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Fattore umano e soft skills come elementi chiave nella prevenzione degli incidenti sul lavoro in edilizia

L’articolo esplora la rilevanza del fattore umano e dell’errore nel settore delle costruzioni, evidenziando come la gestione delle soft skills – quali comunicazione efficace, consapevolezza situazionale e gestione dello stress – sia fondamentale per ridurre gli incidenti sul lavoro. Sottolinea inoltre l’importanza di una formazione continua e mirata che favorisca una cultura condivisa della sicurezza, con benefici concreti sia per i lavoratori sia per le imprese.

Uno sguardo ai numeri

È noto come sotto il profilo della sicurezza sul lavoro il settore delle costruzioni sia uno dei comparti più a rischio e come la sua struttura, spesso rappresentata da piccole e microimprese, renda complessa l’implementazione di sistemi di prevenzione particolarmente strutturati.
Dai dati INAIL emerge che nel 2023 nel settore delle costruzioni si sono verificati oltre 43.000 infortuni sul lavoro e 202 morti sul lavoro. Tra le cause principali figurano le cadute dall’alto (da ponteggi e impalcature), gli incidenti da schiacciamento, le ferite causate da materiali taglienti e abrasivi, le lesioni da sforzi fisici nel sollevamento e nella movimentazione manuale dei carichi.
Negli ultimi anni sta emergendo anche il fenomeno dalle malattie professionali: nel 2023 nel settore costruzioni ne sono state denunciate quasi 13.000. Le malattie più frequenti sono di natura muscolo-scheletrica, causate da posture scorrette, sollevamento di carichi pesanti e vibrazioni. Le patologie maggiormente ricorrenti sono: ernie discali, tendiniti e sindromi da sovraccarico funzionale, sindrome del tunnel carpale e disturbi respiratori.

Il ruolo centrale del fattore umano

Vari studi evidenziano che il fattore umano esercita un ruolo fondamentale nel fenomeno degli infortuni sul lavoro, sia in senso positivo che negativo, cioè, ne può essere causa determinante e contestualmente può essere modalità di mitigazione.
La sicurezza sul lavoro e la prevenzione sono possibili se si punta su un equilibrio tra le componenti fondamentali del sistema complesso costituito da uomo, macchina ed ambiente.
Il processo di prevenzione non può consistere solo nell’eliminazione dei rischi, ma deve comprendere tutte le condizioni che possono innescare l’infortunio, perché è lo squilibrio tra le tre componenti del sistema che provoca la riduzione di affidabilità del sistema.
L’uomo è quindi componente fondamentale e vari studi hanno dimostrato che la maggior parte degli incidenti non deriva da una mancanza di competenze tecniche, ma da fattori umani come una scarsa comunicazione, una insufficiente gestione dello stress o da lacune organizzative.

Comprendere l’errore umano

I primi studi sull’importanza del cosiddetto fattore umano nel verificarsi di infortuni risalgono agli anni Settanta nel settore dell’aviazione. In precedenza, erano prevalenti teorie “meccaniche” e si riteneva che per compiere in maniera sicura il lavoro fosse necessario possedere esperienze tecniche.
L’errore umano invece può essere la causa di incidenti, con conseguenze anche gravi, sia che si verifichi in fase di esecuzione o in fase di pianificazione dell’attività lavorativa, sia che venga determinato dal mancato riconoscimento di un pericolo o dalla incapacità di gestire situazioni particolari ed improvvise.
Dai primi studi effettuati nel settore del trasporto aereo era emerso che più della metà degli incidenti era proprio la conseguenza di errori umani legati alla comunicazione tra i componenti dell’equipaggio, alla errata ripartizione dei ruoli, al mancato coordinamento o alla incapacità di prendere decisioni rapide.

Il comportamento dell’uomo può essere distinto in tre situazioni alle quali sono ascrivibili altrettante tipologie di errori:

  1. “skill based”: errori dovuti a disattenzione; il caso tipico è quello di operatori che hanno una buona esperienza nello specifico campo di lavoro e che quindi nello svolgere un compito di routine diminuiscono l’impegno mentale;

  2. “rule based”: errori riconducibili all’applicazione di procedure corrette nel momento sbagliato, oppure alla scelta di procedure non adeguate alla situazione;

  3. “knowledge based”: errori provocati dalla mancanza di conoscenze o dalla loro non corretta applicazione, e quindi dalla difficoltà di trovare le soluzioni ottimali quando ci si trova in presenza di situazioni nuove o impreviste, per le quali non si conoscono le regole o le procedure di riferimento.

Tra gli errori umani sono però comprese anche le azioni intenzionali in violazione delle procedure, che possono avvenire eccezionalmente o costituire una routine. Queste azioni in molti casi sono scelte in buona fede per “migliorare” o “velocizzare” le procedure esistenti.

Gli errori umani posso essere distinti anche basandosi sulla causa scatenante e sulle condizioni in cui l’errore si verifica; in tal senso gli errori possono essere classificati come errori dovuti a:

  • fattori attivi: risultanti da azioni degli operatori, più facili da riconoscere ed analizzare poiché immediatamente percepiti e facilmente individuabili;

  • fattori passivi, dovuti a cause non immediatamente presenti sul luogo dell’errore, che richiedono un’analisi molto più laboriosa per rintracciarne l’origine. Questa tipologia di errori viene anche definita come errori latenti, in quanto associati ad attività distanti dal luogo e dal momento dell’incidente (attività manageriali, normative e organizzative). Spesso le azioni insicure che portano all’incidente sono precedute, a livello immediatamente superiore, da sistemi o procedure di controllo non adeguati e, al vertice, da decisioni inadeguate della dirigenza che influenzano direttamente o indirettamente tutti i livelli sottostanti.

L’incidente avviene quindi quando si verifica una serie di precondizioni. Molto spesso però si verificano errori che vengono corretti dagli altri livelli di salvaguardia: in tali casi si parla dei cosiddetti quasi incidenti la cui rilevazione può essere un potente strumento per valutare correttamente le eventuali condizioni di rischio (near missing).
Per tutti questi motivi la comprensione dell’errore umano è il primo passo verso una strategia di prevenzione efficace.

L’importanza delle soft skill (non-technical skills)

L’errore umano in ambito lavorativo non è certamente qualificabile come una semplice disattenzione; si tratta invece più spesso di errori derivanti da sovraccarichi cognitivi o da un’organizzazione aziendale non adeguata.
Spesso tra i fattori si annovera anche una diffusa cultura aziendale che non evidenzia l’importanza della segnalazione di pericoli.
Per questo motivo in materia di prevenzione sulla sicurezza sul lavoro è necessario approfondire e sviluppare anche le soft skill (altrimenti definite come non-technical skills – NTS).
Si tratta di sviluppare competenze che vanno oltre le abilità tecniche e riguardano la capacità di gestire situazioni complesse attraverso comportamenti e abilità personali e sociali.
Tra le principali soft skill fondamentali per il settore edile possiamo enucleare:

  • Consapevolezza situazionale: capacità di riconoscere e anticipare situazioni pericolose, prestando attenzione all’ambiente e identificando tempestivamente i rischi.

  • Capacità decisionale: abilità di prendere decisioni rapide e corrette anche sotto pressione, valutando le informazioni disponibili ed agendo in modo sicuro.

  • Comunicazione efficace: capacità di coordinare le attività tra team affinché le informazioni sulla sicurezza vengano comprese chiaramente da tutti.

  • Lavoro di gruppo: capacità di collaborare in modo efficace e condividere le informazioni tra i membri del gruppo per mantenere un ambiente sicuro.

  • Leadership: capacità di coordinare le attività lavorative, assicurando l’osservanza delle procedure di sicurezza e motivando il team a comportamenti sicuri.

  • Gestione dello stress: abilità nel riconoscere e gestire lo stress per evitare che le pressioni psicologiche influiscano negativamente sulla sicurezza.

Il fattore umano e la capacità di gestire lo stress e la fatica del lavoro in edilizia

In ambienti lavorativi ad alto rischio come quello delle costruzioni è molto importante, per evitare l’insorgere di errori, sviluppare l’abilità di riconoscere e gestire lo stress.
Spesso la stanchezza fisica e mentale aumenta la probabilità di commettere errori e generare situazioni insicure per sé e per gli altri.
Vanno attivate pertanto anche tutte quelle misure che possono indurre una riduzione dello stress e tra le contromisure per combattere la fatica, così frequente nel settore delle costruzioni, si possono ricordare:

  • comportamenti mirati al miglioramento della durata e qualità del sonno;

  • dieta adeguata, evitando cibi grassi, alcolici e caffeina;

  • attenzione alla assunzione di farmaci stimolanti, da assumere solo sotto controllo medico;

  • pianificazione organizzativa: evitare attività complesse tra le 03:00 e le 06:00 e considerare fattori climatici.

Formazione: leva fondamentale per la sicurezza

Possiamo senza dubbio affermare che solamente una formazione mirata può ridurre significativamente gli incidenti lavorativi causati da comportamenti a rischio legati a errori umani.
È però altrettanto fondamentale erogare una formazione continua: sviluppare un programma costante per sensibilizzare i lavoratori sui rischi e sui comportamenti sicuri.
L’apprendimento deve essere attivo: workshop, simulazioni e attività pratiche rendono la formazione più efficace.

La formazione sviluppa una cultura della sicurezza e il messaggio chiave è: essere consapevoli dei rischi permette di agire proattivamente per evitarli.
In questo contesto, la formazione non può essere un obbligo formale, ma deve diventare una leva di cambiamento, basata sulla condivisione.

Vision Zero: un modello innovativo di prevenzione

Un modello che rappresenta quanto detto finora è Vision Zero, programma lanciato nel 2017 durante il XXI Congresso Mondiale sulla salute e sicurezza sul lavoro.
L’idea di fondo è che la sicurezza non sia solo adempimento burocratico, ma parte integrante della cultura aziendale.
Vision Zero prevede lo sviluppo di sette regole d’oro:

  1. Leadership e impegno concreto della direzione.

  2. Identificazione e controllo dei rischi.

  3. Definizione chiara di obiettivi e programmi.

  4. Sistema organizzativo strutturato.

  5. Sicurezza e manutenzione di macchinari e ambienti.

  6. Sviluppo costante delle competenze.

  7. Partecipazione attiva dei lavoratori.

Conclusioni: investire nella prevenzione è vantaggioso per tutti

La sicurezza nel settore costruzioni richiede un approccio a più livelli: analitico, sistemico, umano e operativo.
Investire nella prevenzione non è solo un dovere etico e giuridico, ma un vantaggio competitivo: riduzione dei costi, aumento della produttività, miglior reputazione.
Ma soprattutto: significa salvare vite!

di Monica Livella
Responsabile della sede Inail di Cremona, giornalista pubblicista, formatrice salute e sicurezza luoghi di lavoro

di Ivana De Michele*

Quando la pluralità diventa motore di innovazione, crescita economica e sviluppo sociale nei luoghi di lavoro

Non dimenticherò mai una conversazione con una giovane imprenditrice che, alla fine di un nostro incontro, mi disse: “Pensavo che inserire donne in ruoli chiave fosse una scelta etica. Poi ho scoperto che è anche la decisione più intelligente che abbia mai preso per far crescere la mia azienda.”

In quel momento ho capito che il valore della diversità non si misura solo in termini morali, ma anche in termini concreti di competitività, redditività e visione strategica. Da commercialista e da professionista impegnata sui temi delle pari opportunità, lo vedo ogni giorno: le aziende più inclusive sono quelle che crescono meglio e durano di più.

Per anni il dibattito sulla diversità è stato relegato alla sfera del “dover essere”. Ma nel mondo postpandemico, dove i modelli lavorativi stanno cambiando rapidamente e le sfide globali richiedono
visioni nuove, la diversità è diventata un asset strategico. Non si tratta più di rispettare una percentuale, ma di capitalizzare l’intelligenza collettiva. E farlo genera risultati.

Nel dicembre 2023, McKinsey ha pubblicato il quarto report della serie “Diversity Matters”, basato su un dataset ampliato che include 1.265 aziende in 23 paesi.
I risultati mostrano che la correlazione tra diversità e performance finanziaria è più forte che mai:

  • Le aziende nel top quartile per diversità di genere nei team esecutivi hanno una probabilità del 39% maggiore di superare i concorrenti in termini di redditività.
  • Lo stesso vale per la diversità etnica nei team esecutivi, con un aumento del 39% nella probabilità di outperforming.
  • Le aziende con oltre il 30% di donne nei team esecutivi mostrano una performance finanziaria significativamente superiore rispetto a quelle con una rappresentanza inferiore.
  • Per la prima volta, è stata osservata una correlazione statisticamente significativa tra diversità nei consigli di amministrazione e performance finanziaria: le aziende nel top quartile per diversità di genere nei board hanno una probabilità del 27% maggiore di ottenere risultati finanziari superiori.

Inoltre, la mancanza di diversità sta diventando sempre più penalizzante: le aziende nel bottom quartile per entrambe le metriche (genere ed etnia) hanno una probabilità del 66% inferiore di ottenere performance superiori rispetto ai concorrenti.
Il report McKinsey-LeanIn del 2024 evidenzia che le donne rappresentano ora il 29% dei ruoli C-suite, rispetto al 17% del 2015. Tuttavia, persistono ostacoli significativi:

  • Il cosiddetto “broken rung” rimane il principale ostacolo: per ogni 100 uomini promossi da entrylevel a manager, solo 81 donne ricevono la stessa promozione, e solo 73 donne di colore.
  • Le donne continuano a sperimentare microaggressioni e discriminazioni sottili, che hanno un impatto negativo sulla loro sicurezza psicologica e sulla probabilità di burnout.
  • La flessibilità lavorativa si conferma un fattore chiave: l’80% delle donne afferma che la flessibilità le ha aiutate a mantenere il proprio ruolo o a evitare la riduzione dell’orario lavorativo.

Sebbene i report McKinsey siano globali, i dati italiani mostrano un ritardo nella diversità nei vertici aziendali.
Secondo il rapporto Cerved 2023, solo il 18% delle posizioni nei CDA delle società italiane non quotate è occupato da donne e secondo il Gender Equality Index 2023 dell’European Institute for Gender Equality (EIGE), l’Italia si colloca sotto la media europea, soprattutto nei settori dell’occupazione femminile, della partecipazione ai ruoli decisionali e del gender pay gap.

Nonostante il livello di istruzione delle donne italiane sia mediamente superiore a quello maschile, il tasso di occupazione femminile si ferma al 51,1% (contro una media UE del 67%), e la presenza nei ruoli apicali resta bassa. Solo il 18% delle imprese italiane ha una donna come amministratore unico o delegato. Le retribuzioni,
a parità di ruolo e competenze, continuano a mostrare una differenza salariale del 12% netto, che sale fino al 40% in alcune professioni libere.

Questi numeri non sono solo un problema sociale.
Sono un freno alla crescita economica del Paese.
Secondo Banca d’Italia, se l’occupazione femminile raggiungesse quella maschile, il PIL italiano crescerebbe di circa 7 punti. Un dato che dovrebbe far riflettere tutti: inclusione e crescita non sono antagonisti. Sono alleati.

Infatti le aziende italiane che hanno investito in leadership diversificata mostrano segnali positivi in termini di innovazione e resilienza.

Il valore della diversità nei luoghi di lavoro non si limita all’equità. Riguarda l’innovazione. Ambienti omogenei tendono a riprodurre gli stessi schemi decisionali, con il rischio di cadere in una comfort zone che inibisce la creatività. Al contrario, un team eterogeneo porta a soluzioni più complesse, ma anche più efficaci, proprio perché nate dall’incontro (e talvolta dallo scontro) di visioni differenti.

Le aziende che promuovono una cultura inclusiva sono anche quelle che:

  • attraggono e trattengono talenti (soprattutto le nuove generazioni)
  • sviluppano prodotti e servizi più adatti a un mercato globale
  • ottengono migliori risultati in termini di reputazione e responsabilità sociale
  • hanno accesso a forme di finanziamento legate ai criteri ESG

Dal 2024, con l’entrata in vigore della Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), la rendicontazione della diversità è diventata un obbligo normativo per migliaia di imprese europee. Le aziende saranno tenute a dichiarare pubblicamente il proprio impegno e i risultati raggiunti su diversi ambiti, tra cui:

  • presenza di donne nei ruoli apicali
  • politiche retributive inclusive
  • misure di conciliazione vita-lavoro
  • prevenzione delle discriminazioni
  • cultura organizzativa e formazione

Gli standard ESRS (European Sustainability Reporting Standards), sviluppati da EFRAG, forniscono uno schema preciso per questa rendicontazione.
Questo significa che diversità e inclusione entrano a pieno titolo nella governance aziendale, come elementi valutabili dagli investitori e dai mercati.

La valorizzazione della diversità non riguarda solo le grandi imprese. Anche le PMI, gli studi professionali, gli enti pubblici e gli ordini professionali possono e devono lavorare per promuovere modelli organizzativi più inclusivi.
Per farlo servono:

  • strumenti di analisi del gender pay gap
  • formazione sul linguaggio e i bias inconsci
  • politiche di flessibilità oraria e smart working
  • mentoring e sponsorship per la crescita professionale delle donne
  • attenzione alla leadership condivisa e alla partecipazione nei processi decisionali

Il tema della diversità tocca anche gli ordini professionali e il mondo delle libere professioni, che storicamente hanno mostrato una forte disparità di genere, soprattutto nei ruoli dirigenziali.

Nonostante l’ingresso crescente delle donne in professioni come quella del commercialista, dell’avvocata, dell’architetta o della notaia, permane un forte squilibrio nei vertici e negli organi
rappresentativi.
Secondo dati aggiornati del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, solo il 30% degli iscritti sono donne, ma la loro presenza nei Consigli degli Ordini locali è spesso ben inferiore. Lo stesso vale per altri Ordini: le donne sono più della metà dei giornalisti e degli psicologi iscritti, ma in minoranza nei vertici.

Perché è importante parlarne?
Perché l’inclusione nei processi decisionali è un indicatore di democrazia interna e di capacità di rappresentare davvero le istanze di tutti gli iscritti.
Gli Ordini, inoltre, possono diventare attori fondamentali di cambiamento, promuovendo:

  • bandi e nomine più inclusivi
  • formazione su parità e leadership
  • task force per monitorare il gender pay gap tra professionisti
  • eventi, mentoring e pubblicazioni dedicate
  • linguaggio amministrativo e comunicativo attento alla parità

Noi professionisti possiamo essere parte attiva del cambiamento. Non solo nei nostri studi, ma nel sistema professionale nel suo complesso. Perché un mondo del lavoro più equo si costruisce anche a partire dalle sue fondamenta.

Scommettere sulla diversità non è solo “la cosa giusta da fare”. È la cosa utile da fare. Perché la vera innovazione nasce quando si mettono insieme sguardi differenti. E la competitività, oggi, passa per la capacità di creare ambienti di lavoro in cui tutte e tutti possano esprimere il proprio potenziale senza ostacoli.

Il lavoro del futuro sarà sempre più fluido, complesso, globale. E per affrontarlo serviranno competenze, creatività, visione. Ma soprattutto serviranno organizzazioni capaci di guardare oltre la somiglianza e investire nella differenza.
È lì che si gioca il valore. Anche quello economico.

*ODCEC Milano

di Sandro Biondi*

Introduzione
Negli ultimi anni, la Carta Blu europea è diventata uno strumento essenziale per i lavoratori altamente qualificati provenienti da Paesi extra UE che desiderano lavorare e stabilirsi in Europa.
Ci sono infatti molte professionalità che possono essere scoperte e integrate nel nostro contesto produttivo con reciproci benefici.

L’interesse per la questione nasce dall’esigenza di aver dovuto assistere alcune aziende per l’ingresso in Italia di lavoratori (in particolare dall’India) laureati in design (bachelor of design). All’epoca (2020-2021 nel pieno delle problematiche legate all’emergenza sanitaria Covid-19) ma anche oggi figure come queste sono ampiamente ricercate per venire incontro alle peculiari esigenze di mercato in aree geografiche in forte espansione commerciale.

Ho deciso pertanto di analizzare, seppur sinteticamente, con questo lavoro cos’è la Carta Blu extra UE, quali sono i requisiti, il percorso di ottenimento e i vantaggi che offre sia al beneficiario che alle imprese dei Paesi ospitanti, ma anche le criticità.

Cos’è la Carta Blu Extra UE
La Carta Blu è un particolare permesso di soggiorno e lavoro pensato per attrarre professionisti qualificati da tutto il mondo, paragonabile allo “standard” dei visti a “talento” o “visas per lavoratori specializzati”.

La normativa di riferimento, recentemente novellata, è il Decreto legislativo del 18 ottobre 2023, n. 152, GU n. 256 del 2 novembre 2023, con cui è stata data attuazione alla direttiva (UE) 2021/1883 sulle condizioni di ingresso e soggiorno di cittadini stranieri che intendano svolgere lavori altamente qualificati in uno Stato membro della Ue. La nuova direttiva ha sostituito la precedente 2009/50/CE che, per la prima volta, aveva introdotto una disciplina di favore per i lavoratori stranieri altamente qualificati, con l’obiettivo di promuovere un regime più attraente ed efficace per l’ingresso di lavoratori provenienti da paesi terzi, modificando l’ambito di applicazione soggettiva, prevedendo procedure più rapide, criteri di ammissione flessibili e inclusivi e diritti
più ampi che comprendano una mobilità più agevole all’interno dell’Unione.
In Italia la direttiva è stata recepita con il D. Lgs. n. 152/2023, il quale ha modificato in diversi punti l’articolo 27-quater del Testo Unico Immigrazione (D.lgs. n. 286/98), norma con cui era stata attuata la prima direttiva sui lavoratori stranieri altamente qualificati.

Rispetto ad altri tipi di permessi di lavoro la Carta Blu si focalizza sui lavoratori con profili altamente specializzati e ciò comporta requisiti più stringenti in termini di titolo di studio e offerta contrattuale da parte di un datore di lavoro qualificato. È utile osservare che gli ingressi operano al di fuori delle quote fissate con il decreto flussi.

Requisiti
Per poter accedere alla Carta Blu, sia il beneficiario che il datore di lavoro devono soddisfare una serie di requisiti:

  • Titolo di studio e qualifiche professionali. Il candidato deve possedere un titolo universitario o una formazione equivalente riconosciuta a livello internazionale. Talvolta, i Paesi UE ammettono anche eccezioni per particolari esperienze lavorative; in caso di professioni regolamentate, occorrono specifici requisiti previsti per il loro esercizio. Per la costituzione di un rapporto di lavoro
    subordinato l’Italia richiede un titolo di istruzione superiore rilasciato dall’autorità competente che attesti il completamento di un percorso di istruzione di almeno tre anni e di una qualifica professionale superiore corrispondente almeno al livello 6 del Quadro nazionale delle qualificazioni (ISTAT) attestata dal Paese di provenienza e riconosciuta in Italia. Questo è un punto fondamentale che richiede, dal punto di vista professionale, molto tempo ed impegno. Occorre infatti che il candidato nel proprio Paese produca il titolo di studio in originale e chieda la “legalizzazione”, ovvero una traduzione in Italiano unitamente all’attestazione dell’autorità consolare competente attraverso una dichiarazione di valore in loco. In questi casi avere basi di conoscenza di lingua straniera è sicuramente un valore aggiunto.
  • Offerta di lavoro qualificato
    È necessaria una proposta di contratto da parte del datore di lavoro situato in un Paese membro dell’Unione. L’offerta deve garantire una retribuzione che supera una certa soglia minima, di solito in linea con il salario medio o superiore, a dimostrazione del ruolo altamente qualificato. Per l’Italia è richiesta una retribuzione superiore al triplo dell’assegno sociale annuo.
  • Assicurazioni e garanzie
    Alcuni Paesi richiedono al candidato di dimostrare il possesso di un’assicurazione sanitaria valida o di altri requisiti finanziari che garantiscano la sicurezza socioeconomica durante il soggiorno. L’Italia non richiede niente di tutto questo ma fa ricadere le responsabilità sia economiche sia sanitarie sul datore di lavoro calcando l’attenzione sul titolo di possesso sulla idoneità della situazione alloggiativa.
  • Verifica del mercato del lavoro
    In alcune Stati, ed ora anche in Italia, occorre verificare se non esista un candidato già presente o se la posizione richieda competenze che non sono immediatamente reperibili sul mercato interno.

La Procedura di Ottenimento
Il processo per ottenere la Carta Blu include le seguenti fasi:

  • Fase preliminare – Raccolta documentazione
    È sicuramente basilare prendere contatti con il candidato (cercando di farsi capire nella lingua straniera, che spesso è l’inglese, informando anche sugli aspetti burocratici spesso sconosciuti all’estero) fornendo assistenza nella fase di preparazione e autenticazione del titolo di studio, del curriculum aggiornato, nella comprensione della lettera di offerta contrattuale e ogni altra documentazione richiesta.
  • Preventiva richiesta del datore di lavoro
    All’epoca dei casi affrontati non era necessario ma, con le nuove disposizioni frutto evidente anche di scelte politiche di base, il datore di lavoro prima dell’invio della richiesta di nulla osta deve verificare presso il Centro per l’Impiego competente che non vi siano altri lavoratori già presenti sul territorio nazionale disponibili a ricoprire la posizione per cui si ha intenzione di assumere il lavoratore che si trova all’estero. Tale verifica va effettuata attraverso l’invio di una richiesta di personale al Centro per l’Impiego.
    Alla richiesta di nulla osta, pertanto si potrà procedere solo se: il Centro per l’impiego non risponde entro quindici giorni lavorativi dalla data della domanda; il lavoratore segnalato dal centro per l’impiego non è idoneo al lavoro offerto oppure non si presenta, salvo giustificato motivo, al colloquio di selezione, decorsi almeno venti giorni lavorativi dalla data della richiesta. Il
    verificarsi delle suddette circostanze dovrà risultare da un’autocertificazione che il datore di lavoro dovrà allegare alla domanda di nulla osta al lavoro.
  • Presentazione della domanda di Nulla Osta al lavoro:
    Il datore di lavoro a questo punto richiede il nulla osta al lavoro tramite il sistema di inoltro telematico delle domande del Ministero dell’Interno modulo BC. Si tratta di una procedura guidata che permette sostanzialmente l’inserimento, secondo i requisiti richiesti, dei dati anagrafici delle parti, della proposta di contratto, della situazione patrimoniale e reddituale
    del datore di lavoro, della situazione alloggiativa. È il caso di rammentare che per assistere le aziende i Dottori Commercialisti mediante il protocollo nazionale di intesa con il Ministero dell’Interno possono essere accreditati al sistema telematico permettendo di accedere come utenti qualificati al portale e consentendo l’inoltro delle istanze di nulla osta per conto dei
    datori di lavoro (in particolare per l’accesso al Portale ALI tramite SPID di secondo livello).
  • Esame e valutazione
    Le autorità competenti (Ministero dell’Interno, Ufficio immigrazione) valutano la congruenza dell’offerta di lavoro, il livello delle competenze e la documentazione presentata. In molti casi, vengono previsti ulteriori approfondimenti e verifiche.
  • Emissione del Nulla Osta
    Lo sportello per l’immigrazione emette il “Nulla Osta” e quindi il lavoratore può recarsi al consolato (Italiano) per ottenere il visto di ingresso
  • Ingresso
    Ottenuto il visto di ingresso in Italia il lavoratore può finalmente entrare nel territorio nazionale; entro 48 ore il datore di lavoro deve inviare dichiarazione di ospitalità alla Questura territorialmente competente ed entro 8 giorni sia il datore di lavoro che il lavoratore devono presentarsi allo Sportello per l’Immigrazione per completare le procedure relative al primo
    ingresso (contestualmente dovranno essere presentati il titolo con il quale il lavoratore detiene l’alloggio e il certificato di idoneità alloggiativa). L’ufficio immigrazione rilascia il codice fiscale affinché il soggetto sia identificato dall’Anagrafe Tributaria e possa avvalersi del servizio sanitario nazionale.
  • Emissione della Carta Blu
    Una volta approvata la domanda, il lavoratore beneficiario riceve il permesso di soggiorno e lavoro che ha durata biennale, se il rapporto di lavoro è a tempo indeterminato o, se a tempo determinato, una durata superiore di 3 mesi rispetto alla scadenza del rapporto di lavoro.
  • Costituzione del rapporto di lavoro
    Il lavoratore può quindi essere regolarmente assunto secondo l’inquadramento contenuto nella domanda e prendere servizio

Vantaggi e Opportunità
L’ottenimento della Carta Blu offre numerosi benefici, sia per i lavoratori che per il contesto produttivo degli Stati membri:

  • il titolare di carta blu UE può:
    • avere accesso a un mercato del lavoro più ampio e diversificato;
    • lavorare, vivere e accedere a servizi sociali nei Paesi dell’UE;
    • essergli riconosciuto lo status di soggiornante di lungo periodo (anche ai familiari) in presenza degli specifici requisiti;
    • accedere al regime fiscale dei lavoratori impatriati;
  • Per le imprese dei Paesi ospitanti:
    • attrazione di talenti e competenze che alimentano l’innovazione e la competitività;
    • incremento della mobilità internazionale e della diversità culturale nel mondo del lavoro;
    • l’accesso a reti di professionisti di livello favorendo collaborazioni, trasferimenti di conoscenza e opportunità di crescita professionale;
  • Criticità e Sfide del Processo
    Nonostante i numerosi vantaggi, il percorso per ottenere la Carta Blu presenta ostacoli e problematiche legate spesso a barriere burocratiche dovute alla complessità delle normative, che variano da un Paese all’altro, ai tempi di attesa e all’incertezza delle procedure amministrative che possono essere lunghe e soggette a revisione, rendendo difficile la pianificazione a lungo termine. Nel caso di esperienza professionale personale la procedura è peraltro coincisa con la pandemia mondiale del Covid 19 che ha significato un notevole allungamento dei tempi di lavorazione. Ad ogni modo il candidato deve integrarsi in un nuovo contesto culturale e lavorativo, con potenziali barriere linguistiche e sociali.
    Pertanto, allo scopo di giungere in tempi ragionevoli e con esito positivo al termine del percorso per l’ottenimento della Carta Blu, è indispensabile dotarsi di grande pazienza e senso
    “istituzionale”, informandosi preventivamente, verificando con scrupolosa attenzione i requisiti specifici, consultando siti ufficiali, preparare la documentazione in modo accurato, pianificare i tempi considerando possibili ritardi burocratici e organizzare il percorso con margini di sicurezza.

Conclusione
La Carta Blu extra UE rappresenta dunque un’opportunità significativa per i “professionisti” stranieri che ambiscono a una carriera di successo in Europa e allo stesso tempo, un vantaggio che le imprese Europee possono sfruttare per ampliare il proprio raggio di azione in un contesto globale di competizione dei talenti.

*ODCEC Lucca

di Cinzia Brunazzo*

Professor Ichino, quale ruolo vede per i sindacati, nell’era dell’automazione spinta e dell’intelligenza artificiale?

Proporrei una distinzione tra il medio e il lungo termine. Di quest’ultimo vi chiedo di consentirmi di non parlare: stante il ritmo dell’innovazione tecnologica, nessuno può seriamente fare previsioni sul sistema delle relazioni industriali e di lavoro fra trenta o cinquant’anni. Se ci limitiamo a un discorso sul prossimo decennio o quindicennio, per quel che riguarda l’Unione Europea vedo una situazione di generale carenza di manodopera rispetto alla domanda espressa dal tessuto produttivo, a tutti i livelli professionali e in tutti i settori. Il compito principale del sindacato,
in questo contesto, è principalmente quello di assicurare a ogni persona che vive del proprio lavoro – soprattutto a quella più debole – la possibilità effettiva di “usare il mercato” agevolmente, dunque di fruire di tutti i servizi necessari per questo, dall’orientamento professionale a una formazione di cui sia capillarmente monitorata l’efficacia, all’assistenza e sostegno per la mobilità
geografica. È questo il modo in cui si rafforza il potere contrattuale della singola persona ed è il migliore servizio che si può fare ai lavoratori per garantire loro libertà, dignità e valorizzazione
anche economica del loro lavoro.

Qualcuno, immagino, le obietterà che questa è una visione molto individualistica del movimento sindacale, della difesa degli interessi dei lavoratori.

Ho detto che l’azione volta al rafforzamento della posizione nel mercato di ciascuna persona, e in particolare di chi è più debole, è ciò di cui c’è bisogno più urgente. Con questo non intendo sminuire l’importanza dell’azione che un sindacato al passo coi tempi deve svolgere sul piano collettivo.
A livello nazionale questa azione si concreta nella negoziazione e stipulazione dei contratti nazionali collettivi di settore, che – a mio modo di vedere – dovrebbero prevedere soltanto lo standard minimo applicabile di default, in assenza di un contratto stipulato a un livello più vicino al luogo di lavoro: dunque a livello regionale, provinciale o soprattutto aziendale. Ma siamo nell’era della globalizzazione, un processo che non può certo considerarsi superato: né Putin né Trump possono far più che rallentare, ma non certo arrestare il progressivo abbattimento delle barriere alla mobilità delle persone, dei beni, delle informazioni; e in questo nuovo contesto un sindacato al passo coi tempi ha anche una nuova funzione cruciale: assistere il collettivo dei lavoratori di un’azienda in crisi nella scelta del nuovo imprenditore tra i molti possibili candidati provenienti da qualsiasi parte del mondo.

Può spiegare meglio?

La globalizzazione ha un effetto sfavorevole per i lavoratori di un Paese economicamente sviluppato, perché li espone alla concorrenza di quelli dei Paesi più poveri. Ma questo effetto può essere compensato da quello favorevole ai lavoratori, consistente nel fatto che la stessa globalizzazione pone gli imprenditori di un Paese in concorrenza con quelli di tutto il resto del mondo non solo nel mercato dei beni e dei servizi, ma anche in quello del lavoro. Come mi sono proposto di mostrare nel libro L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020), i dipendenti di un’azienda in crisi si trovano assai frequentemente nella condizione di poter essere loro a selezionare il proprio nuovo datore di lavoro e “ingaggiarlo”.
In quella situazione – che si è verificata, per esempio, per i dipendenti di Alitalia nel 2008 e nel 2017, per quelli della Fiat nel 2010, per quelli dell’ex-Italsider di Taranto in questi ultimi anni, e
in diversi altri casi – un sindacato può svolgere il ruolo dell’“intelligenza collettiva” che consente ai lavoratori dell’azienda in crisi di valutare ciascuno dei possibili imprenditori, provenienti da qualsiasi parte del mondo, che siano interessati a rilevarla; è solo il sindacato-intelligenza collettiva che può valutare l’affidabilità di un imprenditore sul piano tecnico, finanziario e anche su quello etico, valutarne il piano industriale, e se la valutazione è positiva negoziare con l’interlocutore migliore la scommessa comune sulla nuova strategia imprenditoriale. Ma questo è un mestiere che
solo una parte minoritaria dei sindacati italiani considera proprio ed è in grado di svolgere.

Sta di fatto, però, che la contrattazione collettiva aziendale in Italia copre soltanto un terzo del totale della forza-lavoro nel settore privato.

È così. Per rilanciare la contrattazione di secondo livello sarebbe molto utile che tutti i contratti collettivi nazionali istituissero un premio di produzione determinato secondo una formula
elementare, suscettibile di applicarsi in qualsiasi impresa, ma destinata a essere riscritta dalla contrattazione aziendale secondo le esigenze e caratteristiche specifiche di ciascuna unità produttiva.

Come dovrebbe funzionare questo meccanismo?

Il contratto nazionale potrebbe prevedere un monte-premio, da distribuire ai dipendenti in proporzione alla loro paga-base, pari al 20 o al 30 per cento dell’aumento del margine operativo lordo registrato nell’ultimo anno rispetto a quello precedente, se aumento c’è stato. Il m.o.l. – che molti preferiscono chiamare EBITDA – è un dato molto grezzo, di cui però necessariamente dispone qualsiasi impresa, anche individuale. Il contratto nazionale stesso potrebbe prevedere esplicitamente che questa clausola si applichi solo in assenza di un contratto aziendale che disciplini diversamente la materia: così le imprese sarebbero incentivate ad attivare la contrattazione aziendale.
E il premio di produzione negoziato al livello aziendale dovrebbe godere di un trattamento fiscale di favore anche più generoso di quello già oggi in vigore.

Le associazioni imprenditoriali obietteranno che il meccanismo è troppo oneroso.

Non è così, dal momento che lo stesso contratto nazionale in cui viene inserita questa clausola terrà necessariamente conto dell’impatto del “premio di produzione di default” nel determinare la parte fissa della retribuzione, i c.d. “minimi tabellari”. Sarà comunque l’accordo tra le parti nazionali a decidere quanta parte del montesalari complessivo spostare dallo zoccolo fisso alla parte variabile. Ma questa operazione è comunque indispensabile se vogliamo tornare a incentivare l’aumento della produttività del lavoro – che in Italia ristagna ormai da tre decenni – e con esso l’aumento delle retribuzioni.

La sensibilità diffusa rivolta alla sicurezza dei lavoratori si esprime spesso con allarmi sociali rilevanti: quanto effettivamente il sistema sanzionatorio può ridurre l’incidenza degli infortuni sul lavoro?

A ogni infortunio grave sul lavoro, dunque quasi tutti i giorni, i media condannano, i sindacati protestano, le autorità promettono giri di vite nella disciplina antiinfortunistica e rafforzamento delle attività ispettive. Ma la misura più concretamente utile, già prevista dalla legge, è rimasta inattuata per otto anni, e poi è stata abrogata alla chetichella l’anno scorso nell’indifferenza generale. Salvo il giorno dopo ricominciare a stracciarsi le vesti contro la strage continua.

A quale misura si riferisce?

Alla riorganizzazione unitaria degli ispettorati del lavoro, attualmente ripartiti in quattro organici distinti e tra loro scollegati: quello del ministero, quello dell’Inps, quello dell’Inail e quello delle Aziende sanitarie locali. L’unificazione era stata disposta da uno dei decreti attuativi del Jobs Act, il n. 149 del 2015. Ma i sindacati di categoria si sono opposti strenuamente alla sua attuazione, per la tutela di interessi di bassissimo rilievo. E alla fine il governo li ha accontentati, con un minuscolo comma nascosto nell’articolo 31 del decreto legge n. 19/2024, che ha cancellato il decreto n. 149/2015. Nessuno ha fiatato, nessun giornale ne ha parlato.

Con la legge di iniziativa popolare approvata nei giorni scorsi dal Parlamento, si è aperto, uno spazio nuovo per la partecipazione dei lavoratori in azienda prevista dall’articolo 46 della Carta costituzionale; quale futuro prevede su questo terreno?

Questa legge ha un solo merito: quello di avere posto di nuovo il tema della partecipazione dei lavoratori nelle imprese al centro dell’agenda del sistema delle relazioni industriali in Italia. Cioè in un Paese che su questo terreno fa registrare un notevole ritardo rispetto al resto della UE. Però la nuova legge non fa altro che menzionare buone pratiche in questo campo, che potevano benissimo essere oggetto di contrattazione aziendale anche prima; non contiene né incentivi fiscali adeguati per la diffusione della partecipazione azionaria dei lavoratori, né le correzioni necessarie di alcuni ostacoli normativi che oggi frenano la partecipazione nelle società a governance duale.

Soltanto fumo e niente arrosto?

Non mi spingo a dire questo. Mi sembra, però, che per superare l’ostilità tradizionalmente dominante nel movimento sindacale italiano contro la partecipazione dei lavoratori in azienda occorrerebbe una riforma più incisiva e incentivi adeguati. Da noi è ancora troppo diffusa l’idea che l’imprenditore sia un soggetto socialmente pericoloso; in qualche caso può anche essere vero, ma dobbiamo tutti convincerci che non può esserci buon lavoro senza un buon imprenditore.
Così come non può esserci buona impresa senza buon lavoro. Che ci sia un conflitto di interessi tra le due parti sulla divisione dei frutti del lavoro comune è naturale; ma occorre superare l’ideologia dell’antagonismo necessario tra impresa e lavoro.

La parità di genere in Italia è ancora molto lontana. Ritiene che ci possano essere strumenti oltre a quelli in essere per agevolare questo traguardo?

Ne vedo uno solo: quello proposto dagli economisti del lavoro Alberto Alesina e mio fratello Andrea nel libro L’Italia fatta in casa (Mondadori, 2009) e ripreso nel disegno di legge n. 2102 presentato dal senatore Morando e da me nel 2010. L’idea è quella di una grande “azione positiva” volta a contrastare la “discriminazione sistemica” che tuttora penalizza il lavoro delle donne
nel nostro Paese, consistente in una detassazione selettiva dei redditi di lavoro autonomo e subordinato femminile: secondo i calcoli che facemmo in funzione della presentazione di quel disegno di legge, basterebbe ridurre del 25 per cento l’Irpef su questi redditi per determinare un forte incentivo alla redistribuzione dei compiti di cura familiare tra uomini e donne. Per la copertura finanziaria basterebbe un aumento di circa il 5 per cento dell’Irpef sui redditi di lavoro dei maschi, che produce tre quarti del gettito dell’Irpef. E forse basterebbe anche meno, poiché per un verso l’offerta di manodopera maschile è relativamente rigida: dunque non subirebbe una riduzione apprezzabile per effetto dell’aumento del prelievo fiscale; per altro verso, l’aumento della partecipazione delle donne alla forza-lavoro, dovuto alla maggiore elasticità della loro offerta di manodopera, genererebbe un aumento netto del gettito fiscale Irpef. Insomma, sarebbe un grande gioco a somma positiva.

*ODCEC Rimini

di Francesco Genna, Erika Pietrocola e Simona Gentile*

L’ATS Brianza ha attivato la Campagna informativa “Impariamo dagli errori” raccontando, sul sito Web aziendale, alcune dinamiche infortunistiche di casi indagati, con la speranza che l’informazione su questi eventi contribuisca a ridurre la possibilità del ripetersi ancora di infortuni con le stesse dinamiche.

La campagna “Impariamo dagli errori” è stata ideata per offrire alle imprese un “archivio” di esperienze e conoscenze relative alle dinamiche infortunistiche che si sono verificate nei vari settori di attività, con l’intento di fornire anche indicazioni utili per la prevenzione. L’obiettivo principale è quello di offrire delle schede come strumento di supporto e consultazione per la gestione della salute e sicurezza sul lavoro in azienda.

Le schede possono essere utilizzate durante le attività formative, dove è più efficace la visione e la discussione di casi concreti di infortuni che hanno coinvolto lavoratori con le stesse mansioni, consentendo al lavoratore di immedesimarsi più facilmente nella situazione descritta.

Il principio sul quale è basato tale progetto può sintetizzarsi con il motto “conoscere per prevenire”. Difatti, la conoscenza delle dinamiche incidentali può aumentare la consapevolezza di possibili situazioni di pericolo e rischio e supportare il datore di lavoro nell’adozione di misure di prevenzione e protezione e i lavoratori nel loro rispetto.

Tra gli obiettivi della campagna, vi è anche quello di esaminare eventi poco esplorati dal sistema di prevenzione: i near-miss, ovvero quelli eventi incidentali che non hanno avuto conseguenze lesive per le persone. Raccogliere, analizzare e condividere le informazioni sui near-miss rappresenta una opportunità di miglioramento e uno strumento per la prevenzione degli infortuni. È stato possibile accedere a tale fonte informativa solo grazie al diretto e prezioso contributo di alcune imprese, che hanno messo a disposizione del gruppo di lavoro le informazioni sugli incidenti accaduti nei luoghi di lavoro.

La Campagna è svolta in collaborazione con altri operatori Tecnici della Prevenzione di alcune Ats Lombarde, personale INAIL nazionale, Inail di Monza e con il coinvolgimento di alcune Associazioni datoriali dell’industria, dell’Edilizia e dell’Agricoltura del territorio di ATS Brianza.

Il modello di analisi utilizzato nella realizzazione delle schede d’infortunio è quello “multifattoriale a scambio di energia” del metodo Infor.Mo (ex Sbagliando s’impara) adottato dal sistema si sorveglianza nazionale degli infortuni mortali e gravi, https://www.inail.it/nsol-informo/analisi.do, che prevede l’identificazione dei fattori di rischio (i cosiddetti determinanti ed eventuali modulatori) che hanno portato al verificarsi dell’evento. Per determinante si intende ogni fattore che concorre a determinare un incidente, aumentandone la probabilità di accadimento. Il modulatore, invece è quel fattore ininfluente sulla probabilità di accadimento, ma è in grado di aggravare o attenuare il danno che ne consegue dall’evento.

Il metodo è stato implementato con la collaborazione dell’Inail, inserendovi una classe di fattori di rischio remoti denominati Criticità organizzative alla base dell’evento per analizzare anche le carenze nell’organizzazione aziendale e nel suo sistema di sicurezza.

Nella parte finale la scheda contiene anche la rappresentazione grafica degli elementi, utile per ricostruire la sequenza logico-cronologica della dinamica infortunistica.

Le schede di infortuno e di incidente pubblicate in questa campagna, evidenziano in primo luogo la multifattorialità di ogni evento. L’infortunio è considerato come il risultato di una sequenza di eventi, perturbazioni e variazioni che intervengono nello svolgimento normale dell’attività lavorativa. Le azioni poste in essere dall’individuo vengono messe in relazione con altri fattori quali le attrezzature e l’ambiente. L’applicazione di questo modello fa emergere la considerazione che la sequenza degli eventi coinvolge fattori più o meno prossimi all’infortunio, includendo anche i fattori che sono maggiormente distanti dall’infortunio e che spesso vengono dimenticati.

Di conseguenza, tale multifattorialità degli eventi impone strategie che prevedano misure di prevenzione e di protezione individuate su molteplici piani di azione; il che significa mettere concretamente in atto, in azienda, più misure di sicurezza (attrezzature sicure, procedure di lavoro corrette, informazione, formazione, addestramento, vigilanza, ecc.) a tutela dei lavoratori. (Fig. 2 – Classificazione dei fattori di rischio individuati negli infortuni analizzati).

Si riportano di seguito i risultati di uno studio di analisi condotto sulle schede prodotte dal 2018 (anno di nascita della Campagna).

Risultati della campagna

I dati seguenti derivano dall’analisi delle schede realizzate fino al mese di Febbraio 2025. Per i 144 casi esaminati sono stati individuati 711 fattori di rischio.

Dall’analisi è emerso che i fattori di rischio si suddividono quasi equamente tra determinanti dell’incidente e criticità organizzative che ne sono alla base. I modulatori invece, rappresentano una quota minore.

Il 44% dei fattori è rappresentato dalle criticità organizzative.  Tra i determinanti al primo posto vi è l’attività dell’infortunato con il 20%, seguita dalle problematiche connesse alle attrezzature di lavoro 17%, l’attività di terzi 8%, l’ambiente 5%, materiali 4%, e DPI 2%.

Nelle criticità organizzative, i processi più coinvolti negli errori sono:

  • Carente Valutazione del rischio (32%)
  • Mancanza di procedure di lavoro (18%)
  • Assenza o inefficace formazione (18%)
  • Mancata vigilanza (10%)
  • Mancata o errata progettazione (7%)
  • Mancato coordinamento (2%)
  • Assenza o carenza di manutenzione (3%)
  • Non corretta gestione degli appalti (2%)
  • Errata installazione (2%)
  • Errata costruzione (2%)

Secondo il modello, i fattori di rischio vengono classificati come stato quando si tratta di una condizione di rischio pregressa e permanente, o come processo quando si tratta di un’azione dinamica come ad esempio un comportamento errato del lavoratore o la rottura di una protezione.

Nell’analisi dei casi trattati, sono stati rilevati per il 52% fattori determinanti di processo e per il 48% fattori determinanti di stato.

Anche l’analisi di questi fattori risulta fondamentale per comprendere come implementare le misure di prevenzione. Gli stati possono essere affrontati prima dell’incidente, in quanto rappresentano situazioni di rischio preesistenti, evidenti e legate alle criticità. Per quanto riguarda i fattori denominati processi, che si riferiscono alle azioni compiute dall’infortunato o da terzi, pur essendo più difficili da controllare, è possibile intervenire attraverso percorsi formativi e programmi di addestramento.

Utilizzando i dati raccolti, è stato possibile analizzare anche altre variabili: comparti, luogo dell’infortunio, attrezzature coinvolte e attività infortunato.

Il settore metalmeccanico e quello delle costruzioni sono i più colpiti da infortuni gravi. Per contrastare il continuo verificarsi di infortuni mortali facilmente evitabili con le misure di prevenzione, Ats Brianza ha sviluppato un Piano di Prevenzione mirato “Primo non morire”, accessibile al seguente link Primo, non morire, con l’obiettivo di sensibilizzare le aziende e fornire strumenti di valutazione e formazione per affrontare le situazioni lavorative che, per frequenza e gravità, causano la maggior parte degli incidenti mortali anche nel nostro territorio.

Il grafico seguente riporta le percentuali relative al luogo di di accadimento dell’infortunio. Si evince
che il reparto aziendale è il luogo in cui si registra il maggior numero di infortuni, seguito dai magazzini
e piazzali.

Riguardo le attrezzature di lavoro o gli altri agenti materiali che hanno determinato l’infortunio, troviamo le macchine di sollevamento e trasporto (27%), seguite dalle macchine di produzione (24%).

L’ATS Brianza affianca questo progetto ai Piani Mirati di Prevenzione (https://www.ats-brianza.it/ it/approfondimenti-sui-rischi-lavorativi-specificipiani-mirati-di-prevenzione-faq-e-informazioni/23master-category/cat-servizio-imprese/2228-pianimirati-di-prevenzione.html), ulteriore strumento che promuove un approccio proattivo orientato al supporto e assistenza alle imprese.

La Campagna è visibile direttamente a questo link: https://www.ats-brianza.it/it/casi-infortuni.html o più semplicemente utilizzando un motore di ricerca indicando “Ats Brianza impariamo dagli errori”.

*ATS Brianza

di Dario Palumberi*

La parità di genere è riconosciuta a livello internazionale come un elemento chiave per lo sviluppo sostenibile. L’uguaglianza tra uomini e donne è infatti il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 dell’ONU, un programma globale che mira a promuovere il benessere sociale, economico e ambientale attraverso 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs).

Uno degli obiettivi fondamentali è quello di ridurre le disparità di genere, garantendo opportunità eque per tutte le persone e favorendo la crescita lavorativa, umana e sociale delle donne.

La presenza femminile nei vari ambiti della società non deve essere considerata solo in termini numerici, ma come un presupposto essenziale per il raggiungimento di traguardi chiave, tra cui la tutela dell’ambiente, la lotta alla povertà e la promozione della giustizia sociale.

Diversi studi confermano che l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro, in politica e nei ruoli decisionali ha un impatto positivo sulla crescita economica e sul miglioramento delle condizioni di vita. Tuttavia, nonostante i progressi, persistono disparità significative, come il divario retributivo e una minore presenza delle donne nei ruoli di leadership.

Sebbene le donne abbiano quasi raggiunto gli uomini in termini numerici nel mondo del lavoro, nelle professioni e in politica, la qualità della loro partecipazione continua a presentare differenze sostanziali. Questo si manifesta, da un lato, in una marcata disparità retributiva a parità di formazione e ruolo, e dall’altro, in una percezione culturale ancora arretrata, che non riconosce pienamente la presenza femminile nei luoghi decisionali come un elemento essenziale per il bene comune.

La Certificazione per la Parità di Genere: UNI/ PdR 125:2022

Per rispondere a queste sfide, la Prassi di Riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata dall’Ente Italiano di Normazione (UNI) il 16 marzo 2022, fornisce un quadro di riferimento per le organizzazioni che intendono adottare politiche concrete per la parità di genere.

La certificazione si inserisce nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e mira a misurare e migliorare le prestazioni aziendali in questo ambito.

La norma individua sei aree chiave per valutare il livello di maturità delle organizzazioni rispetto alla parità di genere:

  1. Cultura e strategia: analizza la presenza di un piano strategico e di politiche per la sensibilizzazione interna ed esterna.
  2. Governance: valuta il modello di leadership e la presenza femminile negli organi decisionali.
  3. Processi HR: esamina l’inclusività nelle assunzioni, nelle promozioni e nei percorsi di crescita professionale.
  4. Opportunità di crescita e inclusione: misura la percentuale di donne in ruoli di responsabilità.
  5. Equità remunerativa: monitora il divario salariale tra uomini e donne.
  6. Tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro: verifica l’adozione di politiche a supporto della genitorialità e del bilanciamento tra lavoro e vita privata.

Le Sfide e le Opportunità per le Aziende

L’attuazione di queste misure rappresenta una sfida, in particolare per le piccole e medie imprese, dove spesso mancano meccanismi strutturati di monitoraggio e rendicontazione. In particolare, tra le maggiori criticità nell’ambito degli Indicatori di Performance (KPI) proposti dalla Prassi, si annoverano:

Aumento della presenza femminile nei ruoli di leadership: molte organizzazioni presentano ancora una significativa disparità di genere nei livelli dirigenziali. L’indicatore più critico, soprattutto per aziende di piccole dimensioni, è rappresentato proprio dalla percentuale di donne presenti negli organi di controllo. Superare questo squilibrio richiede politiche di promozione trasparenti, programmi di mentorship e sviluppo della leadership femminile.

  • Implementazione di processi per valutare la percezione interna sulle pari opportunità: la cultura aziendale deve evolversi affinché la parità di genere venga percepita come un valore condiviso. Strumenti come sondaggi interni e focus group possono aiutare a identificare le aree di miglioramento e guidare le strategie di inclusione.
  • Garanzia di un accesso equo ai percorsi di carriera e formazione: molte donne incontrano barriere nell’accesso a opportunità di crescita professionale. Per colmare questo divario, le aziende dovrebbero promuovere programmi di formazione e sviluppo professionale accessibili a tutti i dipendenti, senza discriminazioni di genere.
  • Riduzione del divario retributivo, in particolare nelle realtà più piccole: il gender pay gap rimane un problema persistente. Per affrontarlo, è fondamentale adottare sistemi di valutazione trasparenti delle retribuzioni, basati su competenze e responsabilità, e migliorare i sistemi di welfare aziendale.
  • Maggiore condivisione delle responsabilità genitoriali tra uomini e donne: spesso il carico della cura familiare ricade principalmente sulle donne, con impatti negativi sulla loro carriera. Le aziende possono favorire un equilibrio tra vita lavorativa e privata implementando congedi parentali più equi, orari flessibili e supporti per la genitorialità.

Affrontare queste sfide non solo favorisce la parità di genere, ma porta anche benefici concreti alle aziende, migliorando il clima organizzativo, la produttività e la capacità di attrarre e trattenere talenti qualificati.

Verso un Futuro di Maggiore Equità

Per accelerare il progresso verso la parità di genere, è fondamentale che le aziende implementino politiche strutturali concrete e investano in misure che favoriscano un ambiente di lavoro equo e inclusivo. Tra le pratiche più efficaci rientrano:

  • Modelli di lavoro flessibili: L’introduzione di modalità di lavoro agile, come il telelavoro e gli orari flessibili, aiuta sia uomini che donne a gestire al meglio le responsabilità familiari senza compromettere la crescita professionale.
  • Congedi parentali equamente distribuiti: Incentivare la fruizione del congedo parentale da parte di entrambi i genitori contribuisce a riequilibrare il carico di cura familiare, riducendo l’impatto negativo sulla carriera delle donne.
  • Sostegno alla genitorialità: Le aziende possono offrire benefit come asili nido aziendali, contributi per l’assistenza all’infanzia o convenzioni con strutture per l’educazione prescolare, facilitando la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
  • Trasparenza salariale: Implementare audit retributivi regolari per eliminare il divario di genere nei salari, garantendo equità nelle retribuzioni a parità di competenze e responsabilità.
  • Formazione su diversità e inclusione: Sensibilizzare i dipendenti e i dirigenti attraverso programmi di formazione dedicati ai temi della parità di genere, del rispetto delle diversità e della prevenzione delle discriminazioni.

La parità di genere non è solo un obiettivo etico e sociale, ma una leva strategica per lo sviluppo sostenibile e la competitività aziendale. Investire in politiche di inclusione e pari opportunità non solo migliora il benessere dei lavoratori, ma favorisce anche un ambiente di lavoro più produttivo e innovativo.

L’adozione di misure strutturate, come la promozione della leadership femminile, la riduzione del divario salariale e l’implementazione di modelli di lavoro flessibili, è essenziale per abbattere le barriere che ancora limitano la piena partecipazione delle donne al mondo del lavoro.

Solo attraverso un’azione concreta e continuativa sarà possibile costruire un futuro in cui la parità di genere sia realmente raggiunta e valorizzata e costruire un mondo del lavoro più equo e sostenibile per tutti.

*Ingegnere in Bologna

di Paolo Soro*

Di seguito, le risposte ai quesiti su fattispecie “dubbie” afferenti sia al vecchio che al nuovo regime impatriati.
1) Ulteriore quinquennio agevolabile: chi esercita l’opzione a pagamento e chi accede gratuitamente?
L’Agenzia ha precisato che risultano esclusi dalla possibilità di esercitare l’eventuale opzione:
– Gli sportivi professionisti
– Coloro che si sono trasferiti in Italia a partire dal 30 aprile 2019
– I cittadini italiani, rientrati entro il 29 aprile 2019, non iscritti all’AIRE
– I cittadini extra-comunitari
Preliminarmente, con riferimento ai cittadini extra-UE, si ritiene che il parere espresso dall’Agenzia non sia condivisibile e possa essere legittimamente contestato, poiché, laddove è presente una convenzione bilaterale valida che prevede il diritto di non discriminazione, essendo tale fonte normativa prevalente su quella domestica, si deve necessariamente applicare la prima e non la seconda.
Invero, come noto, in base alla gerarchia delle leggi, la norma internazionale convenzionale prevale sempre sulle leggi dello Stato (Costituzione, art. 117; DPR 600/1973, art. 75). Orbene, il modello
convenzionale OCSE per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e prevenire le evasioni fiscali, stabilisce:
– Art. 1: Il presente Accordo si applica alle persone che sono residenti di uno o di entrambi gli Stati
contraenti.
– Art. 2: Il presente Accordo si applica alle imposte sul reddito prelevate per conto di ciascuno degli Stati contraenti, o delle sue suddivisioni politiche o amministrative o dei suoi enti locali, qualunque sia il sistema di prelevamento.
Sono considerate imposte sul reddito tutte le imposte prelevate sul reddito complessivo o su elementi del reddito, comprese le imposte sull’ammontare complessivo degli stipendi o dei salari corrisposti dalle imprese. Le imposte attuali cui si applica l’Accordo sono in particolare, per quanto concerne l’Italia: l’imposta sul reddito delle persone fisiche…
Il presente Accordo si applicherà anche alle imposte di natura identica o sostanzialmente analoga che verranno istituite dopo la data della firma dell’Accordo, in aggiunta o in sostituzione delle imposte attuali.

– ART. 24 (NON DISCRIMINAZIONE): I nazionali di uno Stato contraente, non sono assoggettati nell’altro Stato contraente ad alcuna imposizione e obbligo a essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle imposte previste dall’articolo 2 del
presente Accordo.

In definitiva, l’art. 24 della Convenzione vieta che siano negati ai lavoratori di cittadinanza
– nella specie – extra-UE, gli stessi vantaggi fiscali concessi agli altri lavoratori italiani. Il citato divieto di non discriminazione è inoltre coerente con quanto previsto, sul piano fiscale e costituzionale dall’Ordinamento dello Stato italiano. Alla luce di quanto precede, dunque, si ritiene non condivisibile e privo di valenza normativa il parere espresso in proposito dall’Agenzia delle entrate.
Con riferimento, poi, ai periodi d’imposta interessati, si rammenta quanto segue:
Fino al 29 aprile 2019 = Opzione: 10% (con un figlio minorenne / immobile) 5% (con 3 figli minorenni)
– Dal 30 aprile 2019 = Richiesta ordinaria gratuita
Prospetto esemplificativo:

Giova ricordare che, se la residenza fiscale è stata acquisita tra il 30/04/2019 e il 02/07/2019, il primo
periodo d’imposta italiano è comunque il 2019 e il quinquennio iniziale scade il 31/12/2023.
Si ricorda altresì che l’opzione a pagamento va esercitata tassativamente a partire dal 1° gennaio ed entro il 30 giugno del primo periodo d’imposta relativo all’ulteriore quinquennio, a condizione che sussistano i requisiti; e che, a detto ultimo proposito, l’acquisto dell’immobile deve essere completamente definito entro diciotto mesi dalla data di effettuazione del versamento (opzione).

2) Su quale reddito occorre calcolare la percentuale 5%/10% da versare?
La norma parla:
“…Dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia OGGETTO DELL’AGEVOLAZIONE”; non fa riferimento ai “redditi agevolati”.
Pertanto, l’imposta sostitutiva (10% / 5%) va calcolata sul reddito prodotto al lordo della quota di esenzione stabilita dal regime; non al netto.

3) Immobile: è possibile entrarne in possesso a seguito di donazione?
No, la norma dice che l’unità immobiliare può essere acquistata direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal convivente o dai figli, anche in comproprietà. L’uso del termine “acquistare”, a parere dell’Agenzia delle entrate, porta a escludere che l’immobile possa essere ricevuto in donazione o sia stato ereditato.
Ovviamente, nulla vieta di vendere tale immobile e acquistarne un altro, ovvero, mantenere quello ricevuto a titolo gratuito e acquistarne un altro a titolo oneroso.
Analogamente, l’impatriato potrebbe essere già proprietario di altro immobile nel territorio dello Stato, ma, per avere le agevolazioni concernenti l’ulteriore quinquennio dovrà acquistare a titolo oneroso un’altra unità immobiliare di tipo residenziale nel periodo richiesto, eventualmente anche previa cessione dell’immobile precedentemente acquistato e non valido agli effetti del soddisfacimento dei requisiti richiesti dalla legge. A tal proposito, limitarsi solo a procedere a una ristrutturazione straordinaria (anche particolarmente radicale, con variazione catastale) dell’immobile precedentemente acquisito, non appare sufficiente.

4) Immobile: si può venderlo prima della scadenza dell’ulteriore quinquennio?
Sì, ma si perdono le agevolazioni a partire dal periodo d’imposta in cui è stato venduto, salvo che l’immobile non sia stato venduto per acquistarne un altro in sostituzione che presenti gli stessi requisiti. Restano salve le agevolazioni precedentemente applicate nei periodi d’imposta nei quali l’immobile esisteva.
5) Immobile: co-intestazione al 50% a due diversi impatriati; si rispettano i requisiti per chiedere l’agevolazione legata all’ulteriore quinquennio da parte di entrambi?
Sì, l’unità immobiliare può essere acquistata direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal
convivente o dai figli, anche in comproprietà. Risulta, pertanto, irrilevante che il comproprietario sia
anch’esso un impatriato, tenuto conto che nessuna preclusione è indicata dalla norma, né, tanto meno, può essere da questa dedotta. Ovviamente, entrambi i coniugi dovranno risultare residenti all’anagrafe del Comune in cui è situato l’immobile (e, dunque, anche nel medesimo stato di famiglia), nonché entrambi pieni proprietari dell’immobile (ossia, il rispettivo 50% deve essere detenuto a titolo di proprietà – non usufrutto o altro).

6) Immobile: il requisito della “comproprietà” vale anche per conviventi dello stesso sesso? Quali documenti occorrono nel caso?
Sì, la norma parla di “convivente” senza escludere le persone dello stesso sesso. Quanto ai documenti,
occorrono quei certificati di regola rilasciati dal Comune che attestano appunto la convivenza di fatto nell’immobile acquistato in comproprietà (purché piena proprietà) da parte di entrambi i soggetti.
In genere, si tratta della dichiarazione per la costituzione di una convivenza di fatto, che può essere effettuata da due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, coabitanti e iscritte sul medesimo stato di famiglia, nonché ovviamente entrambe residenti presso il Comune al quale viene presentata la dichiarazione.

7) Immobile: posso tenere la nuda proprietà e dare l’usufrutto a mia moglie?
No. L’immobile può essere acquistato in comproprietà col coniuge, ma il diritto acquisito deve comunque essere quello della piena proprietà (è irrilevante che i diritti siano stati “spartiti” con il coniuge convivente). Il requisito relativo alla proprietà dell’unità immobiliare non risulta soddisfatto se l’acquisto riguarda la sola nuda proprietà o il solo diritto di usufrutto; anche la mera sottoscrizione di un preliminare di compravendita non è sufficiente.

8) È possibile accedere al regime impatriati per lavoratori in smart working di società estera?
Sì! Rileva il luogo materiale dove viene fisicamente svolta l’attività lavorativa e non la cittadinanza
di datore e/o lavoratore. Piuttosto, attenzione ai lavoratori (cittadini stranieri) che prestano attività in Italia per oltre 183 giorni, tenuto conto della nuova normativa relativa alla residenza fiscale, che prevede anche il requisito della sola presenza fisica, al fine di accertare la residenza fiscale in Italia.

9) In caso di seconda o ulteriore assunzione, a quali datori di lavoro va presentata la domanda di agevolazione prevista dal regime impatriati?
La richiesta è presentata sempre e solo all’attuale datore di lavoro, anche in caso di seconda o ulteriore assunzione, rispetto a quella per cui il lavoratore è rientrato.

10) Nel caso in cui il dipendente presenti la domanda in corso d’anno, ma le agevolazioni spettino per tutto il periodo d’imposta a partire dal 1° gennaio, cosa succede?
Il datore di lavoro deve applicare il beneficio dal periodo di paga successivo alla richiesta e, in sede di conguaglio, dalla data dell’assunzione. Se il programma non consente di conguagliare a fine anno il differente imponibile sul quale sono state inizialmente applicate le ritenute, il lavoratore impatriato può comunque auto-calcolare le ritenute nella misura corretta, indicando nella propria dichiarazione annuale, per la parte non calcolata correttamente, i redditi percepiti già nella misura ridotta (ossia, al netto dell’esenzione prevista dalla legge). A tal fine, le istruzioni di accompagnamento al modello redditi persone fisiche prevedono dei codici specifici da indicare nell’apposita casella “Casi particolari”.
Lo stesso comportamento può essere adottato pure nel caso in cui il datore di lavoro non abbia
dato positivo riscontro alla domanda presentata dal dipendente e abbia deciso di calcolare le ritenute anche sulla parte esente del reddito.
Da notare che la norma in realtà non prevede specifiche sanzioni in capo a tale datore di lavoro.

11) Come cambia la percentuale di esenzione prevista per l’ulteriore quinquennio, nel caso in cui venga richiesta dai lavoratori del Mezzogiorno?
Non cambia. Con la vecchia normativa, l’esenzione relativa al quinquennio iniziale è pari al 90% per i
lavoratori del Mezzogiorno e al 70% per gli altri.
Nel caso in cui spetti l’agevolazione per l’ulteriore quinquennio a seguito di immobile acquistato o figlio minorenne a carico, la quota di esenzione è comunque pari al 50% per tutti. Nel caso in cui spetti l’agevolazione per l’ulteriore quinquennio a seguito di tre figli minorenni a carico, la quota di esenzione è pari al 90% per tutti.
Si ricorda che:
– Con riguardo all’immobile, i lavoratori devono diventare proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al
trasferimento
– Con riguardo al/ai figlio/i, il requisito deve essere verificato alla data in cui si esercita l’opzione/richiesta
Viceversa, con la nuova normativa, il reddito esente è pari (per tutti) al 50% e diventa pari (per tutti) al 60% se si ha almeno un figlio minorenne a carico residente (o comunque a partire dal momento in cui si presenta tale requisito nel corso del quinquennio). L’ulteriore periodo eventuale di esenzione è di tre anni ed è pari (per tutti) al 50%, ma solo, limitatamente ai soggetti che trasferiscono la propria residenza
anagrafica nell’anno 2024, nel caso in cui siano divenuti proprietari (da intendersi come piena
proprietà del 100%), entro la data del 31 dicembre 2023 e, comunque, nei dodici mesi precedenti
al trasferimento, di un’unità immobiliare di tipo residenziale adibita ad abitazione principale in Italia.

12) Qual è il reddito imponibile agli effetti Inps?
Al momento, resta ancora un problema costituzionale di ingiustificata disparità: nessun valido documento di prassi è stato emanato al riguardo.
In particolare, per quel che concerne il reddito d’impresa del vecchio regime (pacificamente applicabile anche al lavoro autonomo sia del vecchio che del nuovo regime), la circolare INPS numero 102 del 12/06/2003 (successivamente sempre richiamata e confermata), precisa che:
I contributi previdenziali sono calcolati sulla totalità dei redditi di impresa dichiarati ai fini IRPEF, prodotti nello stesso anno al quale il contributo si riferisce. In ordine alla concreta individuazione dell’ammontare del reddito di impresa da assoggettare all’imposizione dei contributi previdenziali si fa
presente che deve essere preso in considerazione il totale dei redditi di impresa, così come dichiarato ai
fini delle imposte sui redditi.

Da quanto qui evidenziato, ne consegue dunque che gli impatriati, i quali producono redditi di lavoro autonomo e di impresa, beneficiano altresì di un obbligo contributivo in misura (ridotta) direttamente proporzionale al reddito effettivamente dichiarato, oltre ovviamente alle minori imposte da pagare.
Tale situazione, peraltro, non si verifica in maniera analoga nelle fattispecie concernenti gli impatriati che percepiscono redditi di lavoro dipendente e assimilato. Tenuto infatti conto di come è strutturata la busta paga, in assenza di specifiche diverse indicazioni diramate dall’INPS, le conseguenze pratiche sono che:
• Il reddito imponibile ai fini tributari (ritenute) è pari alla sola quota parte stabilita dal Regime
• L’imponibile ai fini previdenziali (contributi) è il reddito complessivo “al lordo” dall’esenzione
reddituale prevista dal Regime

Ma, attenzione, quanto visto sopra per l’INPS non si applica necessariamente ai professionisti che hanno una specifica cassa di previdenza come Avvocati, Commercialisti, Notai, Medici, etc. Per ogni cassa esiste un regolamento specifico e le regole possono cambiare dall’una all’altra. Si consiglia pertanto di consultare il regolamento della propria cassa di appartenenza.
Esempio, le istruzioni di compilazione diramate dalla CNPADC, riportano:
Per “Reddito netto professionale” si intende quello definito dal vigente art. 53, comma 1, del D.P.R.
917/86, relativo all’esercizio dell’attività di Dottore.

Ciò significa che noi iscritti alla CNPADC, se interessati dall’applicazione del regime, dovremo indicare il reddito prodotto al lordo dell’eventuale esenzione stabilita per gli impatriati.

13) Quale regime speciale di favore si può/deve applicare nel caso si svolga contemporaneamente attività di ricerca come dipendente e attività di lavoro autonomo?
L’Agenzia delle entrate risponde che i diversi regimi agevolativi previsti per i contribuenti che rientrano
in Italia sono fruibili contemporaneamente dallo stesso soggetto, relativamente al medesimo periodo d’imposta, nel rispetto di tutti i requisiti previsti dalle relative disposizioni. Pertanto, ad esempio, un contribuente che al rientro in Italia svolge un’attività di ricerca ed esercita anche un’attività di lavoro autonomo potrà, nel rispetto di ogni altra condizione prevista dalla normativa, applicare l’articolo 44 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 (rientro dei cervelli), ai redditi prodotti in Italia per l’attività di ricerca; e l’articolo 5 del decreto legislativo 27 dicembre 2023, n. 209 (impatriati), al reddito di lavoro autonomo prodotto in Italia.

14) La nuova normativa richiede il possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione. Quali sono e cosa s’intende in pratica?
Secondo l’Agenzia delle entrate, sono «altamente qualificati/specializzati» i lavoratori alternativamente in possesso:
– Del titolo di istruzione superiore di livello terziario rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale o di una qualificazione professionale di livello post secondario di durata almeno triennale o corrispondente almeno al livello 6 del Quadro nazionale delle qualificazioni;
– Dei requisiti previsti dal decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 206, limitatamente all’esercizio di professioni regolamentate;
– Di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o nell’offerta vincolante;
– Di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu UE, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione.

15) È vero che è cambiata la norma relativamente all’obbligo del “collegamento funzionale” tra la data dell’impatrio e quella dell’inizio del lavoro?
In realtà, la norma non è cambiata (nulla di specifico era previsto prima e nulla è previsto ora), ma è – abbastanza inspiegabilmente, ma piacevolmente – cambiata l’interpretazione diramata negli ultimi documenti di prassi dall’Agenzia delle entrate, seppure con riferimento solo ai nuovi impatriati (altra cosa bizzarra). Nello specifico, con l’interpello 66/2025, l’Agenzia delle entrate ha precisato che:
Ai fini dell’applicazione del nuovo regime, non è più necessario verificare la sussistenza di un collegamento ‘’funzionale’’ tra il trasferimento della residenza fiscale in Italia e l’inizio di un’attività
lavorativa dalla quale derivi un reddito agevolabile, prodotto in Italia, diversamente da quanto chiarito con riferimento al previgente ‘’regime speciale per lavoratori impatriati’’.

Non è necessario, dunque, che al rientro in Italia sussistano i requisiti previsti dalla norma, potendo
gli stessi maturare anche successivamente.

In tal caso, il contribuente potrà applicare il nuovo regime al ricorrere dei predetti requisiti per i residui periodi d’imposta di fruizione dell’agevolazione, che si applica per ciascun periodo d’imposta in cui i requisiti sussistono.

Non capiamo in base a quale norma di legge sia giustificato questo cambio di rotta, ma ne prendiamo atto tutti, molto favorevolmente.

16) È possibile cambiare regime di favore all’interno del quinquennio, esempio: da forfettario a impatriato?

Secondo quanto indicato in precedenza dall’Agenzia delle entrate, perlomeno, con riferimento alla vecchia normativa, il contribuente che rientra in Italia e sceglie un regime, non potrà più cambiare tale scelta.

Tale interpretazione, francamente, lascia basiti, sia perché è assolutamente consentito dalla normativa (e ci mancherebbe pure altro) variare, salvo eventuale periodo di opzione bloccato (si ricorda che il regime forfettario è tale per natura), la scelta del regime contabile/ fiscale; sia perché ciò appare nettamente in contrasto con quanto inizialmente affermato dalla stessa Agenzia delle entrate la quale aveva ampiamente chiarito che:

Un lavoratore autonomo che ha trasferito la residenza fiscale in Italia nel periodo d’imposta 2017, se non ha dato evidenza dell’agevolazione nella relativa dichiarazione dei redditi e in quella concernente il periodo di imposta successivo (2018), i cui termini sono scaduti, non può fruire dell’agevolazione per dette annualità.

Diversamente, con riferimento ai periodi d’imposta dal 2019 al 2021, può fruire dell’agevolazione dandone evidenza nelle relative dichiarazioni dei redditi.

In sostanza, perderà quella/e annualità specifiche che sono carenti degli adempimenti richiesti, ma non gli è vietato di sfruttare quelle eventuali annualità restanti all’interno del quinquennio.

Detto ciò, magari così come è inspiegabilmente cambiata l’interpretazione relativa al c.d. “collegamento funzionale”, per analogia, con la nuova normativa cambierà pure l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate collegata alla specifica fattispecie in esame. Invero, se teniamo conto di quanto affermato prima, sembrerebbe parimenti da rivedere anche il divieto prima espresso dall’Agenzia delle entrate sul cambio regime nel quinquennio:

Il contribuente potrà applicare il nuovo regime al ricorrere dei predetti requisiti per i residui periodi d’imposta di fruizione dell’agevolazione, che si applica per ciascun periodo d’imposta in cui i requisiti sussistono.

Però, al momento, non si hanno elementi tali da poterlo affermare con certezza.

17) Sono mutate le regole per i contribuenti che impatriano al termine di distacco all’estero?

 Sì! Con il vecchio regime, non spetta il beneficio fiscale nell’ipotesi di distacco all’estero con successivo rientro, in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro (vincolo del c.d. “rientro in continuità di contratto”).

Viceversa, la novella normativa stabilisce delle regole completamente diverse in proposito, limitandosi solo a vietare le fattispecie che non rientrano nei nuovi parametri minimi di permanenza all’estero; che non sono più gli ordinari tre periodi d’imposta, ma che diventano:

  • Sei periodi d’imposta, se il lavoratore non è stato in precedenza impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo

Sette periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, è stato impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo.

18) Usufruendo del regime speciale per docenti e ricercatori, qual è la porzione di reddito da tenere conto al fine di poter essere considerati fiscalmente a carico del proprio coniuge?

Anche in questo caso, stranamente ma piacevolmente, l’Agenzia delle entrate risponde che:

La norma non prevede che la quota esclusa dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo vada aggiunta, ai fini della verifica del limite reddituale indicato dall’art. 12 del TUIR, al reddito complessivo.

Pertanto, in assenza di una specifica disposizione, la quota di reddito esente da imposizione, non concorrendo alla formazione della base imponibile, non rileva ai fini della determinazione del reddito complessivo del familiare.

Ciò premesso, qualora il reddito complessivo determinato come sopra indicato e assunto al netto della quota esente da imposizione, sia non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili, si potrà essere considerati fiscalmente a carico del proprio coniuge, con conseguente riconoscimento in capo a quest’ultimo delle detrazioni di cui all’articolo 12, del TUIR, anche se il reddito complessivo totale senza esenzione è maggiore.

19) Vi sono limitazioni nel nuovo regime impatriati relativamente ai cittadini stranieri che impatriano in Italia o a quelli italiani che non hanno mai avuto residenza fiscale italiana?

No, in linea di massima, possono accedere al regime (previa verifica degli altri ordinari requisiti) sia i cittadini italiani che quelli stranieri; nonché, più in generale, anche coloro che non hanno mai avuto in precedenza la residenza fiscale in Italia.

20) L’art. 16, co. 3-bis, d.lgs. 147/2015, aggiunto dal Decreto Legge del 30/04/2019 n. 34, conv. Legge 28 giugno 2019 n. 58, prevedeva che: Le disposizioni del presente articolo si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta anche nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento. Successivamente, con le modifiche apportate dalla Finanziaria, il decreto crescita ha previsto l’aggiunta: “…Ovvero ne diviene proprietario entro diciotto mesi dalla data di esercizio dell’opzione.” Qual è esattamente il termine ultimo da prendere in considerazione per l’eventuale acquisizione dell’immobile, onde poter usufruire dell’ulteriore quinquennio di agevolazioni?

Attenzione a non fare confusione; in realtà si tratta di due disposizioni completamente differenti: una relativa al termine – per così dire – “iniziale”, e una attinente a quello “finale”.

Nello specifico, il Decreto Crescita è stato oggetto di modifiche in sede di approvazione della Legge Finanziaria (Legge 30 dicembre 2020 n. 178, art. 50, co. 1). Detta normativa, senza apportare alcuna variazione al comma 3-bis, art. 16 (così come aggiunto in precedenza), ha previsto, tra gli altri, il comma 2-bis che ha stabilito le disposizioni da seguire in caso di opzione per l’ulteriore quinquennio da parte dei soggetti meglio individuati nel precedente QUESITO 1.

Orbene, i “diciotto mesi” concernono il caso relativo all’eventuale esercizio dell’opzione per l’ulteriore quinquennio e sono stabiliti dalla Finanziaria con riferimento ai soggetti che intendano versare l’imposta sostitutiva (10% / 5%), entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione. Pertanto, in tali fattispecie, il termine ultimo possibile entro cui i contribuenti in questione devono essere diventati proprietari dell’immobile diviene il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione.

In definitiva, abbiamo:

Comma 2-bis aggiunto dalla Finanziaria:

“I soggetti, diversi da quelli indicati nel comma 2, che siano stati iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero o che siano cittadini di Stati membri dell’Unione europea, che hanno già trasferito la residenza prima dell’anno 2020 e che alla data del 31 dicembre 2019 risultano beneficiari del regime previsto dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, possono optare per l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1, lettera c), del presente articolo, previo versamento di:

a) un importo pari al 10% dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia oggetto dell’agevolazione di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione, se il soggetto al momento dell’esercizio dell’opzione ha almeno un figlio minorenne, anche in affido preadottivo, o è diventato proprietario di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento, OVVERO NE DIVIENE PROPRIETARIO ENTRO DICIOTTO MESI DALLA DATA DI ESERCIZIO DELL’OPZIONE DI CUI AL PRESENTE COMMA, pena la restituzione del beneficio addizionale fruito senza l’applicazione di sanzioni…” .

Comma 3-bis introdotto col Decreto Crescita:

“Le disposizioni del presente articolo si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia,
successivamente al trasferimento in Italia O NEI DODICI MESI PRECEDENTI AL TRASFERIMENTO”.

*ODCEC Roma

di Vincenzo Ferrante*

1. Il disegno di legge e il provvedimento alla fine approvato.
La legge n. 203 del 13 dicembre 2024 trova origine nel d.d.l. 1532, presentato alla Camera con il titolo di “collegato” lavoro ed è stata approvata, dopo le iniziali consultazioni con le parti sociali, in tempi rapidissimi, dopo però una lunga pausa che, ad un certo punto, è sembrata registrare una vera e propria
empasse. Non è un caso che, alla fine, alcune delle norme più importanti siano state stralciate e che il
titolo poi attribuito al provvedimento sia piuttosto anonimo (“Disposizioni in materia di lavoro”).
Infatti, la Legge si sarebbe dovuta aprire con una previsione che, ove fosse stata approvata, avrebbe
riscosso il sicuro consenso delle organizzazioni sindacali, poiché nell’ambito del lavoro agricolo sarebbero state messe in comune una serie di informazioni che le autorità di vigilanza già ricevono in
forza di previsioni in vigore, in materia di previdenza, ovvero ai fini del calcolo dei redditi fondiari o della
determinazione della misura spettante degli aiuti europei.
In questo modo si prevedeva di creare un “sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura”,
quale “strumento di condivisione delle informazioni tra le amministrazioni statali e le regioni, anche ai
fini del contrasto del lavoro sommerso in generale (si deve segnalare che la norma, in forma diversa, ha
comunque trovato spazio nella legge 20 dicembre 2024, n. 199).
Al momento dell’approvazione finale è venuto meno anche l’ art. 16 del disegno di legge, che, ai fini dell’accertamento dei crediti contributivi INPS, autorizzava l’utilizzo “di elementi tratti anche dalla consultazione di banche di dati dell’Istituto medesimo o di altre pubbliche amministrazioni” nonché la “comparazione dei relativi dati”, al fine di far emergere “basi imponibili non dichiarate o la fruizione di benefìci contributivi, esenzioni o agevolazioni … in tutto o in parte non dovuti”, prevedendo poi una ordinata sequenza di atti, diretti ad instaurare un confronto con l’impresa debitrice, salvo stabilire, ove gli “inviti” rimanessero senza pratico effetto, la “notifica un avviso di addebito», entro “il 31 dicembre dell’anno successivo alla formazione dell’avviso di accertamento”.
Le 34 norme che rimangono, hanno introdotto, in ogni caso, novità praticamente riguardo ogni aspetto della disciplina del rapporto di lavoro e della previdenza INPS ed INAIL, anche se spesso si tratta di modifiche che si muovono sul piano dell’organizzazione del Ministero, venendosi a collocare in un’area più vicina alla Prassi che alla Norma di Legge, tanto che in alcuni casi, come per il disposto dell’art.2, si provvede direttamente a modificare una norma regolamentare, seppur emanata con D.P.R..
Tralasciando, quindi, tutte le altre pur importanti disposizioni (ma si veda il paragrafo 5), qui di seguito
ci si concentrerà su quelle che più direttamente si rivolgono alla quotidiana gestione del rapporto di
lavoro, cioé sulle novità introdotte in tema di ricorso al lavoro somministrato (art. 10), di periodo di prova nei rapporti a termine (art.13) e di dimissioni tacite del lavoratore (art. 19).

2. Abrogazione delle limitazioni in tema di lavoro somministrato a tempo indeterminato.
La Legge 203/2024, con l’art. 10, interviene sulla disciplina delle soglie di ammissibilità del lavoro
somministrato, in particolare modificando le soglie entro le quali, questo è ammesso a mente del D.Lgs.
81/2015. La formulazione della norma risultante dalle novità introdotte nel 2024 è quanto mai infelice,
poiché non si è voluto, né riscrivere il comma oggetto di intervento normativo, né cancellare il principio
generale, che si continua ad enunziare in esordio ad esso, preferendo introdurre nel corpo delle previsioni un’eccezione, che finisce per rovesciare la regola che apre l’enunziato normativo.
Infatti, anche dopo le modifiche ora introdotte, l’art. 31, comma 1 del citato D.Lgs.81/2015, esordisce affermando che «il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore» al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto di fornitura. Si tratta di una norma in certa misura priva di una precisa ratio, posto che, a tacer d’altro, non sussiste analogo limite qualora si dovesse fare ricorso a forme di appalto.
A questo primo limite, al comma 2 dello stesso art. 31, se ne affianca un altro: vengono infatti equiparati
i lavoratori assunti a termine ai somministrati a tempo determinato, prevedendo un limite percentuale del 30% da riferirsi ai lavoratori in forza in pianta stabile presso l’impresa utilizzatrice. In relazione a quest’ultima regola, per effetto di vari provvedimenti di legge successivi al 2015, si sono registrate varie eccezioni alla regola ora enunziata, che riguardano gli apprendisti, i lavoratori collocati “in mobilità” ai sensi dell’art. 8 L. 223/1991, i soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali ed i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, secondo quanto stabilito dalla normativa.
Il legislatore del 2024, integrando l’elenco delle eccezioni, aggiunge ora che la regola d’esordio non vige altresì per quanti siano stati “assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Appare evidente come la mancata riscrittura della norma dia così luogo ad un vero e proprio cortocircuito logico, posto che in caso di lavoratori somministrati a tempo determinato, ma assunti dall’agenzia di somministrazione a tempo indeterminato, tale fattispecie sia “in ogni caso esente da limiti quantitativi”, in piena contraddizione con l’enunziato che apre la norma e che recita che “il numero dei lavoratori [in staff leasing], non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore”.
A tali nuove previsioni si collega il venir meno dei limiti già introdotti per la medesima ipotesi (cosicché
sono abrogati i periodi quinto e sesto del comma 1, che peraltro avrebbero comunque perduto di efficacia
sotto la data del 30.6.2015 e che anticipavano la regola ora generalizzata).
La norma si completa con l’introduzione di un’ulteriore eccezione e cioè del mancato operare dei limiti di durata in tema di lavoro a termine (art. 19 D.Lgs 81/2015) in caso di assunzioni “di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4 e 99 dell’articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione Europea, del 17 giugno 2014, come individuati con il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali previsto dall’art. 31, comma 2, del presente decreto» (art. 34 D.Lgs. 81/2015, come modificato dall’art. 10 L. 203/2024).
La norma non dice molto di più ed amplissimo, quindi, è il rinvio alla fonte secondaria, che dovrà farsi carico di spiegare in che modo un trattamento deteriore così esteso possa risultare compatibile con il principio di parità di trattamento previsto per i lavoratori a termine, anche sulla scorta delle risalenti pronunzie della Corte di Giustizia che ebbero modo in passato di valutare la legittimità di formule analoghe. esprimendosi nel senso che il principio di parità deve prevalere, onde evitare aree di minor tutela non adeguatamente giustificata.

3. Le modifiche sulla clausola di prova nei contratti a termine.
Si tratta di una delle norme che ha attirato fin dai lavori parlamentari l’attenzione dei commentatori.
L’antefatto è noto e può così riassumersi: all’atto del recepimento della direttiva in tema di “trasparenza”, è stato introdotto un limite massimo per la durata della prova non solo per il lavoro a tempo indeterminato (come già la legge 604/66, nell’ambito della disciplina del recesso), ma anche per i contratti a termine.
Nella formulazione dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. 27 giugno 2022, n. 104, non è però ravvisabile la possibilità di applicare il principio del c.d. pro rata, apparendo la norma inidonea a produrre un comando univoco.
Il legislatore del 2024 volendo sanare questo difetto afferma ora che: “fatte salve le disposizioni più
favorevoli previste dalla Contrattazione Collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno
di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario, a partire dalla data di inizio del rapporto
di lavoro”.
Nella Norma è poi aggiunta una “sibillina” previsione, in forza della quale “in ogni caso la durata del
periodo di prova non può essere… superiore a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”, dimostrando così di avere un grado di familiarità con le scienze esatte non inferiore a quello dimostrato dal legislatore del 2022, posto che la proporzione enunziata conduce ad una durata di 26 giorni per un contratto di durata annuale, di modo che il termine di 30 rischia di apparire fuori contesto.
In disparte dall’ovvia considerazione che il legislatore potrebbe formulare le disposizioni di legge in maniera meno equivoca, nella prospettiva di dare alle parole un senso compiuto, si può giungere forse ad una soluzione condivisa, sulla scorta del ragionamento che segue.
Il comma 2 dell’art. 7 del Decreto c.d. “trasparenza”, n. 104/2022, prevede attualmente che: “il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.
Va da sé che, come anticipato, si tratta di un enunziato linguistico contrario alle regole della matematica, poiché la previsione è priva di un termine di paragone utile ad operare la proporzione, atteso che non si può fare alcun confronto fra una durata a termine e una a tempo indeterminato (l’infinito, infatti, si sottrae a calcoli siffatti); dunque, la contraddizione fra le varie proposizioni normative è evidente.
Anche in questo caso, allora, si dovrà supporre, perché le parole utilizzate dal legislatore abbiano un senso, che si sia voluto, al pari che nell’articolo precedente, riscrivere una norma, ma evitando di abrogare la precedente (con risultati di massima confusione, come appare evidente).
La norma, quale risultante dalla modifica ora introdotta, dunque, dovrebbe leggersi nel senso che segue (a tal fine basta aggiungere “due punti” dopo la parola “superiore”): la proporzione di cui all’enunziato di esordio si instaura fra la durata della prestazione lavorativa e il tasso “di conversione” ora introdotto dal legislatore (un giorno di lavoro effettivo di prova ogni 15 di calendario) e prima assente; “in ogni caso [e dunque, a correzione della misura che discende dalla proporzione di cui ora si è detto] la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore [:] a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi [prima ipotesi], e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi [seconda ipotesi]”.
Perché la norma abbia senso, si deve intendere che solo questi ultimi limiti abbiano carattere di Norma
indisponibile (al pari di quanto previsto dall’art. 10 della legge n. 604/66), mentre il principio di proporzionalità sembrerebbe operare solo in via dispositiva, di modo che spetta senz’altro alla contrattazione collettiva e, in assenza di questa, all’autonomia individuale, determinare in concreto la durata del periodo di prova, nel rispetto però di un intervallo che va da 2 sino ad un massimo di 15 (ovvero di 30) giorni, secondo la durata del contratto a termine.
Resta ovviamente non regolata l’ipotesi di un contratto di durata superiore a dodici mesi, come per esempio per i dirigenti o per i casi particolari di cui all’art. 23 d. lgs. 81/2015: ma qui si può senz’altro
tornare ad applicare la regola proporzionale pura, e quindi il criterio di un giorno di prova effettiva ogni
15 (senza che possa operare il limite massimo di 30 giorni, poiché questo sembrerebbe riferito solo ai
contratti di durata fra sei e dodici mesi) di modo che, almeno per i dirigenti, sembrerebbe potersi superare anche il limite di cui alla legge n. 604, non applicabile a tale categoria.

4. Novità in tema di recesso per il lavoratore assente ingiustificato.
Anche in questo caso il legislatore interviene a mettere ordine in una questione che faceva fatica a trovare
soluzione espressa, malgrado fosse chiaro l’assetto di interessi sottostante alle norme: il problema è
conseguente all’introduzione di una forma speciale per le dimissioni, in conseguenza prima delle previsioni della legge n. 92 del 2012 e poi dell’art. 26, D.Lgs. 81/2015 (c.d. decreto “semplificazioni” nel quadro del Jobs Act), che rende impossibile considerare dimissionario il lavoratore che si sia assentato senza dare spiegazioni e per un tempo superiore all’assenza considerata giusta causa di licenziamento dalla contrattazione collettiva. Né il datore poteva ricorrere a quest’ultima soluzione invocando l’art. 2119 c.c., poiché, al di là delle difficoltà di comunicare il recesso ad un soggetto sostanzialmente irreperibile, restava la questione dei costi ormai da anni previsti in termini di incremento contributivo (c.d. ticket di cui all’art. 2 L. 92/2012).

La Legge, raccogliendo una soluzione già prospettata in giurisprudenza, aggiunge ora un comma 7-bis
in coda all’art. 26 del citato D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, prevedendo che: «In caso di assenza
ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o,
in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto
per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo». A tal fine è necessaria una comunicazione del datore all’Ispettorato con la quale si manifesta la volontà di far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro (ed a riguardo l’Ispettorato del lavoro, con una sua nota del 22 gennaio 2025 ha messo a disposizione un modello per la comunicazione, chiarendo anche a quale ufficio debba indirizzarsi).
Dunque, il legislatore torna “all’antico” e riconosce che, oltre al licenziamento del datore e alle dimissioni
del lavoratore è possibile che il rapporto venga meno per fatti concludenti, quindi all’esito di una
manifestazione di volontà del lavoratore, espressa non in forma scritta ma tacita e, in certa misura,
confermata da una circostanza inoppugnabile, quale la mancata presenza in servizio. In questi casi, e con
le precauzioni di cui alla norma in commento in caso di non imputabilità dell’assenza (per es. per il caso
di incidente stradale), non sussiste l’esigenza di una forma speciale, e non sorge l’obbligo al versamento
del ticket, in quanto la Naspi non è dovuta in caso di disoccupazione volontaria.
Deve precisarsi che nessun obbligo di ricerca del proprio dipendente grava sul datore di lavoro, e che l’eventuale contatto che sia posto in essere dall’Ispettorato al fine di valutare le ragioni dell’assenza rientra fra gli ordinari poteri degli ispettori, di modo che basta un atto amministrativo,
quale la nota dell’Ispettorato sopra menzionata per rendere operativa questa possibilità.
Si deve anche ricordare che nella nota di cui sopra l’Ispettorato precisa che, fermo rimanendo l’effetto
interruttivo, i motivi alla base dell’assenza (ad es. mancato pagamento delle retribuzioni) potranno
essere oggetto di una diversa valutazione anche in termini di “giusta causa” delle dimissioni, rispetto
alle quali si provvederà ad informare il lavoratore dei conseguenti diritti.
Si tratta anche in questo caso di un potere già implicito nelle funzioni di vigilanza dell’INL, tanto che si
prevede pure la possibilità, attraverso la conciliazione “monocratica” di cui all’art. 11 D.Lgs. 124/2004, di
intervento degli ispettori al fine del pagamento della retribuzione dovuta al lavoratore.

5. Possibilità di costituire la riserva matematica presso l’INPS per danno da omissione contributiva ormai prescritto.
Anche l’ultima norma che si commenta (art. 30) sembra voler dialogare con la Giurisprudenza più recente in tema di risarcimento del danno da omissione contributiva, di cui all’art. 2116, co. 2°
c.c. precisandone il significato e correggendone un effetto indiretto. Si tratta di questione che ha trovato varie soluzioni nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni.
A mente della disposizione del codice civile che si è richiamata, l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata o irregolare
contribuzione, non siano tenuti a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute. Il risarcimento
può avvenire condannando il datore di lavoro, alternativamente, al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, o, in forma specifica, mediante la costituzione presso l’INPS di una rendita sostitutiva del trattamento, perduto in conseguenza all’omissione suddetta. In quest’ultimo caso si procede facendo riferimento a quanto previsto dall’art. 13 della L. 12 agosto 1962 n. 1338, che quantifica l’importo a tanto necessario (c.d. “riserva matematica”) in una somma una tantum calcolata in relazione alla condizione soggettiva del pensionato, in applicazione di speciali tabelle, da ultimo emanate con il D.M. 31.8.2007 (in GU n. 258 del 6.11.2007) che tiene conto dell’età, del sesso del danneggiato e dell’eventuale presenza di soggetti titolati al trattamento dovuto ai superstiti.
Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria ex art. 2116 co. 2° c.c., che sorge solo dopo il prescriversi
del diritto dell’istituto alla contribuzione omessa (di durata quinquennale, secondo la giurisprudenza), è
decennale, secondo la regola generale dell’art. 2946 c.c., ma incerto è il dies a quo della decorrenza della
prescrizione. La giurisprudenza al riguardo, dopo varie oscillazioni, ha ritenuto da ultimo (Cass. 20
gennaio 2016 n. 986; Cass. 13 marzo 2003, n. 3756; Cass. 3 dicembre 2020 n. 27683; Cass. SS. UU. 14 settembre 2017 n. 21302) che l’azione di danno inizi a decorrere dalla data di prescrizione dei contributi, di modo che, decorsi quindici anni (5 + 10) dall’omissione, nessun ristoro è più possibile.
Poiché tuttavia, ai sensi dell’art. 13 L. n. 1338 del 1962, il lavoratore stesso può versare la relativa somma
all’INPS (e ciò costituisce per lui un vantaggio, sia perché il datore di lavoro può in ipotesi essere venuto
meno, sia perché ottiene subito la corresponsione mensile della prestazione pensionistica, senza
attendere l’esito del giudizio che nel frattempo promuoverà nei confronti del datore di lavoro
inadempiente per la restituzione della somma versata all’INPS), si era posto il problema se, liberato il datore dall’obbligazione risarcitoria, sussistesse comunque il diritto del lavoratore al versamento, in presenza dei particolari requisiti di prova scritta che caratterizzano da sempre questa fattispecie, al fine di evitare facili elusioni.
La legge in commento risponde ora positivamente al quesito aggiungendo all’art. 13 della citata Legge
12 agosto 1962, n. 1338, la previsione per cui: «Il lavoratore, decorso il termine di prescrizione per l’esercizio delle facoltà di cui al primo e al quinto comma [e cioè la richiesta di costituzione a spese del datore], fermo restando l’onere della prova previsto dal medesimo quinto comma, può chiedere
all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale la costituzione della rendita vitalizia con onere interamente a proprio carico, calcolato ai sensi del sesto comma».

6. Uno sguardo veloce alle altre disposizioni di legge.
Fra le tante altre disposizioni che la legge contiene, qui solo un accenno può farsi alle norme dirette a modificare la disciplina del medico competente (art. 1) o a quelle in tema di durata dell’intervento di integrazione salariale derivante dalla CIG (art. 6) o relative ai fondi bilaterali (artt. 8 e 9).
Varie disposizioni sono pure dedicate agli indebiti Inail e alla disciplina dell’apprendistato e alle attività
stagionali (art. 11).
All’art. 17 si legittima una particolare forma di parttime, nella quale il lavoratore viene a sommare attività
di lavoro subordinato a quella di lavoro autonomo (e tanto senza nessuna vera innovazione di legge, se non sul piano fiscale, e sulla base di un accordo collettivo nel settore credito, che ha avuto un certo
successo).

Parimenti all’art. 7 si prevedono norme apposite in tema di “legittimo impedimento” di cui alla legge 234
del 2021 (comma 927 segg.), giustificando l’eventuale ritardo del professionista in caso di particolari
vicissitudini personali o familiari, che rendano inesigibile la prestazione, altrimenti dovuta al cliente, o il rispetto dei termini imperativi di legge.

*Avvocato in Milano
Professore Ordinario Diritto del Lavoro
Università Cattolica di Milano