. quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato, può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271 del 10/06/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice;
  3. può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art. 2070 c.c., e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (sentenza Cass. n. 7157 /2003, Sezioni unite n. 2665/1997);
  4. fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017, Cass. 2758/2006, Cass. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).
  5. il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 1987/2791, Cass. n. 1985/2193, Cass. n. 24449/2016).

Più volte i giudici hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. nn. 14211/2001, 5519/2004, 27591/2005, 24092/2009, 3918/1982).

Inoltre, come già rilevato nella sentenza n. 24449/2016, a seguito del mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita, è stato ritenuto legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’art. 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”.

La novità delle recenti sentenze della Cassazione sopra richiamate sta nel riferimento esplicito al considerato n. 28 della direttiva UE 2022/2041, secondo il quale «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali», rendendo più moderno il concetto di vita libera e dignitosa, ricomprendendo non solo la mera sussistenza ma anche la realizzazione di una vita sociale altrettanto degna ed adeguata.

Resta sullo sfondo l’aspetto delle allegazioni dei motivi in fatto da porre a base della decisione che il lavoratore ha l’onere di esporre. Tuttavia, con riferimento a tale onere ed in generale a quello probatorio i citati arresti giurisprudenziali hanno chiarito che, “in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento. Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002)….omissis…” “Inoltre, la violazione dell’art. 36 Cost., è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979, sul punto anche Cass. n. 1255 del 1976 e n. 2380 del 1972)”.

Su solco della recente giurisprudenza della Cassazione, si ritiene di dover segnalare la Sentenza della Corte di Appello di Torino del 6 giugno 2024 n. 237 che ha avuto modo di valorizzare la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni quale parametro di adeguatezza della retribuzione, raffrontando due diversi CCNL per quanto in settori affini.

Il caso riguarda un lavoratore a cui era applicabile il CCNL ANISA, relativo tra l’altro agli addetti alla sicurezza antincendio sulle autostrade, in rapporto al CCNL ANGAF relativo all’analogo servizio delle c.d. Guardie ai Fuochi, in pratica il servizio antincendio in porti, autostrade, luoghi privati, ecc.

Occorre premettere che il CCNL ANGAF è stato adeguato nel 2019 con un aumento della retribuzione pari alla svalutazione monetaria rispetto alla precedente tornata, mentre il CCNL ANISA è stato rinnovato solo nel 2022 per un importo decisamente inferiore e non prevedeva alcun sistema di indennizzo della c.d. vacanza contrattuale in attesa dei futuri rinnovi, che nel caso specifico mancavano dal 2011.

La Corte d’Appello ha quindi fatto espressa e piena applicazione dei principi richiamati dalla citata giurisprudenza della Cassazione del 2023, prescindendo da parametri rigidi e teorici quali la soglia di povertà dell’Istat, ma ha dato particolare rilievo al tempo intercorso tra le tornate di rinnovo contrattuale e alla mancanza di adeguamento delle retribuzioni rispetto all’aumentato costo della vita.

Che tale soluzione non fosse scontata è reso evidente dal fatto che il Tribunale in primo grado aveva respinto la domanda, rifacendosi ad una impostazione concettuale più tradizionale ma certamente più rigida.

 

Si può pertanto affermare che, forse sulla spinta della Direttiva citata, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora che di merito, abbia voluto rimarcare e legittimare il proprio ruolo di “regolatore” dell’adeguatezza della retribuzione rispetto ai canoni costituzionali, forse volendo chiarire che un vero e proprio salario minimo di fonte legale non è così necessario e, se vi sarà, probabilmente la giurisprudenza rivendicherà anche in futuro la propria funzione interpretativa in chiave costituzionalmente orientata della normativa qualora introdotta.

 

*Avvocato in Biella

#salariominimo#retribuzioneadeguata#sentenzesalariominimo#parametriretributivi

[1]  Vedasi, tra gli altri, “Il Lavoro nella Giurisprudenza 11/2023 con nota di Milena d’Oriano – La Cassazione sul salario minimo costituzionale: squarciato il velo sul lavoro “povero”, pagg. 1032 ss.

IL GRUPPO ODCEC AREA LAVORO SI DECLINA AL FEMMINILE: Incontro con la Presidente Cinzia Brunazzo

di Stefano Grimaldi*

 Domanda. Pochi mesi or sono, la guida del Comitato scientifico Gruppo Odcec Area lavoro è stata affidata a due donne, Lei, quale Presidente, e la dott.ssa Luisella Fontanella, quale Direttore scientifico. In verità anche nel precedente mandato triennale, la situazione è stata analoga, questo significa che le donne Commercialista hanno una maggiore attitudine dei colleghi maschi alla materia di lavoro?

Premetto che per me non esistono lavori maschili e lavori femminili: combatto il vecchio retaggio culturale che vuole le bambine principesse e i bambini tutti dottori.

Detto questo il gruppo ODCEC area lavoro non ha per statuto una quota riservata al genere meno rappresentato in ogni Suo organo, che sia consiglio direttivo o comitato scientifico, neppure nelle candidature: tutti si possono candidare basta essere aderenti.

A dire il vero il Presidente “fondatore” e il primo Direttore Scientifico erano uomini e solo successivamente abbiamo avuto alla guida come presidentesse, direttrici scientifiche e capo redattrici della nostra rivista solo donne.

Occorre però considerare che il Gruppo ODCEC area lavoro è un comitato scientifico volontario e gratuito, dove le cariche non percepiscono compensi, per cui occorre coniugare il lavoro che non si può lasciare, data la gratuità dell’incarico, con l’impegno necessario al buon funzionamento del Gruppo e noi DONNE siamo maestre nel conciliare vita-lavoro-famiglia. Quindi al genere femminile possiamo dire riesce meglio organizzare e programmare.

Le statistiche dicono che nel mondo delle associazioni e del volontariato predominano le donne.

Comunque se è vero che le ultime Presidenti e l’attuale sono donne è pur vero che i vicepresidenti sono e sono stati uomini. A me piace pensare, e la storia lo dimostra, che il Gruppo alle elezioni premi coloro che nel tempo abbiano dimostrato professionalità nella materia del lavoro, capacità organizzative e dedizione al Gruppo.

 

Domanda. Il Comitato scientifico che lei presiede sta per festeggiare 11 anni di attività, quali sono i principali risultati raggiunti e cosa si prefigge di fare nel futuro?

Tanti anni infatti sono passati da quando 7 colleghi, fra cui io, in rappresentanza di 6 ordini territoriali, in un momento in cui il Consiglio Nazionale era commissariato e non si occupava della materia del lavoro, si sono riuniti ed hanno pensato di costituire un Comitato Scientifico, gratuito e volontario, di Commercialisti specialisti nella materia del lavoro per promuovere la formazione, lo studio e la ricerca in tale settore.

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti…

In questi anni abbiamo sempre più promosso la materia del lavoro con elaborazione di approfondimenti scientifici quali quello sul Salario Minimo (dove abbiamo messo a confronto le tariffe minime dei maggiori CCNL per confrontarli con i famosi 9 euro previsti dai disegni di legge, lavoro ripreso anche dal ns. Consiglio Nazionale) o l’approfondimento effettuato al momento dell’uscita dell’Assegno Unico (la cui presentazione ha visto più di 600 collegamenti al webinar); senza parlare degli eventi formativi gratuiti organizzati su approfondimenti o argomenti di attualità: pensiamo al webinar sul “cassetto Previdenziale INPS” organizzato in marzo 2022 al momento della sua modifica/implementazione che ha visto ben 1238 collegamenti, sempre con relatori eccellenti sia Colleghi che Avvocati giuslavoristi, funzionari degli istituti INPS, INL, INAIL.

Abbiamo anche organizzato master e corsi di alta formazione a pagamento come il percorso di alta formazione sulla Consulenza Pensionistica, il seminario di aggiornamento e approfondimento in materia del lavoro, la cui formula ci stanno copiando (si tratta di un percorso strutturale da ottobre a giugno di ogni anno: un incontro al mese dove le prime due ore, riservate all’aggiornamento, sono tenute sempre dallo stesso relatore, al momento il Prof. Natalini che non ha bisogno di presentazioni, il quale ci spiega cosa è cambiato dalla volta precedente, mentre le seconde 2 ore sono di approfondimento con relatori sempre diversi specialisti nella materia affrontata. Il tutto a prezzi calmierati, proprio perché tutta l’organizzazione è svolta gratuitamente dal Comitato Scientifico).

Da ultimo ma non ultimo siamo editori della Rivista “Noi & il Lavoro”: trattasi di una rivista, anche questa gratuita, bimestrale, a diffusione nazionale di diritto, economia e organizzazione del lavoro, che vuole essere punto di riferimento, approfondimento e confronto per tutti i Commercialisti del lavoro.

Questo e tanto altro che via via nel tempo è stato sempre di più apprezzato, tant’è che il numero dei Commercialisti aderenti è aumentato fino a arrivare a poco meno di 2.000; ma coloro che ci seguono sono molti di più: su linkedin abbiamo 16.500 followers e il nostro sito ha raggiunto punte fino a 20.000 visualizzazioni mensili.

Cosa mi propongo per il futuro, anzi cosa ci proponiamo per il futuro, perché noi in primis SIAMO UNA SQUADRA. Per prima cosa vorremmo conservare e implementare quanto egregiamente portato avanti fino a questo momento, che già sarebbe un buon risultato considerato che l’attività svolta è tutta gratuita ed il lavoro è tanto, ma ci piacerebbe ampliare i lavori di studio e ricerca effettuati dal Comitato Scientifico. Il nostro lavoro è già stato apprezzato tant’è che abbiamo aperto a membri esterni la partecipazione al nostro Comitato Scientifico ed abbiamo avuto l’adesione di un Professore di diritto del lavoro della Università Cattolica. I nostri studi devono diventare un lavoro a 4 mani fra cultori del diritto del lavoro, sia tecnici che teorici.

Credo che l’aneddoto che sto per raccontare possa essere più significativo di tante parole: a Trento, nel mese di marzo scorso, durante un evento organizzato dal Gruppo, una Collega mi ha fermato complimentandosi perché durante il COVID, con i nostri eventi, le abbiamo (testualmente) “salvato la vita”, professionalmente parlando. Così si è espressa! Ciò ha riempito d’orgoglio tutti noi: sono queste manifestazioni di stima a darci nuova determinazione per proseguire il lavoro che stiamo svolgendo.

Ecco vorremmo diventare un vero punto di riferimento per lo studio, l’aggiornamento e le proposte normative nella materia del lavoro.

Per fare questo però abbiamo bisogno dell’apporto di tutti ………….

 

Domanda. Dopo il dramma della pandemia da Covid-19 del 2020/2021 e i più recenti eventi bellici, quali la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente, che hanno provocato e stanno provocando tensioni economiche e sociali nell’Unione Europea, con l’aumento dei prezzi delle materie prime, dei beni di consumo e dei servizi, l’impennata dei tassi bancari, che accennano a diminuire solo ora, e la ripresa dell’inflazione, la situazione economica italiana sembra lentamente migliorare, sebbene le previsioni di crescita per l’anno in corso e il prossimo siano decisamente modeste. In che modo le imprese i professionisti che le assistono possono contribuire ad accelerare il processo di miglioramento economico?

Da alcuni anni, non solo per effetto degli eventi richiamati, si sta assistendo ad una importante evoluzione nel mondo delle imprese e, per queste, la grande sfida sarà quella della transizione in ambito ESG. Io credo che i commercialisti, anche quelli che si occupano di lavoro, potranno avere un ruolo fondamentale nel supportare le imprese in tale ambito. Social, infatti, significa per le imprese non solo attenzione al contesto sociale nel quale operano ma: parità di genere, welfare, nuove forme di lavoro con maggiore ricorso al lavoro agile, flessibilità degli orari di lavoro, attenzione alle esigenze di lavoratrici/lavoratori con figli minori e tanto altro. In questo contesto è evidente per i commercialisti, la necessità di “fare squadra”: unire le diverse competenze, in ambito economico, giuslavorista, societario, finanziario, della gestione delle crisi d’impresa, della revisione, dell’organizzazione e controllo, solo per citare alcune delle svariate competenze di questa bellissima professione multidisciplinare: è un passaggio che non può essere più rimandato. In questo contesto, un ruolo fondamentale potranno darlo le aggregazioni fra gli studi basate sull’allargamento dei servizi consulenziali che si potranno offrire alle imprese, privilegiando quindi la qualità alla quantità, così come da tempo indicato dal nostro Consiglio Nazionale

 

Domanda. I Commercialisti e gli Esperti Contabili che si occupano della materia di lavoro sono numericamente più dei Consulenti del lavoro, ciò nonostante la loro “voce” è piuttosto bassa nel coro dei professionisti del settore economico-giuridico, crede che dovrebbero fare qualcosa per far conoscere meglio le loro competenze in questa specifica materia?

Da sempre il Commercialista si occupa di fatto e di diritto della materia del lavoro: anzi, considerato che lo stesso si occupa di tutti gli aspetti della consulenza aziendale (strategie aziendali, organizzazione aziendale, accordi commerciali, politiche di bilancio, fiscali e tributarie, gestione della crisi aziendale, finanziamenti agevolati ecc.,) egli può effettivamente prestare, in tale materia, non solo assistenza per quanto riguarda gli adempimenti, ma una vera consulenza di supporto per il management aziendale.

Purtroppo però nell’ambito della consulenza in materia del lavoro prestata dal Commercialista c’è un problema di conoscenza sia all’interno della categoria che all’esterno.

All’interno della categoria, in quanto molti Colleghi sono indifferenti al fatto che molte aziende, loro clienti, si affidino, per la consulenza in materia del lavoro, ad altre categorie professionali anziché a Commercialisti: occorre quindi promuovere al massimo le sinergie all’interno della categoria dei Commercialisti, ossia occorre “fare squadra”.

All’esterno della categoria, viceversa, non si ha effettiva percezione dell’importanza dell’attività svolta dai Commercialisti in tale ambito e delle reali dimensioni della fetta di mercato che occupano i Commercialisti nella materia del lavoro.

I Commercialisti iscritti in Italia sono oltre 120.000 e una larga parte di essi si occupa della materia del lavoro: infatti, in base ai dati rilevati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), nel luglio 2017, i Commercialisti registrati nel portale dello stesso Istituto, come intermediari per le posizioni lavoratori dipendenti e parasubordinati, ammontavano a 22.264.

Per avere un’idea delle reali dimensioni della fetta di mercato della consulenza del lavoro occupata dai Commercialisti basta pensare che, nello stesso periodo, i Consulenti del lavoro registrati erano 17.889, vale a dire un numero notevolmente inferiore: ciò nonostante il Parlamento, le Forze Politiche e le Istituzioni competenti nella materia, per l’esame e la valutazione di nuovi provvedimenti in materia del lavoro, tendevano e tendono tutt’ora a rivolgersi quasi esclusivamente ai Consulenti del lavoro.

Occorre pertanto una forte azione promozionale che dia alla categoria dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili adeguato risalto della reale attività da loro svolta in questo specifico ramo della professione.

In un momento nel quale il Consiglio Nazionale è impegnato a promuovere la specializzazione e la aggregazione in studi associati per creare sinergie fra i vari specialisti, occorre prendere coscienza del fenomeno della specializzazione in materia di lavoro di parte importante della Categoria: diversamente, si correrà il rischio che vadano perse reali possibilità di lavoro per tanti Colleghi, in special modo per i giovani iscritti.

Il nostro Consiglio Nazionale può fare molto sia all’interno della categoria che all’esterno.

All’interno, proprio per far prendere coscienza ai Colleghi che la materia è di nostra competenza, si dovrebbe obbligare o almeno invitare tutti gli ordini a prevederla nei percorsi di formazione dei praticanti e prevederla anche all’esame di abilitazione alla professione, obbligando così i Colleghi ad approfondire la materia; si potrebbe inoltre studiare e sviluppare strategie di comunicazione avvalendosi di specialisti del settore e conseguente elaborazione di una campagna di comunicazione mirata.

All’esterno presidiando i tavoli tecnici negli istituti nazionali INPS, INAIL, INL, intervenendo in audizione anche in tali materie, difendendo la nostra specializzazione, riconosciutaci dalla legge 12/79, che ultimamente il legislatore sembra aver dimenticato (vedi il D. Lgs. 276/2003 con la certificazione dei contratti e l’attività di somministrazione, intermediazione, ricerca e selezione del personale, il D. Lgs.151/2015 con le dimissioni on line, la legge 92/2012 con il tentativo di conciliazione in caso di licenziamento per G.M.O.: tutte pratiche/istituti riservati solo ai Consulenti del Lavoro) senza parlare del Protocollo dell’INL stipulato solo con i Consulenti del Lavoro per l’Asse.Co.

Proprio su questo ultimo protocollo, con l’atto di diffida e messa in mora, inoltrato dal nostro Consiglio Nazionale al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ed all’Ispettorato del Lavoro, finalizzato alla costituzione di un accordo per poter rilasciare l’asseverazione di conformità (Asse.Co.) anche da parte dei Commercialisti, sembra ci stiamo muovendo in tale direzione. Tutti gli iscritti confidano che questo sia un primo passo nella difesa di questa specializzazione a noi tanto cara.

 

Domanda. Negli ultimi anni l’argomento della sicurezza sul lavoro è sempre più di attualità, principalmente a causa degli infortuni, anche mortali, che si sono verificati, sappiamo che il Comitato scientifico che lei presiede è attivo nella diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro, al riguardo quale è il programma dell’attuale Consiglio direttivo?

È inaccettabile che un Paese, come l’Italia, che è tra quelli più industrializzati, debba “convivere” con una terribile media di circa 3 morti al giorno sui luoghi di lavoro. La patente a punti, di recentissima introduzione nel settore edile, può rappresentare una svolta importante per far sì che le imprese mettano la sicurezza sul lavoro ai massimi livelli di attenzione: se saranno confermati risultati tangibili in termini non solo di minore mortalità, ma anche in termini di minori infortuni, questa novità potrà, e dovrà, essere estesa in altri comparti produttivi.

Permettetemi però, da tecnica, di dire che la norma presenta criticità: una per tutte, in caso di mancata verifica della “patente a punti”, è prevista a carico del committente o del responsabile dei lavori la sanzione amministrativa pecuniaria massima di 2.562,91. A mio avviso una sanzione così modesta non ha alcun effetto deterrente.

Sicuramente si può fare altro in modo efficace: come Gruppo ODCEC Area Lavoro, come giustamente rilevato, siamo attivi nella diffusione della cultura della sicurezza sul lavoro perché siamo consapevoli che il commercialista può supportare l’impresa in modi concreti: assistenza e consulenza in ambito d. Lgs. 231, o Mog ai sensi dell’art. 30 del d. Lgs. 81, formazione professionale, certificazione dei modelli organizzativi, pianificazione degli investimenti in sicurezza e altro.

È chiaro che anche il Legislatore può fare di più. Si pensi, solo per citare interventi di pronta attuazione, a: aumento delle sanzioni per responsabilità amministrativa delle imprese ex d. Lgs. 231, in particolare, quelle di tipo interdittivo; asseverazione dei corsi di formazione sulla sicurezza; intervento degli enti bilaterali interprofessionali per la formazione continua; accesso al credito facilitato per le imprese che adottino piani di sviluppo e interventi finalizzati alla riduzione dei rischi lavorativi con abbattimento dei tassi d’interesse per mezzo di contribuzione statale o regionale; aumento dell’organico degli ispettori INAIL.

 

Domanda. Presidente, in chiusura, una domanda più personale. Che qualità gestionali e umane si riconosce?

Premesso che mi hanno insegnato che le qualità vanno riconosciute dagli altri (“Chi si loda s’imbroda”), diciamo che sono una persona determinata, testarda e diretta, che se si pone un obbiettivo combatte per ottenerlo, che crede che la competenza paghi e si impegna continuamente, che quando crede in qualcosa ci mette il cuore.

Negli anni ho sempre speso la mia determinazione e passione a favore del Gruppo.

Determinazione nell’ insistere con tutte le Istituzioni, a partire dal nostro Consiglio Nazionale, per promuovere la specializzazione giuslavoristica, partendo dai corsi di studio universitari, da incontri con gli studenti delle scuole superiori per far conoscere loro questo sbocco professionale, per l’organizzazione di corsi di aggiornamento con riconoscimento dei crediti formativi.

Passione nel diffondere tutte le attività del Gruppo e sviluppare sempre più, anche in collaborazione con altre professioni giuslavoristiche, la formazione dei commercialisti del lavoro, nell’interloquire, costantemente, con le Istituzioni ed il mondo politico e sindacale (inteso in senso lato e quindi non solo sindacati dei lavoratori ma anche associazioni di rappresentanza datoriale) con apporto consulenziale specialistico e per la massima diffusione della cultura del lavoro sicuro.

 

*Direttore Responsabile – Ordine Naz. Giornalisti 150732

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di Graziano Vezzoni*

In attuazione di quanto previsto dagli articoli 26, c.7 bis, e 30, c.1 bis del D.Lgs n.148 del 2015 ed in seguito alle modifiche apportate dal DM 8.08.2023 al Decreto interministeriale n.90401 del 2015, viene previsto il passaggio dal FIS al Fondo Solimare dei datori di lavoro marittimo a prescindere dal numero dei dipendenti. Con la circolare n.16 del 23.01.2024, l’Inps ci fornisce le istruzioni operative per l’adeguamento. Continua a leggere

di Paolo Soro*

Una delle novità apportate con il D.lgs. 209/2023 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale, è la disciplina scritta nell’art. 6 (Trasferimento in Italia di attività economiche), che – di fatto – inaugura una sorta di inedito “Regime Impatriati” per imprese, società e associazioni professionali. La disposizione punta evidentemente a promuovere lo svolgimento nel territorio dello Stato italiano di attività economiche completando l’offerta concernente il lavoro dipendente, assimilato e autonomo. La nuova regolamentazione 2024 per gli impatriati vede espunta la previsione contenuta nel comma 1-bis, art. 16, D.lgs. 147/2015 e pertanto, il reddito di impresa risulta esserne completamente escluso. Continua a leggere

di Filippo Moschini*

L’intento dell’odierna normativa in materia di dimissioni di cui all’art. 26 del D. Lgs n. 151 del 14.09.2015 era finanche meritevole, mirando infatti a contrastare l’odioso fenomeno delle “dimissioni in bianco” in base al quale in passato molte lavoratrici e lavoratori, al momento dell’assunzione, si vedevano sottoporre alla firma non solo il contratto di lavoro, ma anche una loro lettera di dimissioni che il datore di lavoro, a proprio piacimento, avrebbe potuto poi tirare fuori dal cassetto, datare e far valere, laddove in futuro non avesse più inteso proseguire il rapporto lavorativo. Continua a leggere

di Stefano Lapponi*

Il DL 7.5.2024 n. 60 (c.d. DL “Coesione”) prevede, tra le altre, una serie di misure volte ad incentivare l’autoimpiego e le assunzioni di soggetti caratterizzati da particolari condizioni soggettive e territoriali. Nelle intenzioni del legislatore il decreto è volto “a realizzare la riforma della politica di coesione inserita nell’ambito della revisione del PNRR, al fine di accelerare e rafforzare l’attuazione degli interventi finanziati dalla politica di coesione 2021-2027 e mirati a ridurre i divari territoriali introducendo una serie di novità in materia di lavoro”. Continua a leggere

di Maurizio Centra*

In gran parte dei Paesi dell’Unione Europea (UE) “trovare” i collaboratori di cui si ha bisogno è un compito assai arduo per i datori di lavoro, a causa sia delle caratteristiche del sistema formativo, che non consente di soddisfare interamente le loro esigenze, sia del progressivo innalzamento dell’età media dei cittadini, condizione che riguarda in particolar modo l’Italia. Ciò nonostante, le attuali regole comunitarie tendono a limitare l’impiego di lavoratori stranieri, intendendo per tali i cittadini di uno Stato non appartenente all’Unione Europea che svolgono o intendono svolgere la propria attività in un Paese dell’Unione. Continua a leggere

di Giada Rossi*

La disciplina delle dimissioni è stata negli anni oggetto di plurimi interventi normativi, tesi a dare tutele e certezze a un momento cruciale quale è il termine della prestazione lavorativa, da cui discendono fondamentali diritti per i lavoratori, fra i quali, principalmente, l’accesso alla Naspi o la percezione dell’indennità di preavviso. Continua a leggere