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di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

La Suprema Corte di cassazione, con la pronunzia n.123 resa in data 6 novembre 2024 e pubblicata in data 4 gennaio 2025, è intervenuta sulla vexata quaestio dei limiti di responsabilità del datore di lavoro in materia di tutela delle condizioni di lavoro e, segnatamente, di salvaguardia dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dal ricorso di una dipendente che, in via di estrema sintesi, lamentava l’inerzia del datore di lavoro nell’assunzione di iniziative funzionali a neutralizzare il forte clima di conflittualità che caratterizzava le relazioni professionali tra dipendenti e colleghi all’interno dell’ufficio, così addebitando al datore di lavoro stesso la compromissione della propria salute psichica, tanto da richiederne la condanna al risarcimento del danno biologico per l’effetto patito.

La Suprema Corte ha, dunque, colto tale occasione per richiamare alcuni principi enunciati in passato in ordine alla differenza tra la fattispecie dello “straining” e la fattispecie del “mobbing”, statuendo, in linea con la recente giurisprudenza di legittimità, che:

  • la fattispecie del “mobbing” si configura allorquando siano presenti sia l’elemento obiettivo, costituito da una serie continua di comportamenti pregiudizievoli per la persona all’interno del rapporto di lavoro, sia l’elemento soggettivo dell’intenzione persecutoria nei confronti della vittima, indipendentemente dalla legittimità intrinseca di ciascun comportamento (Cass. 21 maggio 2018, 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684 e Cass. 7 giugno 2024 n. 15957):
  • la fattispecie dello “straining” ricorre allorquando il datore di lavoro ponga in essere comportamenti stressogeni deliberatamente attuati nei confronti di un dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164 e Cass., sez. lav., 7 giugno 2024 n. 15957).

Ciò premesso, la Suprema Corte ha opportunamente rilevato che l’assenza degli indici espressivi di una condotta mobbizzante del datore di lavoro non può automaticamente condurre all’esclusione di una condotta ascrivibile a “straining” di quest’ultimo, posto che le due ipotesi – come detto poc’anzi – sono strutturalmente diverse.

 

Di qui, dunque, la decisione in commento, secondo cui, pur in assenza dei presupposti necessari a configurare un caso di “mobbing”, ben può configurarsi una responsabilità da “straining” in capo al datore di lavoro per il caso di elevata conflittualità tra dipendenti assoggettati al suo potere direttivo e/o disciplinare:

  • sia nel caso in cui “… il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori …
  • sia nel caso in cui il datore di lavoro “… ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi ”.

A fondamento di tale sua decisione, la Suprema Corte ha, dunque, enunciato il principio in base al quale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. “…. la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno di un ufficio impone al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, incluso il ricorso al potere disciplinare ….”.

Di qui, dunque, la necessità che il datore di lavoro, al fine di evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie, intervenga, se del caso anche disciplinarmente, per mettere in atto azioni correttive tese a neutralizzare l’eccessiva conflittualità tra dipendenti ed il ripristino di un ambiente di lavoro sereno.

Era una tranquilla serata estiva quando il destino decise di giocare un tiro mancino a due anime solitarie. La brezza marina trasportava nell’aria i profumi della cucina mediterranea, mentre sullo sfondo si stagliava l’eco dei gabbiani festaioli. E proprio lì, in quella cartolina vivente, un commercialista del lavoro di nome Graziano conobbe Chiara, una consulente del lavoro.

Graziano era il tipo che catalogava ogni esperienza come “attivo” o “passivo” nel bilancio emotivo della sua vita, mentre Chiara categorizzava le persone come fossero dei CUD, sempre pronta a scovare eventuali incongruenze. Quella sera, Graziano decise che avrebbe catalogato questo incontro come “attivo”. Fu durante una cena organizzata da uno stabilimento balneare, sulla spiaggia Versiliese, che il loro sguardo si incrociò tra una forchettata di spaghetti alle vongole e un sorso di Vermentino di Luni.

Il dialogo fra i due fu subito scintillante, pieno di battute fiscali, flirt amministrativi e ammiccamenti professionali. Graziano era affascinato dall’accuratezza con cui Chiara smontava ogni stratagemma burocratico, e lei non poteva fare a meno di ammirare la sua capacità di far quadrare bilanci più contorti di un episodio di “Lost”.

Fu subito amore… o così sembrava. Passati pochi anni, quello che sembrava un idillio amoroso iniziò a mostrare le prime crepe. Il povero Graziano cominciò a realizzare che il corredo di Chiara comprendeva pile di circolari interpretative e manuali su come sopravvivere all’APE (non l’insetto, ma l’anticipo pensionistico).

A sua volta, Chiara dovette confrontarsi con la passione smoderata di Graziano per i fogli Excel, talmente sexy da far impallidire persino un paio di tacchi a spillo 12 cm. Ma l’amore, è cieco, sordo e senza dubbio un po’ folle, quindi decisero di andare a convivere. La loro relazione oltre che sentimentale divenne anche un’associazione professionale. Dopo un po’, però cominciarono i diverbi ma tutti e due decisero di ignorare i campanelli d’allarme, sperando che fosse solo una fase temporanea e passeggera della loro relazione.

Tuttavia, come ogni trend economico che si rispetti, la curva della loro relazione cominciò ben presto a declinare e indicare lo “zero”, numero inequivocabile di un investimento sentimentale fallimentare. La sopportazione lasciò il passo a vere e proprie ostilità domestiche. Le discussioni non erano più sul chi avesse dimenticato cosa, ma su chi avesse elaborato più cedolini. Lei iniziò a non parlargli più, ma in compenso lo tempestava di messaggini che mettevano in risalto le proprie competenze in materia giuslavoristiche sostenendo che Lei aveva delle esclusive e Lui no; anzi, insisteva che Lui doveva smettere di qualificarsi quale consulente del lavoro, perché non lo era. Lui, dal canto suo, non si capacitava di cosa stava succedendo e soprattutto non ricordava nessuna circostanza in cui si fosse presentato come consulente del lavoro. Graziano ricevette anche un messaggino in cui Lei gli esponeva che era anche abilitata a tenere la contabilità, così avevano sentenziato i Tribunali.

La casa che un tempo echeggiava di risate e brindisi ora rimbombava solo di reciproche accuse su competenze, esclusive, errori di calcolo e scadenze mancate. Non più occhiate languide, ma frecciatine venate di sarcasmo, più taglienti di una notifica dell’Agenzia delle Entrate. Infine l’amore evaporò via, come un’evasione fiscale ben mascherata. Chiara e Graziano si separarono con la stessa freddezza con cui si stipula una rescissione di un contratto, promettendosi, comunque di restare “amici”, concetto tanto astratto quanto il saldo attivo di un bilancio fantastico.

Era chiaro a tutti i colleghi dei due che “questo matrimonio non s’ha da fare”. Oggi, Graziano e Chiara ricordano quell’estate con un misto di nostalgia e sollievo, coscienti che alla fine, nella vita come nella fiscalità, non tutti i crediti hanno una compensazione adeguata.

Ora li puoi trovare, ormai estranei, in spiagge diverse, a scrutare l’orizzonte con quegli occhi che una volta brillavano di complici entusiasmi professionali. Ognuno sta andando per la propria strada mantenendo le proprie caratteristiche e competenze.

Ogni tanto pensano che forse sarebbe stato meglio se quella sera avessero semplicemente scelto tavoli diversi… ma poi prendono atto che in amore, come nella gestione del personale, l’unica certezza sono gli imprevisti.

*ODCEC Lucca

di Filippo Moschini*

Introduzione
Il divario di genere, si sa, è una tematica notoriamente al centro del dibattito pubblico degli ultimi anni.
Le disparità di genere sono ritenute uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo sostenibile, alla crescita economica e alla lotta contro la povertà.
Non a caso, il perseguimento della parità di genere è uno degli Obiettivi (il quinto) che nel 2015 le Nazioni Unite hanno fissato nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
Allo stesso modo, in ambito europeo, la direttiva 2014/95/UE (recepita in Italia con D. Lgs 254/2016) che ha introdotto i fattori ESG, ha indicato la parità di genere tra i criteri principali del fattore “S” di Social e al fine di perseguire tale scopo l’Unione Europea ha varato un apposito piano denominato “Strategia per la Parità di Genere 2020 – 2025”.
E in Italia?

La normativa italiana in materia di pari opportunità e l’istituzione della certificazione della parità di genere delle organizzazioni.
In Italia vige il codice delle pari opportunità tra uomo e donna introdotto con D. Lgs 198/2006 e successivamente emendato a più riprese nel corso degli anni successivi, il quale sancisce il divieto di discriminazione tra uomo e donna in molteplici ambiti, tra cui anche quello all’accesso al lavoro, alla progressione di carriera e al trattamento retributivo.
Alla luce dei dati esistenti in merito alla situazione del divario di genere esistente in Italia ancora oggi, in tutta franchezza, non si può certo affermare che tale impianto normativo si sia rivelato al momento particolarmente efficace.
In data 5 agosto 2021 è stata presentata in Consiglio dei Ministri la prima Strategia Nazionale per la Parità di genere, la quale ha come orizzonte temporale il quinquennio 2021 – 2026 e che, sulla scia dell’analogo piano varato a livello europeo per il 2020 – 2025, traccia un sistema di azioni politiche integrate atte a intraprendere azioni concrete, definite e misurabili.
È esattamente nell’ambito di tale ultimo piano strategico che il Governo Draghi, al fine di introdurre uno strumento proattivo atto a favorire il perseguimento della parità di genere, con Legge n. 162 del successivo 5 novembre 2021 aggiungeva l’art. 46 bis del codice delle pari opportunità, il quale istituiva la certificazione della parità di genere a partire dal successivo 01.01.2022.
L’art. 46 bis, in particolare, demandava a un successivo decreto del Presidente del consiglio dei ministri la definizione dei parametri minimi per il conseguimento della suddetta certificazione.
Il decreto attuativo in questione veniva quindi emanato in data 29.04.2022 dal Dipartimento delle Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri e prevedeva che i parametri minimi per il conseguimento della certificazione della parità di genere fossero quelli stabiliti dalla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 pubblicata da UNI – Ente Italiano di Normazione il precedente il 16.03.2022.
Pare d’obbligo rammentare che UNI è un’associazione privata senza scopo di lucro nata nel 1921 e riconosciuta dallo stato italiano, nonché dall’Unione Europea, che da oltre 100 anni elabora, pubblica e diffonde gli standard delle norme tecniche a cui le imprese possono decidere di aderire volontariamente al fine di conseguire una certificazione in un determinato ambito.

Vantaggi e incentivi per le organizzazioni che si certificano
Prima di addentrarci nella descrizione del procedimento di certificazione e dei requisiti necessari al suo conseguimento, pare interessante affrontare il tema relativo agli incentivi per le organizzazioni che scelgono di certificarsi e agli ulteriori vantaggi di cui le stesse possono beneficiare sul mercato.

Sgravi contributivi: Il primo e forse più tangibile incentivo alle organizzazioni che conseguono la certificazione della parità di genere è lo sgravio contributivo di 1 punto % di cui le stesse possono beneficiare fino a un tetto massimo di € 50.000,00 annui. Si tratta di un incentivo concreto idoneo ad incidere direttamente sui costi del lavoro delle organizzazioni certificate, il quale, tuttavia, alla luce del carico contributivo su di esse gravante, pari a quasi il 30% della retribuzione lorda dei propri dipendenti, rischia di risultare non particolarmente allettante. Una decontribuzione di 1 punto % a fronte di un monte contributivo di quasi 30 punti %, infatti, determina una riduzione del costo contributivo a carico delle imprese di poco più del 3,3%. Al fine di rendere un ordine di grandezza, al fine di beneficiare per intero dello sgravio contributivo massimo di € 50.000,00 annui un’impresa dovrebbe avere un costo contributivo a proprio carico (esclusa quindi la quota a carico dei propri dipendenti) di oltre € 1,5 milioni.

Vantaggi ai fini del riconoscimento di fondi europei: Sempre ai sensi della legge 5 novembre 2021, n. 162, alle aziende che siano in possesso della certificazione della parità di genere è riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione di proposte progettuali, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.

Vantaggi nell’ambito della partecipazione a gare di appalto pubbliche: Ulteriori forme di incentivi in favore delle imprese in possesso di certificazione della parità di genere sono state introdotte anche dal nuovo Codice dei contratti pubblici introdotto con D. Lgs. 36/2023. L’art 106, comma 8, del Codice prevede una riduzione della garanzia del 20%, cumulabile con tutte le altre riduzioni previste dalla legge, in caso di possesso della certificazione della parità di genere. Inoltre, l’art. 108, comma 7, del Codice così come da ultimo modificato, dispone che le amministrazioni aggiudicatrici indichino, nei loro avvisi, un maggiore punteggio legato al possesso della certificazione della parità di genere.

La Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022 Organismo di certificazione: Al rilascio della certificazione della parità di genere alle imprese, in conformità alla UNI/PdR 125:2022, provvedono i soli organismi di certificazione accreditati ai sensi del regolamento CE 765/2008.
In Italia tali organismi sono solo quelli accreditati da Accredia, l’Ente italiano di accreditamento. Ad oggi esistono in Italia 52 organismi di certificazione accreditati per la certificazione della parità di genere. Il ruolo dell’organismo di certificazione non è quello di assistere e consigliare l’impresa nel corso della procedura di certificazione, bensì quello di verificare e attestare l’esistenza dei requisiti minimi in base a quanto previsto dalla prassi di riferimento dell’UNI. Le imprese hanno la facoltà di rivolgersi all’organismo di certificazione dalle stesse prescelto.
I parametri individuati per l’ottenimento della certificazione e il meccanismo di conteggio degli stessi

La PdR innanzitutto individua 6 specifiche Aree a ciascuna delle quali è associato uno specifico peso in percentuale, fatto 100 il peso complessivo di tutte le Aree:

1. Area cultura e strategia: peso 15%;
2. Area governance: peso 15%;
3. Area processi HR: peso 10%;
4. Area opportunità di crescita ed inclusione delle donne in azienda: peso 20%;
5. Area equità remunerativa di genere: peso 20%;
6. Area tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro: peso 20%.

Per ciascuna di tali 6 Aree sono individuati degli specifici KPI (Key Performance Indicator) di tipo qualitativo e quantitativo a ciascuno dei quali è associato uno specifico punteggio. Anche in questo caso, la somma dei punteggi associati ai KPI di un’Area porta a un punteggio complessivo di 100.
Complessivamente, i KPI individuati dalla PdR sono 33.

I KPI di tipo qualitativo sono misurati in termini di presenza o non presenza, mentre i KPI di tipo quantitativo sono misurati in termini percentuali e in particolare sono ritenuti raggiunti laddove la percentuale misurata nell’impresa eguagli o superi quella prevista dal KPI come minima.
L’organismo di certificazione verifica il possesso da parte dell’organizzazione che richiede la certificazione dei requisiti descritti in ciascun KPI.
All’esito della verifica viene attribuito all’impresa un punteggio in ciascuna delle 6 Aree di valutazione. Ad esempio, se in una determinata Area, il cui peso è pari al 15%, l’impresa consegue un risultato di 50 su 100, il punteggio attribuito all’impresa per detta Area è del 7,5%, ovvero il 50% del 15%.
Sommando i punteggi in termini percentuali conseguiti in tutte le Aree di valutazione l’organismo di certificazione perviene alla determinazione della percentuale complessiva di rispetto dei KPI da parte dell’organizzazione.
Ai fini del conseguimento della certificazione della parità di genere, l’organizzazione deve raggiungere quantomeno una percentuale complessiva del 60%, sommando i punteggi in termini percentuali conseguiti in ciascuna delle 6 Aree di valutazione.

I criteri di proporzionalità previsti dalla PdR
In considerazione dell’elevata eterogeneità in termini dimensionali delle organizzazioni certificabili e delle marcate differenze esistenti negli organici aziendali a seconda del settore merceologico di appartenenza, la Prassi di riferimento prevede l’applicazione di due distinti criteri di proporzionalità nella valutazione dei KPI.
Criterio dimensionale: La Prassi di riferimento ha ritenuto opportuno prevedere semplificazioni del processo di certificazione in favore delle imprese di più modeste dimensioni e a tal fine ha previsto i seguenti 4 differenti cluster dimensionali:

1. Micro imprese: da 1 a 9 addetti/e;
2. Piccole imprese: da 10 a 49 addetti/e;
3. Medie imprese: da 50 a 249 addetti/e;
4. Grandi imprese: 250 e oltre addetti/e.

Sulla base di tale classificazione, la Prassi di riferimento prevede che le imprese di 3^ e 4^ fascia (medie e grandi) vengano valutate su tutti i KPI di ciascuna Area, le imprese di 1^ e 2^ fascia (micro e piccole) vengano valutate solo su alcuni KPI di ciascuna area. In taluni casi, inoltre, un determinato
KPI ha un indice di valutazione differente a seconda della fascia di appartenenza dell’impresa soggetta a certificazione.
Criterio del settore industriale di appartenenza:
È notorio che il divario di genere nell’organico aziendale sia fortemente influenzato dal settore industriale in cui l’impresa opera. Ad esempio, settori quali l’edilizia o i trasporti e la logistica hanno una fortissima connotazione maschile come diretta conseguenza della tipologia di mansioni che vengono in prevalenza svolte in detti ambiti, mentre, per la medesima ragione, settori come il commercio, la sanità, l’istruzione o la ristorazione sono maggiormente neutri con riferimento alla tematica di genere.
Ai fini del raggiungimento di taluni KPI di tipo quantitativo, pertanto, la PdR prevede che l’impresa debba avere una certa differenza positiva in termini di punti percentuali rispetto alla media percentuale registrata per il KPI in esame nel settore industriale di appartenenza e riassunti in una apposita tabella (Appendice B della PdR)

Descrizione dei KPI suddivisi per aree di valutazione e in base ai criteri di personalizzazione
È quindi sulla base di tali regole e principi che la Prassi di riferimento implementa le tabelle descrittive dei KPI previsti per ciascuna area di valutazione qui di seguito riportate (la descrizione dei KPI è sintetizzata).

L’assetto organizzativo di cui l’organizzazione deve dotarsi ai fini dell’ottenimento e del successivo mantenimento della certificazione della parità di genere
La Prassi di riferimento non si limita a definire i parametri il cui raggiungimento è necessario ai fini del conseguimento della certificazione, ma definisce altresì in modo analitico l’assetto di cui l’organizzazione deve tassativamente dotarsi al fine di ottenere e mantenere la certificazione.
Tale assetto si basa sui seguenti elementi chiave:

– Definizione di una politica di parità di genere aziendale da parte dell’Alta Direzione (i.e. l’organo amministrativo dell’organizzazione);
– Costituzione di un Comitato Guida (che partecipa alla definizione della politica di genere);
– Realizzazione da parte del Comitato Guida di un Piano Strategico volto al raggiungimento dei KPI;
– Implementazione di un sistema di gestione idoneo a perseguire le azioni stabilite nel Piano Strategico, a monitorare il mantenimento dei risultati e a conseguire ulteriori miglioramenti.

Per ciascuno di tali ambiti la Prassi di riferimento fornisce indicazioni assai dettagliate in merito ai requisiti richiesti.

Politica di parità di genere
La stessa deve individuare e descrivere i principi e le linee guida adottati dall’impresa con riferimento ai temi relativi alla parità di genere, alla valorizzazione delle diversità e all’empowerment femminile. La Politica di parità di genere deve essere ovviamente orientata al raggiungimento dei KPI prima descritti e deve essere:

– comunicata e diffusa all’interno della organizzazione con pubblicazione sul sito internet aziendale;
– oggetto di formazione e sensibilizzazione verso il management aziendale;
– revisionata o confermata periodicamente;
– coordinata da una figura responsabile in possesso di competenze organizzative e di genere, la quale dovrà avere responsabilità, autorità e budget adeguati alla sua persecuzione.

Il Comitato guida
Tale comitato partecipa alla definizione della politica di parità di genere assieme all’Alta Direzione ed è inoltre incaricato di definire e successivamente implementare il Piano Strategico.
Il Comitato guida, in base alle dimensioni dell’impresa, deve essere composto almeno dall’amministratore delegato, o da un delegato dalla proprietà, e dal direttore del personale, o altra figura equivalente.
Il Piano Strategico
Si tratta del documento programmatico che definisce per ciascun tema individuato dalla politica di parità di genere obiettivi semplici, misurabili, raggiungibili, realistici e pianificati nel tempo.
Pur effettuando un richiamo ai temi individuati nella politica di parità di genere aziendale è poi la stessa
Prassi di riferimento a indicare espressamente i principali temi che il Piano Strategico deve trattare e i requisiti minimi per ciascun tema:

  • Selezione e assunzione: procedure di selezione e assunzione che prevengano disparità di genere, descrizione delle mansioni neutra, reclutamento rivolto a uomini e donne, nessuna domanda nei colloqui relativa a matrimonio, gravidanza e responsabilità di cura;
  • Gestione della carriera: sviluppo professionale e promozioni basate solo sulle capacità e sui livelli professionali, bilanciamento di genere nelle posizioni apicali, opportunità e piani di crescita professionale aperti a tutto l’organico aziendale, rapporto su parità di genere ex art. 46 CPO e sistema di monitoraggio, ambiente lavorativo inclusivo e che promuova il benessere, formazione in favore del genere meno rappresentato per creare migliori opportunità professionali;
  • Equità salariale: mansionari aziendali che permettano una verifica della equità salariale tra addetti alla stessa mansione, meccanismo di controllo che eviti discriminazioni su retribuzione, benefit, bonus e welfare, politiche retributive pubbliche e trasparenti, welfare impostato per ogni genere di età;
  • Genitorialità e cura: programmi per congedi parentali, piano per varie fasi della maternità, promozione dei congedi di paternità, supporto al rientro dal congedo parentale, iniziative di supporto ai genitori nel piano welfare, servizi a favore dei figli;
  • Conciliazione dei tempi vita lavoro: misure per garantire l’equilibrio vita-lavoro, favorire part-time volontario, flessibilità orario lavorativo, valutazione esigenze di flessibilità del personale, smart working o telelavoro, riunioni in orari compatibili con la vita privata, nei riguardi dei part-time e nei confronti di chi ha orario flessibile;
  • Prevenzione di abusi sul luogo di lavoro: mappare i rischi di abuso, preparare un piano di prevenzione, effettuare formazione su tolleranza zero, adottare un sistema di segnalazione anonima di abusi, effettuare verifiche coi dipendenti su abusi subiti, analizzare eventi segnalati.

Il Piano Strategico deve essere strutturato nel rispetto delle seguenti fasi:

  • identificazione dei processi aziendali correlati ai temi relativi alla parità di genere individuati;
  • identificazione dei punti di forza e di quelli di debolezza rispetto ai temi;
  • definizione degli obiettivi;
  • definizione delle azioni decise per colmare i gap;
  • definizione, frequenza e responsabilità di monitoraggio dei KPI definiti dalla Prassi di riferimento e applicabili in base alle dimensioni dell’impresa.

Il Piano Strategico, inoltre, deve essere condiviso dalla direzione e aggiornato periodicamente.
L’impresa deve prevedere istruzioni scritte in merito alle modalità di attuazione delle azioni previste dal piano nonché dei monitoraggi ivi previsti e deve altresì assicurare una adeguata formazione in favore di tutto il personale non solo con riferimento ai contenuti e agli adempimenti del piano bensì anche e più in generale sulla politica di parità di genere adottata dall’impresa nel suo insieme.
In ultimo, è interessante ed emblematico notare come la predisposizione del piano strategico, che ha come finalità principale il raggiungimento dei KPI previsti dalla Prassi di riferimento è essa stessa uno dei KPI (qualitativo) in questione e in particolare il primo KPI della prima Area di valutazione.

Il Sistema di Gestione
Un sistema di gestione è quell’insieme di regole e procedure che una impresa si determina ad applicare allo scopo di raggiungere degli obiettivi definiti. La Prassi di riferimento delinea i principali aspetti del sistema di gestione di cui l’impresa deve dotarsi al fine di garantire il mantenimento nel tempo dei requisiti definiti dalla Prassi stessa e quindi necessari ai fini della
certificazione.
Documentazione del sistema: corretta gestione delle policy e delle procedure adottate dall’impresa sotto il profilo della loro preparazione, approvazione e modifica, dell’individuazione della versione aggiornata e della pubblicità delle stesse; corretta identificazione, aggiornamento e comunicazione dei requisiti normativi in materia di parità di genere; raccolta e analisi dei dati aziendali suddivisi per genere.
Monitoraggio degli indicatori: raccolta e analisi dei dati relativi ai KPI previsti dal Piano strategico, valutazione dell’andamento di tali KPI in base alle frequenze previste dal piano e adozione di azioni correttive a fronte di scostamenti.

Comunicazione interna ed esterna: predisposizione di un piano di comunicazione relativo all’impegno dell’impresa sui temi della parità di genere e
divulgazione dello stesso; adozione di una strategia di comunicazione interna ed esterna responsabile e rispettosa verso i temi di genere, coerente con i principi e gli obiettivi della politica di parità di genere adottata dall’impresa e allineata ai valori e alla cultura aziendale; individuazione delle parti interessate con le quali instaurare una comunicazione rispetto ai temi di parità di genere soprattutto in ambito lavorativo.
Audit interni: pianificazione, attuazione e rendicontazione di un sistema di audit interni volti alla verifica della reale ed efficace applicazione della politica e delle direttive aziendali sulla parità di genere nonché sul rispetto delle istruzioni e delle procedure a tal fine definite. Organizzazione degli audit in base alle modalità definite dalla UNI EN ISO 19011 con team indipendenti rispetto alle attività verificate, adeguatamente competenti e bilanciati in termini di genere. Gli audit hanno la finalità di accertare in modo oggettivo quali delle attività verificate risultano conformi e quali risultano invece difformi.
Principali tipologie di evidenze (attività) oggetto di audit: evidenze quantitative, ovvero misurabili oggettivamente, quali esistenza del report di monitoraggio dei KPI, esistenza del budget per la
parità di genere, esistenza di report di monitoraggio delle situazioni non conformi, esistenza di programmi formativi sulla parità di genere, corretta compilazione e utilizzo delle check list, assenza/presenza di contenzioso avente ad oggetto temi di parità di genere; evidenze qualitative, ovvero oggetto di valutazione, quali corretto aggiornamento della politica di parità di genere e del Piano strategico, correttezza della comunicazione interna ed esterna, adeguato coinvolgimento delle parti interessate, adeguata diffusione della cultura di parità di genere all’interno dell’organizzazione aziendale, eventuale partecipazione ad attività esterne.
Gestione situazioni non conformi: adeguato sistema di raccolta, mappatura e gestione delle situazioni non conformi con riferimento ai KPI previsti dalla Prassi di riferimento (report riepilogativo delle deviazioni riscontrate rispetto ai requisiti individuati dalla Prassi, delle segnalazioni interne e dei reclami ricevuti e degli incidenti denunciati nonché delle azioni correttive adottate per la loro risoluzione); adozione di adeguate procedure che garantiscano sia la tempestiva segnalazione delle situazioni non conformi all’interno e se necessario all’esterno dell’impresa, sia la tempestiva attuazione di azioni volte a rimuovere le cause della situazione non conforme segnalata.
Revisione periodica: demandata all’alta direzione e al comitato guida ed effettuata su base annuale, ha ad oggetto i temi individuati nel piano strategico con riferimento ai risultati della loro attuazione, alla loro congruità nel tempo, alla necessità di ulteriori esigenze formative e alla necessità di aggiornamenti anche in base ai cambiamenti normativi.
Miglioramento: in base all’esito della revisione soprattutto con riferimento ai risultati ottenuti il piano strategico e/o gli altri documenti del sistema di gestione possono essere integrati con nuovi obiettivi sempre misurabili, specifici, raggiungibili e realistici.

Conclusioni
La certificazione della parità di genere rappresenta indubbiamente un ottimo strumento per favorire la crescita nel tessuto imprenditoriale italiano di una cultura con riferimento a tale tematica e per attenuare le disparità di genere ancora esistenti che, soprattutto in ambito lavorativo, vedono l’Italia tristemente all’ultimo posto in ambito europeo.
A fronte del notevole “commitment” richiesto alle imprese per conseguire tale certificazione dei costi ad essa connessi e delle agevolazioni, forse non particolarmente allettanti, previste in favore delle imprese che si avviano a tale percorso, si ritiene che forse nel breve termine difficilmente tale strumento riuscirà ad avere una forte penetrazione tra le imprese, soprattutto di modeste dimensioni.
A tendere, tuttavia, si ritiene che la progressiva diffusione tra le imprese di politiche di sviluppo sostenibile nello svolgimento delle proprie attività (vuoi per obblighi normativi, vuoi per ragioni di accesso al credito o di presidio del mercato) porterà a una progressiva diffusione di tale certificazione.
Esaminando la Prassi di riferimento introdotta da UNI, personalmente avrei apprezzato una maggiore presenza di KPI di tipo quantitativo e un minor ricorso a KPI di tipo qualitativo (il rapporto è infatti di circa 1 a 2).
Pur comprendendo la finalità perseguita da UNI di collocare il processo di certificazione in un percorso di presa di coscienza e di crescita della cultura di genere all’interno del contesto aziendale e pur comprendendo la necessità di richiedere alle aziende che si certificano una significativa strutturazione a livello organizzativo, di processi e di policy, vedo in tale sbilanciamento un rischio di proliferazione all’interno delle organizzazioni di dichiarazioni di intenti, buoni propositi e procedure virtuose che non sempre sono indice di un significativo miglioramento in termini rigorosamente analitici e percentuali della condizione femminile all’interno dell’organico aziendale. In altre parole, un rischio non trascurabile di “pink washing”.

*Avvocato in Milano

di Davide Achille Daolio*

IL 2024 SI È CHIUSO CON INCERTEZZE
Il 2024 si è concluso in un clima di incertezze che permea il panorama economico e sociale. Tuttavia, in un contesto complesso, esistono strumenti capaci di offrire una visione più chiara del futuro. Tra questi, la demografia si distingue come una delle discipline più affidabili per prevedere, con alto grado di certezza, i cambiamenti della società e del mercato del lavoro nei decenni a venire.


L’IMPATTO DEL DECLINO DEMOGRAFICO SULL’ITALIA
I dati parlano chiaro: l’Italia vive un calo demografico inarrestabile da oltre quindici anni. Dal 2006 la popolazione residente non cresce più naturalmente e, al dicembre 2022, il numero di abitanti è sceso sotto i 59 milioni, registrando un calo di oltre un milione e mezzo rispetto al picco del 2014.
Parallelamente, il tasso di natalità è tra i più bassi al mondo, con una media di 1,20 figli per donna, ben lontano dalla soglia di sostituzione generazionale di 2,1 figli.
Questo fenomeno è accompagnato da un invecchiamento marcato della popolazione: l’età media ha superato i 48 anni, posizionando l’Italia tra i paesi più anziani insieme a Germania e Giappone. Tale squilibrio comporta conseguenze profonde sul sistema pensionistico, sul mercato del lavoro e sulla forza lavoro disponibile.


LA FORZA LAVORO: DATI STORICI E SCENARI FUTURI
Negli ultimi tre decenni il calo delle nascite ha creato uno squilibrio crescente tra coloro che entrano (15 anni) ed escono (65 anni) dalla fascia di età lavorativa.
Il saldo demografico negativo è una costante dal 1995, quando i quindicenni erano già meno dei sessantacinquenni.
Tuttavia, per anni l’effetto negativo è stato compensato da due fattori:

  1. Saldo migratorio positivo:

    • Nei primi anni Duemila, la migrazione netta ha giocato un ruolo chiave nell’aumentare la forza lavoro.
    • Nei cinque anni precedenti la crisi del 2007-2008, il saldo migratorio medio era di 313.000 unità annue; recentemente, tale saldo si è ridotto a una media di 160.000 unità.
  2. Aumento della partecipazione al lavoro:

    • Dal 1990 al 2019 il tasso di partecipazione (percentuale di persone dai 15 ai 64 anni che lavorano o cercano attivamente un impiego) è salito dal 60% al 66%.

Nonostante questi fattori compensativi, il futuro appare più problematico. Secondo le proiezioni ISTAT, tra il 2025 e il 2040 il saldo demografico peggiorerà ulteriormente, con un deficit medio di oltre 400.000 persone l’anno tra chi entra e chi esce dall’età lavorativa. Anche il saldo migratorio, nello scenario mediano, si stabilizzerà su livelli inferiori, aggravando il calo della forza lavoro.


EFFETTI SUL MERCATO DEL LAVORO E SULLE IMPRESE
L’impatto del declino demografico si manifesta già oggi:

  • Tasso di occupazione:

    • Il tasso di occupazione italiano ha raggiunto il record del 62,2% nel 2024, ma questo miglioramento è in parte illusorio, essendo dovuto più alla contrazione della popolazione complessiva che a un incremento reale dei posti di lavoro.
  • Sfide principali:

    1. Squilibrio tra domanda e offerta di lavoro:
      • La carenza di giovani qualificati rende più difficile per le imprese reperire personale con competenze aggiornate, aumentando la necessità di investire in formazione interna o attrarre lavoratori dall’estero.
    2. Ridefinizione dei ruoli lavorativi:
      • La scarsità di manodopera potrebbe accelerare l’adozione di tecnologie e automazione, portando alla scomparsa di professioni tradizionali e alla nascita di nuove opportunità in settori innovativi.
    3. Pressioni sul sistema di welfare:
      • L’aumento del rapporto tra pensionati e lavoratori attivi richiederà riforme strutturali, potenzialmente con un incremento della tassazione o una revisione delle prestazioni pensionistiche.

STRATEGIE PER IL FUTURO
Per mitigare l’impatto del declino demografico è necessario un intervento coordinato su più fronti:

  1. Incentivare la partecipazione al lavoro:

    • Colmare il divario di genere nella partecipazione al mercato del lavoro, attualmente con un differenziale di quasi 20 punti percentuali, potrebbe aumentare significativamente la forza lavoro complessiva e portare l’Italia ai livelli occupazionali delle economie del Nord Europa.
    • Il supporto all’inserimento di giovani, Neet (Not in Employment, Education or Training) e lavoratori over 65 sarà determinante, come dimostra l’esperienza giapponese.
  2. Promuovere la natalità:

    • Incentivare politiche familiari efficaci, nonostante l’impatto sull’aumento delle nascite si manifesti solo a lungo termine, è essenziale per garantire la sostenibilità demografica e la continuità socio-culturale del Paese.
    • Interventi mirati sui servizi educativi, congedi parentali e sostegni economici per le famiglie sono fondamentali.
  3. Investimenti in formazione e innovazione:

    • La formazione continua e l’adozione di nuove tecnologie saranno cruciali per aumentare la produttività e affrontare le trasformazioni del mercato del lavoro.
    • Le imprese dovranno creare ambienti di lavoro attrattivi per i giovani talenti e sfruttare appieno le opportunità offerte dall’intelligenza artificiale e dall’automazione.

L’obiettivo non è solo contenere i danni, ma costruire un sistema più resiliente, dinamico ed inclusivo. Il declino demografico non può essere ignorato: va governato con decisione e coraggio, trasformandolo in un’opportunità per ripensare le priorità, valorizzare il capitale umano e rilanciare il Paese con nuove strategie di sviluppo.


CONCLUSIONI
Siamo uno dei Paesi alla frontiera della transizione demografica. Essere la prima nazione a trovare soluzioni efficaci per il futuro del lavoro consentirà all’Italia di primeggiare nella vendita ed esportazione di rimedi a un problema secolare, che ben presto interesserà tutti gli Stati.

*Corporate Sales Manager

di Domenico Calvelli*

Nel lontano 2013, a Roma, nacque una rinnovata coscienza nei Commercialisti che si occupavano da sempre, nella propria attività libero professionale, di lavoro e previdenza, non foss’altro che la legge numero 12 del 1979 riconosceva a tre categorie, commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro (questi ultimi nati proprio in questa circostanza) le competenze necessarie. Così volle dunque il potere legislativo, costituzionalmente sovrano.

In una intera giornata di lavori, ospiti dell’Ordine di Roma, si dibattè sin da principio se creare un soggetto avente caratteristiche di comitato scientifico o di sindacato. Il Comitato scientifico Gruppo Odcec Area Lavoro optò successivamente per la prima ipotesi; rappresentare cioè all’esterno le capacità dei commercialisti nel districarsi nella sempre più complessa normativa, e prassi, del diritto, dell’economia e dell’organizzazione del lavoro.

Non fu cosa da poco; un conto è operare quotidianamente nei propri studi professionali a supporto della propria clientela, un altro è divulgare all’esterno le proprie idee e le nozioni che appartengono alla disciplina trattata.

Si scelse, dapprima, di avvalersi, per la diffusione, della rivista “Il Commerci@lista”, già esistente e trasformatasi successivamente in “Giuseconomia”, che lanciò all’uopo la collana “lavoro e previdenza”.

Alfine nacque “Noi e il lavoro”, precipuo strumento di cui si dotò, molto fruttuosamente, il Comitato.

Tra i collaboratori si contarono (e si contano tuttora), oltre ad i colleghi, giuristi, accademici e rappresentanti della Pubblica Amministrazione, a comprova del fatto che il confronto tra diversi soggetti e differenti punti di vista non può che essere un momento di arricchimento reciproco, a giovamento dell’intero sistema economico e sociale.

Esprimersi senza pregiudizi, in totale onestà intellettuale, a volte anche ed eventualmente divergendo sulle singole vedute e posizioni, altro non è se non il carburante che tiene in vita uno Stato di diritto che possa dirsi democratico e liberale.

Noi e il lavoro è dunque testata bimestrale a diffusione nazionale che interpreta, dal punto di vista scientifico, le conoscenze della categoria dei Commercialisti sulla materia.

Perché dunque il titolo del presente articolo è “a volte ritornano”? Perché diressi dapprincipio Il Commerci@lista lavoro e previdenza, credendo in questa bellissima materia di studio, ed ora vengo chiamato a dirigere “Noi e il lavoro”, non senza una vena di orgoglio per appartenenze ad una categoria, quella dei Commercialisti, che (e non perché siamo più belli o più corporativi di altri) possono esprimere competenze in costante espansione, nel diritto (e pratica) societario, tributario, del lavoro, aziendale, contabile, finanziario, dei principi Esg, degli audit, della revisione, delle valutazioni, della pianificazione, della crisi d’impresa ecc.

I gruppi di lavoro, comunque li si voglia definire, rappresentano sempre crocevia di idee e di rapporti, scambi culturali fertili, utili al singolo ed alla collettività.

Così è stato anche nel caso del Comitato scientifico Gruppo Odcec Area Lavoro.

Noi e il lavoro è così una piazza scientifica e culturale virtuale, un luogo ove convergono le nozioni e le opinioni di una categoria professionale, quella dei Commercialisti, che ha optato per rappresentare all’esterno, al pubblico, alle istituzioni, le proprie competenze, vedute, idee, senza volersi imporre ma con la consapevolezza di poter essere utile al dibattito ed alla conoscenza.

*Direttore Responsabile

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

 

Una lavoratrice, assunta a tempo parziale verticale (50%), impugnava il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per aver superato il periodo di comporto previsto dal ccnl applicato al rapporto di lavoro.

In particolare, al rapporto di lavoro era applicato il CCNL Commercio-Confcommercio che prevede una specifica disposizione in adempimento della delega prevista dall’art. 7 comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 secondo cui: “I contratti collettivi possono modulare la durata… del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro”.

L’art. 87 del ccnl citato prevede infatti che. per i lavoratori con contratto a tempo parziale “verticale” o “misto”, il periodo di conservazione del posto in caso di malattia sia pari ad “un periodo massimo non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare”.

Nel caso di specie era dunque pacifico che il periodo di comporto fosse pari a 78,5 giorni in un anno, in quanto la lavoratrice era impiegata con un contratto di lavoro part-time verticale per 3 giorni a settimana.

Ciò che, tuttavia, risultava controverso nel giudizio era il criterio con cui computare le giornate di assenza per malattia ai fini della maturazione del predetto periodo di comporto:

– secondo la lavoratrice, avrebbero dovuto essere computati i soli giorni nei quali la stessa sarebbe stata tenuta a garantire la propria prestazione lavorativa (tre giorni a settimana), con la conseguenza che il periodo massimo di comporto non sarebbe stato superato;

– secondo il datore di lavoro, invece, avrebbero dovuto essere computati tutti i giorni solari coperti da certificato medico di malattia, ivi compresi quelli nei quali il dipendente non aveva alcun obbligo contrattuale, sicché la lavoratrice avrebbe accumulato 113 giorni di assenza per malattia, così superando il periodo di comporto.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma rigettavano l’impugnazione della lavoratrice ritenendo corretta la ricostruzione offerta dal datore di lavoro.

La lavoratrice, pertanto, proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione lamentando, appunto, l’erroneità della anzidetta modalità di calcolo confermata dai giudici di merito.

Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, anche la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della ricostruzione datoriale, nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori con contratto part-time verticale anche le giornate non lavorative per cui comunque risultava uno stato di malattia certificato.

Con la sentenza n. 26634 del 14 ottobre 2024 la Corte di Cassazione chiarisce definitivamente che anche nel lavoro part-time verticale le assenze per malattia devono essere calcolate includendo “oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, posto che, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), “opera una presunzione di continuità in quei giorni dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta”.

Detta presunzione, ricorda altresì la Cassazione, può essere superata “solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa”.

La Corte di Cassazione ha fornito una guida fondamentale per la gestione delle assenze di malattia per tale specifica fattispecie, confermando che il “riproporzionamento” (laddove previsto dalla contrattazione collettiva) opera solo con riferimento alla determinazione del periodo di comporto, mentre le assenze devono essere calcolate, così come per i lavoratori a tempo pieno, tenendo conto anche dei giorni contrattualmente non lavorativi se coperti da certificato medico.

di Graziano Vezzoni*

 

Le storie che si svolgono negli hotel, certe volte sono meglio di un episodio di una serie TV a luci rosse!

Immaginatevi la scena: il buon Silvio (chiamiamolo così per convenienza e privacy), che sembra il protagonista di una telenovela estiva molto piccante, viene sorpreso, da un amministratore, in flagrante delicto in un angolo nascosto dell’hotel.

E non stiamo parlando di una semplice pausa caffè, ma di una pausa… diciamo, molto più “intima” e piccante. In poche parole era completamente nudo e stava consumando un rapporto intimo con una cliente.

“…le scrivo questa missiva per esprimere non solo la mia perplessità, ma anche quella dell’intero consiglio di amministrazione dell’Hotel “Virtù e mare”, riguardo al suo recente spettacolino privé tenutosi, nei locali del nostro stabile.

Il 20/07/2024, mentre molti di noi erano indaffarati a garantire l’eccellenza del servizio ai nostri ospiti, lei è stato sorpreso a darsi alla pazza gioia nello sgabuzzino delle scope – un luogo notoriamente dedicato all’ordine e alla pulizia, e non certo ai vizi carnali.

È con un misto di disappunto e incredulità che le comunico che simili attività extra-lavorative, potrebbero minare la fiducia che abbiamo riposto in lei come dipendente e custode della nostra reputazione.

Le rammento, ove Le fosse sfuggito che durante l’occupazione del suddetto sgabuzzino, c’è anche un obbligo di diligenza sul posto di lavoro. Chiaro che, forse “diligenza” è stata da Lei interpretata in un modo leggermente diverso dal solito…

Come da procedura, e seguendo la danza burocratica resa necessaria dalla Legge 20.05.70 n.300, le concediamo 5 giorni per fornirci spiegazioni, giustificazioni di quanto accaduto.

Attendiamo con ansiosa curiosità di sentire la sua versione dei fatti…”.

La narrazione della lettera è ricca di umorismo, formalità e riferimenti legali, cosa che aggiunge quel tocco di serietà al tutto.

Tuttavia, non possiamo negare che il nostro amico lì citato, il signor “Nudo nello sgabuzzino”, si trova in una situazione a dir poco imbarazzante.

Graziano rilegge con cura la lettera di richiamo disciplinare scritta per conto del proprio cliente ed è soddisfatto del risultato.

Adesso, in un attimo di pausa, cerca di immedesimarsi in quel poveretto, il nostro protagonista, il “Nudo nello sgabuzzino”, alle prese con la ricerca di una giustificazione valida. Forse tirerà in ballo Cupido, che evidentemente lo ha preso di mira con una freccia un po’ troppo precisa? O magari dichiarerà di essere stato vittima di un esperimento sociale andato storto? Magari addurrà un colpo di calore estivo che gli ha annebbiato il senso del decoro.

Qualunque sia la sua linea difensiva, mi auguro sia molto creativa. Graziano va avanti con la sua immaginazione, verrà da solo o accompagnato da un sindacalista annoiato. Ma la cosa a cui sta pensando e lo preoccupa è riuscirò a non sorridere quando il “Nudo nello sgabuzzino” formulerà le proprie giustificazioni. Comunque sarà meglio consigliargli caldamente di non farsi mai più trovare in simili – ehm – “vesti”.

Nota dell’autore: Questa lettera è da considerarsi una parodia e non sostituisce un vero e proprio richiamo disciplinare che è e rimane una cosa seria.

Comunque ricordatevi, negli Hotel, per favore, vestitevi sempre, specialmente quando passate vicino agli sgabuzzini.

*ODCEC Lucca

di Ivana De Michele*

 

Nel contesto delle libere professioni, il gender pay gap rimane una ferita aperta. Malgrado i progressi nelle pari opportunità educative e l’aumento della partecipazione femminile nel mondo del lavoro, il divario nei compensi e nella rappresentanza persiste in maniera preoccupante, in particolare per le professioni liberali. Secondo il Global Gender Gap Report 2023, l’Italia si trova in una posizione di svantaggio, all’87º posto su 146 paesi e, considerando l’Unione Europea, dopo di noi ci sono solo Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia, a testimonianza del fatto che la parità di genere, soprattutto nel mondo professionale, in Italia è ancora lontana dall’essere raggiunta.

Le donne rappresentano circa il 44% degli iscritti agli ordini professionali, un dato che segna una crescita rispetto al 40% di pochi anni fa. Tuttavia, la presenza femminile non si riflette in un’uguaglianza nei compensi. In media, le donne nelle professioni liberali guadagnano il 45% in meno rispetto agli uomini, con un divario che si accentua tra i 40 e i 50 anni, quando il carico familiare e lavorativo raggiunge il suo picco.

Questo fenomeno è evidente soprattutto tra commercialisti, avvocati e notai, dove le donne continuano a essere sottorappresentate nei ruoli di leadership e, di conseguenza, guadagnano meno rispetto ai loro colleghi uomini. Ma la questione non si ferma qui: il gender pay gap colpisce anche altri ordini professionali, ad esempio psicologhe e giornaliste, soprattutto quando operano come freelance, una condizione che le espone a una maggiore precarietà economica e a compensi inferiori rispetto ai colleghi uomini.

Nel settore della psicologia le donne costituiscono la maggioranza, rappresentando circa l’85% degli iscritti all’albo degli psicologi. Tuttavia, il fatto che siano più numerose non si traduce in parità retributiva. Secondo i dati del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi), le psicologhe guadagnano tra il 30% e il 40% in meno rispetto ai colleghi uomini. Questa disparità si riflette non solo nei guadagni, ma anche nelle opportunità di carriera, con una minore presenza femminile nei ruoli dirigenziali e decisionali.

Anche il settore del giornalismo presenta un divario di genere significativo, soprattutto per quanto riguarda le giornaliste freelance. Secondo i dati dell’INPGI (Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani), le giornaliste freelance guadagnano mediamente il 28% in meno rispetto ai colleghi uomini, un dato che peggiora ulteriormente per chi lavora in settori editoriali dove la leadership maschile è dominante.

Molte giornaliste si trovano in condizioni di precarietà contrattuale, con la mancanza di un salario fisso che le espone a compensi irregolari e meno competitivi rispetto agli uomini, soprattutto nelle trattative di compensi per articoli e collaborazioni. Le donne giornaliste, in particolare, si scontrano con barriere legate al soffitto di cristallo che limita il loro accesso a ruoli apicali, come redattrici capo o direttrici di testata, ruoli tradizionalmente dominati da uomini.

In conclusione le libere professioniste sono particolarmente esposte al rischio di part-time involontario, perché molte di loro si vedono costrette a ridurre l’orario lavorativo per conciliare lavoro e famiglia. Questo fenomeno è particolarmente comune tra i 40 e i 50 anni, quando la gestione familiare raggiunge il suo massimo impatto sulle scelte professionali.

Le radici del gender pay gap nelle libre professioni sono alimentate da diversi fattori:

Ruoli familiari e sociali: Le donne continuano a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro domestico e familiare, il che limita il loro tempo e la disponibilità per opportunità di carriera più remunerative o di leadership.

Mancanza di trasparenza salariale: Molte professioni non richiedono trasparenza sulle retribuzioni, lasciando spazio a negoziazioni individuali che spesso penalizzano le donne, meno inclini o meno abituate a negoziare al rialzo.

Stereotipi di genere: Le aspettative sociali sul ruolo delle donne come madri e caregiver creano un contesto in cui si dà per scontato che esse siano meno interessate o capaci di dedicarsi alla carriera.

Mancanza di politiche di conciliazione: Gli studi professionali e le aziende offrono spesso scarse soluzioni per la conciliazione tra lavoro e vita familiare, rendendo difficile per le donne mantenere lo stesso ritmo di carriera dei loro colleghi uomini.

Per affrontare seriamente il gender pay gap nelle professioni liberali, è necessario un approccio integrato che includa misure normative e pratiche professionali. Ecco alcune soluzioni concrete:

Trasparenza retributiva obbligatoria: Introdurre obblighi di trasparenza sui compensi all’interno degli ordini professionali, pubblicando i dati salariali divisi per genere. Questa misura potrebbe portare a una maggiore equità retributiva e responsabilizzazione da parte delle aziende e degli studi professionali.

Politiche di conciliazione lavoro-famiglia: Promuovere forme di congedo parentale più flessibili e incentivare la condivisione del carico familiare tra uomini e donne. È cruciale che queste politiche siano accessibili e non penalizzino chi le utilizza.

Programmi di mentoring e leadership femminile: Creare reti di mentoring e programmi di leadership per le donne nei settori in cui sono sottorappresentate, come la psicologia e il giornalismo, per aiutarle a superare le barriere all’avanzamento professionale.

Quota di genere nei ruoli dirigenziali: Implementare quote di genere nei ruoli decisionali all’interno degli ordini professionali e delle redazioni giornalistiche. Questo potrebbe aumentare la presenza femminile in posizioni di leadership e contribuire a una maggiore equità salariale.

Sostegno alle freelance: Le professioniste freelance, come le giornaliste e le psicologhe, necessitano di misure specifiche di protezione sociale e incentivi fiscali per compensare la mancanza di stabilità contrattuale. Questo potrebbe includere fondi di sostegno per i periodi di inattività o agevolazioni fiscali per le lavoratrici autonome.

Il gender pay gap nelle libere professioni non è solo una questione di equità, ma un problema strutturale che impedisce all’economia di sfruttare pienamente il potenziale delle donne. È essenziale che le politiche pubbliche, gli ordini professionali e le aziende collaborino per creare un sistema più equo, in cui il merito venga riconosciuto e valorizzato, indipendentemente dal genere. Ridurre questo divario significa non solo migliorare la vita delle professioniste, ma anche promuovere un sistema economico più inclusivo e produttivo.

*ODCEC Milano

di Giovanni Dall’Aglio*

 

Nel famoso dialogo sulla “natura umana” del 1971 tra Noam Chomsky e Michel Foucault1, Chomsky teorizza l’esistenza di un fondamento reale, assoluto, della natura umana che risiede nell’espressione della propria capacità creativa. Una facoltà naturale che tende ad opporsi ad ogni forma di coercizione; la stessa facoltà che esprime ad esempio un bambino che, di fronte a situazioni nuove come imparare la lingua madre, reagisce e pensa in modo diverso pur senza impararne le regole. La mente come qualcosa di contrapposto al mondo fisico. Seguendo Chomsky quindi, se il bisogno fondante della natura umana risiede nella ricerca creativa, una società giusta dovrebbe metterci nelle condizioni di massimizzare tale potenziale.

Eppure, se osserviamo l’identikit del lavoratore moderno, per la gran parte dei casi risulta difficile sostenere che stia esprimendo la propria natura in termini di libertà creativa e interessi. Non a caso le statistiche recenti mostrano che solo il 5% è “felice” al lavoro2. La reazione a questo stato delle cose è spesso ambivalente: c’è chi cambia lavoro senza acquisire nuove competenze o seguire i propri interessi, e chi invece rimane forzatamente. Sbagliano entrambi, esprimendo due facce della stessa medaglia, e cioè la fuga da se stessi.

Spesso i lavoratori si autoconvincono di stare nel posto giusto perché tutto il loro cammino li ha portati dove sono in quel momento, coerentemente con i propri studi, curriculum e percorsi di carriera. Di fronte al proprio malessere reagiscono cambiando lavoro, cercando retribuzioni maggiori e nuovi stimoli, che però non arriveranno perché continueranno

1 “Noam Chomsky & Michel Foucault Debate – ‘On human nature’” 1971.

2 Osservatorio HR Innovation Pratice della School of Management del Politecnico di Milano

a fare lo stesso tipo di lavoro che li rendeva già tristi prima. Nascondono così il proprio malessere dietro il consumo di cose principalmente inutili, ma che dia un senso ai soldi che guadagnano. Non colgono un aspetto fondamentale, e cioè che un curriculum fatto solamente di anni e liste di lavori non è futuribile se non rappresenta la loro vera natura.

Reid Hoffman, fondatore di Linkedin, descrivendo il futuro del mondo del lavoro, sostiene che il curriculum inteso come lista di anni di esperienza spesi a svolgere un dato lavoro, non avrà più significato. Alle aziende interesserà maggiormente il bagaglio di competenze acquisite sulla base di un portfolio di progetti che delineino la creatività e l’identità del lavoratore. In questo senso, il proprio “brand” digitale si configurerà come il nuovo CV. Sempre Hoffman sostiene che, grazie a quella che potremmo chiamare “rivoluzione delle competenze”, il 50% della popolazione statunitense sarà freelance entro un decennio. Per molti sarà una scelta che consentirà loro di sfruttare la propria competenza e creatività, lavorare a progetti che interessano veramente e soprattutto, guadagnare di più.

Questa visione del futuro apre a diverse riflessioni. Da un lato, dobbiamo essere consapevoli che stiamo per vivere un’epoca di opportunità senza precedenti: intelligenza artificiale, internet e creator economy

consentono di monetizzare le proprie passioni e competenze abbandonando vecchi stili di lavoro, dando un significato diverso al lavoro, più incline alla nostra vera natura creativa. Dall’altro però, chi non ha formazione, competenze e passioni adeguate, rischia di rimanere travolto dall’onda. O chi, pur avendo le competenze adeguate, si improvvisa freelance senza una progettualità. Per queste ultime tipologie di lavoratori, la Gig Economy si configurerà di più come “economia dei lavoretti”, e potrebbe non essere sostenibile a lungo termine, costringendo i lavoratori ad avere più impieghi simultanei, sempre più frammentati e incerti. Gli studi scientifici, infatti, esprimono preoccupazione riguardo alla gig economy per la sua natura precaria, la mancanza di protezioni sociali, e l’impatto negativo sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro, rendendo difficile una vera e propria realizzazione professionale e personale nel lungo termine.

Il tema è quindi complesso, e per questo i policy maker dovrebbero farsene carico, rivisitando le politiche di formazione e protezione sociale in chiave moderna, permettendo ai giovani di avere una panoramica completa che consenta loro di perseguire la propria natura con maggiore consapevolezza, senza superficialità. Per esempio, introducendo durante il percorso formativo dei corsi per contrastare l’analfabetismo finanziario, o dei corsi che diano una panoramica sulle possibilità per intraprendere una propria attività sfruttando internet, intelligenza artificiale e creator economy, evidenziando opportunità e rischi di breve e lungo termine, unitamente ad aspetti fiscali e previdenziali. Altrimenti rischiamo di perderli dietro ai vari trader improvvisati in rete, i famosi “fuffaguru”.

L’evoluzione del mondo del lavoro non è necessariamente una minaccia, ma un modo per ridefinire il concetto di successo. Nella convinzione che, qualsiasi posizione il lavoratore avrà raggiunto, questa non potrà definirsi di successo se è contraria alla propria natura.

Diceva Wilhelm von Humboldt3: “Ciò che non nasce dalla libera scelta di un uomo, o che è solo il risultato di istruzione e guida, non entra a far parte del suo vero essere, ma resta estraneo alla sua natura autentica; egli non lo compie con energie veramente umane, ma soltanto con esattezza meccanica…

…possiamo ammirare ciò che fa, ma disprezziamo ciò che è.”

*Ingegnere e PhD in Trieste

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3 “The Limits of State Action” by Wilhelm von Humboldt (1792)

SICUREZZA SUL LAVORO: criteri di identificazione del datore di lavoro

di Raffaele Bergaglio*

 

In un settore del diritto come quello penale, dove tutto dovrebbe essere connotato da un livello di certezza tale da non lasciare dubbi interpretativi, non fosse altro che per le conseguenze che ne possono derivare, non è ancora del tutto pacifica la rosa soggettiva delle attribuzioni di responsabilità penale derivanti da infortuni sul lavoro.

Non vi è dubbio che i responsabili di un infortunio sul lavoro possano essere più di uno, tuttavia nel corso del tempo si sono avvicendati vari criteri di attribuzione della responsabilità.

Chi è il datore di lavoro? La sua figura coincide con il concetto civilistico di datore di lavoro consistente tendenzialmente nella titolarità cartolare del rapporto di lavoro?

Il problema, ovviamente, non si pone nelle imprese in cui, vuoi per scelta, vuoi per le dimensioni aziendali di piccola o media consistenza, vi è un unico amministratore, nel qual caso ricade su costui la qualifica di datore di lavoro, fatti salvi casi eccezionali, ma cosa accade di fronte ad organizzazioni più complesse, come molte società di capitali, amministrate tramite organi direttivi di tipo collegiale?

La definizione normativa di cui all’art. 2 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro a ben vedersi, fa riferimento sia ad un dato formale, costituito dal «titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», sia al dato sostanziale o fattuale di chi «ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa».

Questo dovrebbe di per sé essere sintomatico della volontà del legislatore di valorizzare entrambe le accezioni del datore di lavoro: quella di tipo civilistico, che riguarda la titolarità del rapporto lavorativo in senso contrattuale, e quella di tipo prettamente fattuale, che guarda all’esercizio concreto delle prerogative datoriali nell’organizzazione dell’impresa.

Recentemente la giurisprudenza si sta assestando su posizioni che cercano di mixare vari orientamenti succedutisi negli ultimi anni.

Di volta in volta le responsabilità in materia di sicurezza vengono ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che di solito rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unità organizzative, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Le Sezioni Unite della Cassazione, nella nota sentenza pronunciata per il caso ThyssenKrupp, hanno ribadito che “ruoli, competenze e poteri segnano le diverse sfere di responsabilità gestionale ed al contempo definiscono la concreta conformazione, la latitudine delle posizioni di garanzia, la sfera di rischio che deve essere governata”, sicché, “nell’ambito di organizzazioni complesse, d’impronta societaria, la veste datoriale non può essere attribuita solo sulla base di un criterio formale, magari indiscriminatamente estensivo, ma richiede di considerare l’organizzazione dell’istituzione, l’individuazione delle figure che gestiscono i poteri che danno corpo a tale figura” (Cass. Pen., S.U., 18.9.2014, n. 38343).

Così, con riferimento all’infortunio di un muratore, si è sostenuto che anche un soggetto estraneo all’organigramma aziendale possa assumere il ruolo di datore di lavoro e divenire destinatario della normativa antinfortunistica, in presenza di comportamenti ricorrenti, costanti e specifici, dai quali possa desumersi l’effettivo esercizio di funzioni datoriali. Il datore di lavoro titolare degli obblighi prevenzionistici va individuato sia in colui che risulta parte in senso ”formale” del contratto di lavoro sia nel soggetto che ”di fatto” assume i poteri tipici della figura datoriale (Cass. pen. IV, 23.09.2016, n. 39499; ma v. altresì Cass. pen., Sez. IV, 23.10.2015, n. 2536).

Nelle imprese di grandi dimensioni, ampiamente articolate, si può determinare la contestuale presenza di un datore di lavoro al vertice dell’intera organizzazione, che pertanto potrebbe dirsi ”apicale”, e di uno o più datori di lavoro che potrebbero definirsi ”sottordinati”. Sennonché il ruolo datoriale di questi ultimi non elide il vincolo gerarchico verso il datore di lavoro apicale, che resta unico, con la particolarità che tale vincolo si esprime con modalità che non intaccano i poteri di decisione e di spesa dei datori sottordininati nella autonoma gestione delle unità produttive.

Quando, invece, il vincolo gerarchico con il datore di lavoro apicale si riflette anche sulle gestioni secondarie o sotto-articolate, è da escludersi che ricorrano anche datori di lavoro sottordinati, profilandosi piuttosto dei dirigenti, con la conseguenza che la responsabilità penale rimane totalmente in capo all’apicale. Ne deriva che nelle imprese articolate in una pluralità di unità operative, il datore di lavoro sottordinato è destinatario di tutte le prescrizioni che si indirizzano alla figura datoriale ancorché in funzione della gestione della sicurezza nell’ambito dell’unità organizzativa affidatagli. Esemplificando, egli sarà tenuto ad eseguire la valutazione di tutti i rischi connessi alle attività lavorative svolte nell’unità; a redigere il documento di valutazione dei rischi; a nominare il medico competente ed il responsabile del servizio di prevenzione e di protezione (in tal senso v. Cass. pen., III, n. 9028 del 15.02.2022; Cass. pen. Sez. IV, n. 32899 dell’08.01.2021; Cass. pen. Sez. IV, n. 18200 del 07.01.2016).

Concludendo, per ciò che attiene alla sicurezza sul lavoro, non esiste un criterio univoco per individuare il datore di lavoro nelle organizzazioni complesse. La giurisprudenza oggi tende ad utilizzare entrambi i criteri previsti dall’art. 2 del TUSL, quello ”formale”, che identifica il datore di lavoro nel «soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore», e quello ”sostanziale”, che lo individua nel «soggetto che … esercita i poteri decisionali e di spesa».

La conseguenza di tale impostazione è che nell’ambito degli organi direttivi collegiali, a seconda dei casi concreti che si prospettano, le responsabilità datoriali in materia di sicurezza saranno ascritte, secondo una visione più formale, al presidente del consiglio di amministrazione, che normalmente rappresenta legalmente la società, oppure, secondo una visione più sostanziale, agli amministratori muniti di deleghe gestorie specifiche per l’amministrazione della società, o persino a datori di lavoro di fatto, sotto ordinati rispetto agli apicali, laddove essi svolgano attività direttive in singole unita, indipendentemente dalla loro qualificazione giuslavoristica.

Particolare rilievo nell’individuazione del datore di lavoro assume anche l’art. 28, D.lgs. 81/2008, dedicato all’«oggetto della valutazione dei rischi», atteso che la redazione del documento di valutazione di rischi (DVR), non può essere delegato da parte del datore di lavoro, a fronte di quanto previsto dall’art. 17 D.lgs. 81/2008. Tale documento, si ricorda, deve contenere la valutazione dei rischi per i lavoratori, l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione, l’individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidate a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Pertanto, la semplice disamina di tale documento e della sua sottoscrizione, tendenzialmente consente di identificare il soggetto originariamente tenuto a prevenire e governare il rischio medesimo.

Si deve tenere presente che esistono vari rimedi per sgravare il datore di lavoro della maggior parte degli obblighi incombenti sulla sua posizione di garanzia e sulle conseguenti responsabilità, ma di questo abbiamo avuto modo di parlare nello speciale sicurezza.

* Avvocato in Milano

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