di Isabella Marzola*

Il Fondo Nuove Competenze, alla sua terza edizione, è un’iniziativa promossa dal Ministero del Lavoro, introdotta con l’art. 88 del D.L. 19 maggio 2020, n. 34 (Decreto Rilancio). Ai sensi del D.M. 05/12/204 la dotazione finanziaria della terza edizione 2024/2025 ammonta complessivamente a 730 milioni di euro, integrabili con altre fonti di finanziamento

Il Fondo Nuove Competenze, è una misura che sostiene le imprese che hanno necessità di adeguarsi a nuovi modelli organizzativi e produttivi, in risposta alle transizioni ecologiche e digitali. Il Fondo Nuove Competenze accompagna le aziende nei processi di transizione digitale ed ecologica favorendo nuova occupazione e promuovendo le reti tra imprese.

Soggetti beneficiari sono tutte le imprese residenti sul territorio nazionale che abbiano siglato accordi di rimodulazione di lavoro a fronte della condivisione di progetti formativi che forniscano ai lavoratori un accrescimento delle competenze.

Il Fondo Nuove Competenze finanzia fino al 100% il costo orario per la formazione dei lavoratori e, novità assoluta, prevede un contributo anche per i disoccupati preselezionati per l’assunzione.

LINEE DI INTERVENTO

Possono presentare domanda di accesso al Fondo le aziende singole o in forma associata:

Sistemi Formativi;

Filiere Formative;

Singoli datori di lavoro con almeno tre dipendenti.

AMBITI FORMATIVI

Le materie oggetto degli interventi formativi saranno collegate alla digitalizzazione, alla sostenibilità e da quest’anno anche al welfare aziendale e al well-being dell’organizzazione.

DURATA DEI PERCORSI

Ciascun partecipante dovrà frequentare attività formative per un minimo di 30 ore ed un massimo di 150 ore, già previste all’interno del progetto.

RUOLO DEI FONDI INTERPROFESSIONALI

Il FNC opera in cumulo con i fondi interprofessionali, che coprono i costi di docenza. Le aziende che aderiscono ad un Fondo Interprofessionale devono presentare domanda attraverso il Fondo di adesione.

PRESENTAZIONE DOMANDE

Le domande potranno essere presentate sulla piattaforma online MyANPAL a partire dal 10/02/2025.

 

*ODCEC Ferrara

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di Fabiano D’Amato*

L’INAIL con istruzioni operative del 4 dicembre 2024, ha reso nota la disponibilità del servizio online relativo alla comunicazione delle basi di calcolo per l’autoliquidazione dei premi assicurativi 2024/2025, nella sezione “Fascicolo Aziende”, accedendo alla funzione “Visualizza Comunicazioni”.

Il servizio è disponibile dal 3 dicembre 2024 (dal 10 dicembre per il settore Navigazione).

Attraverso tale servizio sarà possibile:

  • Richiedere l’invio delle basi di calcolo
  • Visualizzare le basi di calcolo

L’accesso è consentito ai soggetti datori di lavoro ed agli altri soggetti tenuti all’autoliquidazione (ad es. i committenti), che potranno accedere direttamente o tramite intermediari abilitati ed opportunamente delegati.

Il documento dell’Istituto specifica che non saranno invece disponibili le basi di calcolo nel caso di precedente utilizzo del servizio per l’autoliquidazione delle ditte cessate, avendo già tali soggetti espletato quanto di loro pertinenza, con l’eccezione, nel caso, della sezione dei contributi associativi.

Le istruzioni operative qui menzionate sono disponibili al seguente link:

https://www.inail.it/content/dam/inail-hub-site/documenti/istruzioni-operative/2024/12/Basi%20di%20calcolo%20autoliquidazione%202024-2025.pdf

*ODCEC Roma

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di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

 

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronunzia n. 26760 resa in data 12 settembre 2024, ma pubblicata soltanto in data 15 ottobre 2024, ha inteso confermare alcuni principi in tema di responsabilità solidale ex art. 29 del D. Lgs. 276/03 dell’imprenditore committente per i trattamenti retributivi e/o i contributi previdenziali dovuti dagli appaltatori e/o dai subappaltatori a favore dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dei servizi oggetto del contratto di appalto.

Secondo le precisazioni della Suprema Corte, invero, la “…solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, esonerando il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice…” e la “ratio legis” dell’art. 29 del D. Lgs 276703 consiste in ciò: nel “…garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili e evitando che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale”.

Nell’affermare i citati principi, infatti, la Suprema Corte ha chiarito, dunque, che la logica della solidarietà tra l’appaltatore, eventuali subappaltatori ed il committente, nonché il dato testuale della norma, che fa riferimento al periodo di esecuzione del relativo contratto, inducono a ritenere che:

– da un lato, la solidarietà sussista solo per i crediti maturati con riguardo al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, con esclusione di quelli sorti in altri periodi, non potendosi gravare il committente di debiti facenti capo ad altri e diversi pregressi committenti e da questi ultimi non saldati;

– da un altro lato, l’art. 29 cit. esonera il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti gravanti su ciascuna società appaltatrice convenuta in giudizio quale coobbligata, così realizzandosi una oggettiva facilitazione per il dipendente sul piano probatorio, in tutto e per tutto coerente con la ratio legis sopra indicata.

In sintesi, alla luce del consolidato orientamento invalso presso la Suprema Corte, può dirsi che la previsione di un vincolo di solidarietà tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori è realizzata “…secondo un modulo legislativo che intende rafforzare l’adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell’imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore, il rischio economico di dovere rispondere in prima persona delle eventuali omissioni di tale imprenditore…”.

La norma di riferimento (art. 29 del D. Lgs. 276/03), in altre parole, è volta a incentivare un utilizzo più virtuoso dei contratti di appalto, inducendo il committente (e il sub committente) ad individuare imprenditori affidabili, per evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione si risolvano in un danno a carico del lavoratore.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

(studiolegale@daverioflorio.com)

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di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

 

Una lavoratrice, assunta a tempo parziale verticale (50%), impugnava il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per aver superato il periodo di comporto previsto dal ccnl applicato al rapporto di lavoro.

In particolare, al rapporto di lavoro era applicato il CCNL Commercio-Confcommercio che prevede una specifica disposizione in adempimento della delega prevista dall’art. 7 comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 secondo cui: “I contratti collettivi possono modulare la durata… del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro”.

L’art. 87 del ccnl citato prevede infatti che. per i lavoratori con contratto a tempo parziale “verticale” o “misto”, il periodo di conservazione del posto in caso di malattia sia pari ad “un periodo massimo non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare”.

Nel caso di specie era dunque pacifico che il periodo di comporto fosse pari a 78,5 giorni in un anno, in quanto la lavoratrice era impiegata con un contratto di lavoro part-time verticale per 3 giorni a settimana.

Ciò che, tuttavia, risultava controverso nel giudizio era il criterio con cui computare le giornate di assenza per malattia ai fini della maturazione del predetto periodo di comporto:

– secondo la lavoratrice, avrebbero dovuto essere computati i soli giorni nei quali la stessa sarebbe stata tenuta a garantire la propria prestazione lavorativa (tre giorni a settimana), con la conseguenza che il periodo massimo di comporto non sarebbe stato superato;

– secondo il datore di lavoro, invece, avrebbero dovuto essere computati tutti i giorni solari coperti da certificato medico di malattia, ivi compresi quelli nei quali il dipendente non aveva alcun obbligo contrattuale, sicché la lavoratrice avrebbe accumulato 113 giorni di assenza per malattia, così superando il periodo di comporto.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma rigettavano l’impugnazione della lavoratrice ritenendo corretta la ricostruzione offerta dal datore di lavoro.

La lavoratrice, pertanto, proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione lamentando, appunto, l’erroneità della anzidetta modalità di calcolo confermata dai giudici di merito.

Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, anche la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della ricostruzione datoriale, nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori con contratto part-time verticale anche le giornate non lavorative per cui comunque risultava uno stato di malattia certificato.

Con la sentenza n. 26634 del 14 ottobre 2024 la Corte di Cassazione chiarisce definitivamente che anche nel lavoro part-time verticale le assenze per malattia devono essere calcolate includendo “oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, posto che, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), “opera una presunzione di continuità in quei giorni dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta”.

Detta presunzione, ricorda altresì la Cassazione, può essere superata “solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa”.

La Corte di Cassazione ha fornito una guida fondamentale per la gestione delle assenze di malattia per tale specifica fattispecie, confermando che il “riproporzionamento” (laddove previsto dalla contrattazione collettiva) opera solo con riferimento alla determinazione del periodo di comporto, mentre le assenze devono essere calcolate, così come per i lavoratori a tempo pieno, tenendo conto anche dei giorni contrattualmente non lavorativi se coperti da certificato medico.

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di Graziano Vezzoni*

 

Le storie che si svolgono negli hotel, certe volte sono meglio di un episodio di una serie TV a luci rosse!

Immaginatevi la scena: il buon Silvio (chiamiamolo così per convenienza e privacy), che sembra il protagonista di una telenovela estiva molto piccante, viene sorpreso, da un amministratore, in flagrante delicto in un angolo nascosto dell’hotel.

E non stiamo parlando di una semplice pausa caffè, ma di una pausa… diciamo, molto più “intima” e piccante. In poche parole era completamente nudo e stava consumando un rapporto intimo con una cliente.

“…le scrivo questa missiva per esprimere non solo la mia perplessità, ma anche quella dell’intero consiglio di amministrazione dell’Hotel “Virtù e mare”, riguardo al suo recente spettacolino privé tenutosi, nei locali del nostro stabile.

Il 20/07/2024, mentre molti di noi erano indaffarati a garantire l’eccellenza del servizio ai nostri ospiti, lei è stato sorpreso a darsi alla pazza gioia nello sgabuzzino delle scope – un luogo notoriamente dedicato all’ordine e alla pulizia, e non certo ai vizi carnali.

È con un misto di disappunto e incredulità che le comunico che simili attività extra-lavorative, potrebbero minare la fiducia che abbiamo riposto in lei come dipendente e custode della nostra reputazione.

Le rammento, ove Le fosse sfuggito che durante l’occupazione del suddetto sgabuzzino, c’è anche un obbligo di diligenza sul posto di lavoro. Chiaro che, forse “diligenza” è stata da Lei interpretata in un modo leggermente diverso dal solito…

Come da procedura, e seguendo la danza burocratica resa necessaria dalla Legge 20.05.70 n.300, le concediamo 5 giorni per fornirci spiegazioni, giustificazioni di quanto accaduto.

Attendiamo con ansiosa curiosità di sentire la sua versione dei fatti…”.

La narrazione della lettera è ricca di umorismo, formalità e riferimenti legali, cosa che aggiunge quel tocco di serietà al tutto.

Tuttavia, non possiamo negare che il nostro amico lì citato, il signor “Nudo nello sgabuzzino”, si trova in una situazione a dir poco imbarazzante.

Graziano rilegge con cura la lettera di richiamo disciplinare scritta per conto del proprio cliente ed è soddisfatto del risultato.

Adesso, in un attimo di pausa, cerca di immedesimarsi in quel poveretto, il nostro protagonista, il “Nudo nello sgabuzzino”, alle prese con la ricerca di una giustificazione valida. Forse tirerà in ballo Cupido, che evidentemente lo ha preso di mira con una freccia un po’ troppo precisa? O magari dichiarerà di essere stato vittima di un esperimento sociale andato storto? Magari addurrà un colpo di calore estivo che gli ha annebbiato il senso del decoro.

Qualunque sia la sua linea difensiva, mi auguro sia molto creativa. Graziano va avanti con la sua immaginazione, verrà da solo o accompagnato da un sindacalista annoiato. Ma la cosa a cui sta pensando e lo preoccupa è riuscirò a non sorridere quando il “Nudo nello sgabuzzino” formulerà le proprie giustificazioni. Comunque sarà meglio consigliargli caldamente di non farsi mai più trovare in simili – ehm – “vesti”.

Nota dell’autore: Questa lettera è da considerarsi una parodia e non sostituisce un vero e proprio richiamo disciplinare che è e rimane una cosa seria.

Comunque ricordatevi, negli Hotel, per favore, vestitevi sempre, specialmente quando passate vicino agli sgabuzzini.

*ODCEC Lucca

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di Ivana De Michele*

 

Nel contesto delle libere professioni, il gender pay gap rimane una ferita aperta. Malgrado i progressi nelle pari opportunità educative e l’aumento della partecipazione femminile nel mondo del lavoro, il divario nei compensi e nella rappresentanza persiste in maniera preoccupante, in particolare per le professioni liberali. Secondo il Global Gender Gap Report 2023, l’Italia si trova in una posizione di svantaggio, all’87º posto su 146 paesi e, considerando l’Unione Europea, dopo di noi ci sono solo Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia, a testimonianza del fatto che la parità di genere, soprattutto nel mondo professionale, in Italia è ancora lontana dall’essere raggiunta.

Le donne rappresentano circa il 44% degli iscritti agli ordini professionali, un dato che segna una crescita rispetto al 40% di pochi anni fa. Tuttavia, la presenza femminile non si riflette in un’uguaglianza nei compensi. In media, le donne nelle professioni liberali guadagnano il 45% in meno rispetto agli uomini, con un divario che si accentua tra i 40 e i 50 anni, quando il carico familiare e lavorativo raggiunge il suo picco.

Questo fenomeno è evidente soprattutto tra commercialisti, avvocati e notai, dove le donne continuano a essere sottorappresentate nei ruoli di leadership e, di conseguenza, guadagnano meno rispetto ai loro colleghi uomini. Ma la questione non si ferma qui: il gender pay gap colpisce anche altri ordini professionali, ad esempio psicologhe e giornaliste, soprattutto quando operano come freelance, una condizione che le espone a una maggiore precarietà economica e a compensi inferiori rispetto ai colleghi uomini.

Nel settore della psicologia le donne costituiscono la maggioranza, rappresentando circa l’85% degli iscritti all’albo degli psicologi. Tuttavia, il fatto che siano più numerose non si traduce in parità retributiva. Secondo i dati del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine degli Psicologi), le psicologhe guadagnano tra il 30% e il 40% in meno rispetto ai colleghi uomini. Questa disparità si riflette non solo nei guadagni, ma anche nelle opportunità di carriera, con una minore presenza femminile nei ruoli dirigenziali e decisionali.

Anche il settore del giornalismo presenta un divario di genere significativo, soprattutto per quanto riguarda le giornaliste freelance. Secondo i dati dell’INPGI (Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani), le giornaliste freelance guadagnano mediamente il 28% in meno rispetto ai colleghi uomini, un dato che peggiora ulteriormente per chi lavora in settori editoriali dove la leadership maschile è dominante.

Molte giornaliste si trovano in condizioni di precarietà contrattuale, con la mancanza di un salario fisso che le espone a compensi irregolari e meno competitivi rispetto agli uomini, soprattutto nelle trattative di compensi per articoli e collaborazioni. Le donne giornaliste, in particolare, si scontrano con barriere legate al soffitto di cristallo che limita il loro accesso a ruoli apicali, come redattrici capo o direttrici di testata, ruoli tradizionalmente dominati da uomini.

In conclusione le libere professioniste sono particolarmente esposte al rischio di part-time involontario, perché molte di loro si vedono costrette a ridurre l’orario lavorativo per conciliare lavoro e famiglia. Questo fenomeno è particolarmente comune tra i 40 e i 50 anni, quando la gestione familiare raggiunge il suo massimo impatto sulle scelte professionali.

Le radici del gender pay gap nelle libre professioni sono alimentate da diversi fattori:

Ruoli familiari e sociali: Le donne continuano a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro domestico e familiare, il che limita il loro tempo e la disponibilità per opportunità di carriera più remunerative o di leadership.

Mancanza di trasparenza salariale: Molte professioni non richiedono trasparenza sulle retribuzioni, lasciando spazio a negoziazioni individuali che spesso penalizzano le donne, meno inclini o meno abituate a negoziare al rialzo.

Stereotipi di genere: Le aspettative sociali sul ruolo delle donne come madri e caregiver creano un contesto in cui si dà per scontato che esse siano meno interessate o capaci di dedicarsi alla carriera.

Mancanza di politiche di conciliazione: Gli studi professionali e le aziende offrono spesso scarse soluzioni per la conciliazione tra lavoro e vita familiare, rendendo difficile per le donne mantenere lo stesso ritmo di carriera dei loro colleghi uomini.

Per affrontare seriamente il gender pay gap nelle professioni liberali, è necessario un approccio integrato che includa misure normative e pratiche professionali. Ecco alcune soluzioni concrete:

Trasparenza retributiva obbligatoria: Introdurre obblighi di trasparenza sui compensi all’interno degli ordini professionali, pubblicando i dati salariali divisi per genere. Questa misura potrebbe portare a una maggiore equità retributiva e responsabilizzazione da parte delle aziende e degli studi professionali.

Politiche di conciliazione lavoro-famiglia: Promuovere forme di congedo parentale più flessibili e incentivare la condivisione del carico familiare tra uomini e donne. È cruciale che queste politiche siano accessibili e non penalizzino chi le utilizza.

Programmi di mentoring e leadership femminile: Creare reti di mentoring e programmi di leadership per le donne nei settori in cui sono sottorappresentate, come la psicologia e il giornalismo, per aiutarle a superare le barriere all’avanzamento professionale.

Quota di genere nei ruoli dirigenziali: Implementare quote di genere nei ruoli decisionali all’interno degli ordini professionali e delle redazioni giornalistiche. Questo potrebbe aumentare la presenza femminile in posizioni di leadership e contribuire a una maggiore equità salariale.

Sostegno alle freelance: Le professioniste freelance, come le giornaliste e le psicologhe, necessitano di misure specifiche di protezione sociale e incentivi fiscali per compensare la mancanza di stabilità contrattuale. Questo potrebbe includere fondi di sostegno per i periodi di inattività o agevolazioni fiscali per le lavoratrici autonome.

Il gender pay gap nelle libere professioni non è solo una questione di equità, ma un problema strutturale che impedisce all’economia di sfruttare pienamente il potenziale delle donne. È essenziale che le politiche pubbliche, gli ordini professionali e le aziende collaborino per creare un sistema più equo, in cui il merito venga riconosciuto e valorizzato, indipendentemente dal genere. Ridurre questo divario significa non solo migliorare la vita delle professioniste, ma anche promuovere un sistema economico più inclusivo e produttivo.

*ODCEC Milano

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di Giovanni Dall’Aglio*

 

Nel famoso dialogo sulla “natura umana” del 1971 tra Noam Chomsky e Michel Foucault1, Chomsky teorizza l’esistenza di un fondamento reale, assoluto, della natura umana che risiede nell’espressione della propria capacità creativa. Una facoltà naturale che tende ad opporsi ad ogni forma di coercizione; la stessa facoltà che esprime ad esempio un bambino che, di fronte a situazioni nuove come imparare la lingua madre, reagisce e pensa in modo diverso pur senza impararne le regole. La mente come qualcosa di contrapposto al mondo fisico. Seguendo Chomsky quindi, se il bisogno fondante della natura umana risiede nella ricerca creativa, una società giusta dovrebbe metterci nelle condizioni di massimizzare tale potenziale.

Eppure, se osserviamo l’identikit del lavoratore moderno, per la gran parte dei casi risulta difficile sostenere che stia esprimendo la propria natura in termini di libertà creativa e interessi. Non a caso le statistiche recenti mostrano che solo il 5% è “felice” al lavoro2. La reazione a questo stato delle cose è spesso ambivalente: c’è chi cambia lavoro senza acquisire nuove competenze o seguire i propri interessi, e chi invece rimane forzatamente. Sbagliano entrambi, esprimendo due facce della stessa medaglia, e cioè la fuga da se stessi.

Spesso i lavoratori si autoconvincono di stare nel posto giusto perché tutto il loro cammino li ha portati dove sono in quel momento, coerentemente con i propri studi, curriculum e percorsi di carriera. Di fronte al proprio malessere reagiscono cambiando lavoro, cercando retribuzioni maggiori e nuovi stimoli, che però non arriveranno perché continueranno

1 “Noam Chomsky & Michel Foucault Debate – ‘On human nature’” 1971.

2 Osservatorio HR Innovation Pratice della School of Management del Politecnico di Milano

a fare lo stesso tipo di lavoro che li rendeva già tristi prima. Nascondono così il proprio malessere dietro il consumo di cose principalmente inutili, ma che dia un senso ai soldi che guadagnano. Non colgono un aspetto fondamentale, e cioè che un curriculum fatto solamente di anni e liste di lavori non è futuribile se non rappresenta la loro vera natura.

Reid Hoffman, fondatore di Linkedin, descrivendo il futuro del mondo del lavoro, sostiene che il curriculum inteso come lista di anni di esperienza spesi a svolgere un dato lavoro, non avrà più significato. Alle aziende interesserà maggiormente il bagaglio di competenze acquisite sulla base di un portfolio di progetti che delineino la creatività e l’identità del lavoratore. In questo senso, il proprio “brand” digitale si configurerà come il nuovo CV. Sempre Hoffman sostiene che, grazie a quella che potremmo chiamare “rivoluzione delle competenze”, il 50% della popolazione statunitense sarà freelance entro un decennio. Per molti sarà una scelta che consentirà loro di sfruttare la propria competenza e creatività, lavorare a progetti che interessano veramente e soprattutto, guadagnare di più.

Questa visione del futuro apre a diverse riflessioni. Da un lato, dobbiamo essere consapevoli che stiamo per vivere un’epoca di opportunità senza precedenti: intelligenza artificiale, internet e creator economy

consentono di monetizzare le proprie passioni e competenze abbandonando vecchi stili di lavoro, dando un significato diverso al lavoro, più incline alla nostra vera natura creativa. Dall’altro però, chi non ha formazione, competenze e passioni adeguate, rischia di rimanere travolto dall’onda. O chi, pur avendo le competenze adeguate, si improvvisa freelance senza una progettualità. Per queste ultime tipologie di lavoratori, la Gig Economy si configurerà di più come “economia dei lavoretti”, e potrebbe non essere sostenibile a lungo termine, costringendo i lavoratori ad avere più impieghi simultanei, sempre più frammentati e incerti. Gli studi scientifici, infatti, esprimono preoccupazione riguardo alla gig economy per la sua natura precaria, la mancanza di protezioni sociali, e l’impatto negativo sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro, rendendo difficile una vera e propria realizzazione professionale e personale nel lungo termine.

Il tema è quindi complesso, e per questo i policy maker dovrebbero farsene carico, rivisitando le politiche di formazione e protezione sociale in chiave moderna, permettendo ai giovani di avere una panoramica completa che consenta loro di perseguire la propria natura con maggiore consapevolezza, senza superficialità. Per esempio, introducendo durante il percorso formativo dei corsi per contrastare l’analfabetismo finanziario, o dei corsi che diano una panoramica sulle possibilità per intraprendere una propria attività sfruttando internet, intelligenza artificiale e creator economy, evidenziando opportunità e rischi di breve e lungo termine, unitamente ad aspetti fiscali e previdenziali. Altrimenti rischiamo di perderli dietro ai vari trader improvvisati in rete, i famosi “fuffaguru”.

L’evoluzione del mondo del lavoro non è necessariamente una minaccia, ma un modo per ridefinire il concetto di successo. Nella convinzione che, qualsiasi posizione il lavoratore avrà raggiunto, questa non potrà definirsi di successo se è contraria alla propria natura.

Diceva Wilhelm von Humboldt3: “Ciò che non nasce dalla libera scelta di un uomo, o che è solo il risultato di istruzione e guida, non entra a far parte del suo vero essere, ma resta estraneo alla sua natura autentica; egli non lo compie con energie veramente umane, ma soltanto con esattezza meccanica…

…possiamo ammirare ciò che fa, ma disprezziamo ciò che è.”

*Ingegnere e PhD in Trieste

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3 “The Limits of State Action” by Wilhelm von Humboldt (1792)

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di Maurizio Falcioni*

 

Possiamo affermare che il Legislatore ha fortemente a cuore la figura del “volontario” in ambito sportivo; dal 2021, anno in cui si è voluto dare un svolta importante alla normativa in materia di sport dilettantistico con l’entrata in vigore del DLgs 36 a oggi, l’art.29 che regolamenta le prestazioni sportive dei volontari, ha subito ben tre modifiche legislative dettate da: art. 17 del Dlgs 163 del 05/10/2022 , dall’art. 1 del Dlgs 120 del 29/08/2023 e ultimo in ordine di tempo dall’art. 3 del DL 71 del 31/05/2024 (in vigore dal 01/06/2024).

E allora proviamo a fare il punto della disposizione con una analisi del testo al fine di rilevarne criticità e restrizioni.

Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a. possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari.

Utilizzando il termine attività istituzionali e non il termine attività sportive (che poi troviamo successivamente), la norma ammette la possibilità di utilizzare in generale prestazioni di volontariato, ma non poteva essere diversamente. In qualsiasi ente no profit, sportivo e non sportivo, è presente da sempre questa figura: associati e non che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Promuovere lo sport non solo come svolgimento di una attività sportiva ma anche di attività collaterali. Prendiamo a esempio il calcio, promuove lo sport anche chi pulisce gli spogliatoi, chi lava le maglie, chi riga e aggiusta il campo da gioco; sicuramente non è svolgere attività sportive, ma altrettanto sicuramente sono attività necessarie e indispensabili per promuovere lo sport.

A giustificazione, l’art. 29 sottolinea che “le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”. Prestazioni dei volontari sportivi che non sono retribuite in alcun modo, nemmeno dal beneficiario. Il termine utilizzato “non retribuite” è chiaro: al volontario non possono essere erogati compensi a titolo di retribuzione (che sia di natura subordinata che autonoma), ma nessuna normativa vieta di rimborsare al volontario, se richieste e concordate, le spese da lui sostenute nello svolgimento della propria attività gratuita a favore dell’ente associativo. Il volontario periodicamente (come da accordo con il sodalizio), predispone un elenco delle spese effettivamente sostenute (chiamiamolo pure un rimborso a piè di lista), con indicazione delle date e delle prestazioni di volontariato svolte, allegando la necessaria documentazione a giustificazione (fatture, scontrini fiscali, ricevute fiscali e non fiscali, biglietti di viaggio, etc. etc.).

È possibile fare rientrare anche il rimborso delle indennità chilometriche per l’utilizzo, da parte del volontario, del proprio automezzo? Certamente, se possiamo dimostrare che è una spesa effettivamente sostenuta, ma è assolutamente da attenzionare la procedura. Innanzitutto, è opportuno che il consiglio direttivo deliberi il rimborso al volontario anche per le indennità chilometriche, che nella delibera venga indicata marca, modello e targa dell’auto utilizzata dal volontario, oltre a reperire copia del libretto di circolazione dell’automezzo da tenere agli atti e utile per identificare il valore massimo del rimborso chilometrico in base alle tariffe elaborate dall’ACI.

È possibile rimborsare al volontario anche le spese sostenute dallo stesso nel proprio comune di residenza? Si ritiene che sia possibile, ma con una attenta valutazione dell’attività esercitata. Torniamo al nostro esempio del calcio. Se il volontario è l’addetto alla lavanderia sicuramente non sostiene alcuna spesa per tale prestazione, però potrebbe sostenere una spesa di trasporto (autobus) dalla propria abitazione all’impianto sportivo e tale spesa potrebbe essere oggetto di rimborso.

Se poi ad esempio la prestazione del volontario, utilizzando un proprio automezzo, è quella di “raccogliere” gli atleti dalle loro abitazioni per portarli all’impianto sportivo ove dovrà svolgersi la partita del campionato, corretto è il rimborso delle indennità chilometriche anche se il trasporto è effettuato all’interno del Comune di residenza del volontario e non può essere contestato il fatto che siano spese che ha effettivamente sostenuto.

Non è applicabile ovviamente al volontario la disposizione del c.5 dell’art.51 del DPR 917/1986 (determinazione del reddito di lavoro dipendente) quando stabilisce che sono reddito imponibile IRPEF i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Piuttosto possiamo prendere a riferimento la Risoluzione di AE n.38/E del 11/04/2014 che ammette il rimborso delle indennità chilometriche anche in contesto di territorio comunale. Le norme abrogate in materia di trattamento tributario dei proventi derivanti dall’esercizio di attività sportive dilettantistiche, secondo cui il territorio comunale di riferimento è quello ove risiede il soggetto interessato che percepisce l’indennità chilometrica .non possono che rimanere applicabili. In tal senso occorre far riferimento alle risoluzioni a corredo delle norme di cui al D. Lgs. 36/2021 ed ancora della L. 80 del 25/03/1986.

L’art. 29 entra nel merito del rimborso spese forfettario, stabilendo che ai volontari sportivi possono essere riconosciuti rimborsi forfettari per le spese sostenute per attività svolte anche nel proprio comune di residenza, nel limite complessivo di 400 euro mensili e che tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente.

È una disposizione che deve essere letta come una agevolazione contabile/amministrativa per il sodalizio sportivo.

Viene data la possibilità di erogare rimborsi spese in modalità forfettaria al volontario senza l’obbligo contabile, in capo all’Ente erogatore, di archiviare giustificativi di spesa, il prospetto del piè di lista, etc., ma, per evitare situazioni elusive, il legislatore ha stabilito che detto rimborso forfettario può essere al massimo di € 400,00 mensili per ogni singolo volontario.

Altro elemento di agevolazione è il fatto che il rimborso forfettario di spesa è ammesso per le spese sostenute dal volontario, anche in ambito del proprio comune di residenza, in tal senso la norma evidenzia che le spese siano effettivamente sostenute per evitare situazioni che potrebbero rappresentarsi elusive.

Esempio, posso pensare di erogare al volontario una somma forfettaria a titolo di rimborso spese di € 200,00 in quanto, con il proprio automezzo, ha trasportato gli atleti per una gara podistica da Roma a Bologna (e tra carburante, autostrada, usura auto, pranzo, etc. è una somma che certamente si sostiene per una trasferta del genere), ma non posso erogare un rimborso spese forfettario di € 200,00 al volontario che fa assistenza lungo il percorso della gara podistica e che ha la propria residenza nel Comune in cui ha sede la gara o in un Comune limitrofo, in quanto le spese per trasferirsi dalla propria residenza alla sede della gara sono certamente irrisorie.

Rimborsi spese forfettari quindi ammessi, ma la norma sottolinea che “in occasione di manifestazioni ed eventi sportivi riconosciuti dalle Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate, dagli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici, dal CONI, dal CIP e dalla società Sport e salute S.p.a. purché questi ultimi individuino, con proprie deliberazioni, le tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso.”

Importante, pertanto, il ruolo degli Organismi di affiliazione che con proprie delibere provvedono a:

– Riconoscere manifestazioni ed eventi sportivi;

– identificare le tipologie di spese per le quali è ammessa la modalità di rimborso forfettario;

– individuare le attività di volontariato per le quali è altrettanto ammesso il rimborso forfettario.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) con delibera del 01/11/2024 stabilisce che sono considerate manifestazioni ed eventi sportivi gare, tornei e altre manifestazioni organizzate dalla stessa FIGC e le attività di preparazione collegate allo svolgimento delle medesime gare, tornei e manifestazioni.

La Federazione Italiana di Atletica Leggera (FIDAL) con delibera del 07/10/2024 ritiene che vadano incluse, oltre alle prestazioni sportive svolte durante la competizione/evento, anche quelle realizzate in stretta prossimità dello stesso, purché connesse alla sua realizzazione (ad esempio l’allestimento di un percorso con transenne e il successivo smantellamento).

La FIGC considera attività di volontariato anche i soggetti non tesserati che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, senza fini di lucro, ma esclusivamente con finalità amatoriali (elenca il tipo di attività), tra cui troviamo accompagnatori degli atleti minori.

FIDAL considera attività di volontariato, ad esempio, chi elabora le classifiche, il videomaker, l’addetto alle premiazioni etc.

È importante ad ogni modo valutare con attenzione le delibere della Federazione e dell’Ente a cui l’associazione dilettantistica è affiliata.

Torniamo al limite del rimborso forfettario di complessive € 400,00 mensile.

È da considerarsi per ogni ente/organismo a cui il volontario presta la propria attività o è complessivo per tutte le realtà presso cui viene svolta la propria spontanea attività? La normativa non lo regolamenta e non abbiamo disposizioni di prassi da parte di Agenzia Entrate (come non abbiamo da AE alcun documento a commento del DLgs 36/2021), ma pensando sempre che l’art.29 è improntato ad evitare situazioni di elusione, logica vuole che il valore mensile di € 400,00 sia riferito all’attività volontaristica svolta presso tutti gli enti no-profit.

Così si esprimono anche alcune delibere di FN/EPS.

FIGC indica che il limite di € 400 mensile è un limite soggettivo riferito al singolo volontario sportivo, e non all’ente erogante, concetto, questo, che non è presente nella delibera della FIDAL, ma che invece viene ribadito nella delibera FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) del 15/10/2024.

In considerazione di quanto sopra subentra comunque la necessità di chiedere al volontario una autodichiarazione attestante l’eventuale percezione, nel corso dello stesso mese, di ulteriori rimborsi forfettari erogati da altri enti/organismi. Autocertificazione necessaria, vedremo dopo, anche ai fini fiscali/contributivi.

Tale limite di € 400,00 mensile, è cumulabile o meno con un rimborso spese documentato? Anche questo elemento non viene commentato dall’art.29.

Non ci sono limitazioni normative all’utilizzo cumulativo dei due tipi di rimborso: documentato e forfettario. Partendo dal concetto iniziale che la possibilità del rimborso forfettario è intesa come una forma di agevolazione burocratica/amministrativa per il sodalizio sportivo, soprattutto per alcuni tipi di spesa. Ad esempio, nell’ambito di un trasporto di atleti fuori Regione, sarebbe facile rimborsare in maniera documentale il costo dell’autostrada o del ristorante e in maniera forfettaria (in quanto più semplice il conteggio) il rimborso della spesa del carburante. Alcune delibere inseriscono la limitazione. La delibera della FIGC sottolinea che il rimborso spese documentato non è cumulabile con quello forfettario, la delibera della FIDAL nulla indica, ma anche la delibera di FIP non ammette cumulare il rimborso spese forfettario con le spese documentate sostenute per la medesima manifestazione/evento sportivo.

Associazioni ed enti eroganti sono tenuti a comunicare i nominativi dei volontari sportivi che nello svolgimento dell’attività sportiva ricevono i rimborsi forfettari e l’importo corrisposto a ciascuno, attraverso il Registro Nazionale delle Attività Sportive Dilettantistiche (RASD), in apposita sezione del Registro stesso, entro la fine del mese successivo al trimestre di svolgimento delle prestazioni sportive del volontario sportivo.

Per dare la possibilità agli enti di attuare detto nuovo adempimento dettato dall’ultima revisione normativa dell’art. 29, il RASD ha da poche settimane aggiornato il sito, integrandolo con una partizione dedicata ai volontari.

Tale comunicazione è resa immediatamente disponibile, per gli ambiti di rispettiva competenza, all’Ispettorato nazionale del lavoro, all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL).

L’art. 29 ha introdotto, sempre al fine di evitare forme di elusione, una particolare disposizione che sta suscitando più di una criticità. Nell’ultimo capoverso del comma 2 indica che detti rimborsi forfettari concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’articolo 35, comma 8-bis, e costituiscono base imponibile previdenziale al relativo superamento, nonché dei limiti previsti dall’articolo 36, comma 6.

Analizziamo il disposto dal punto di vista previdenziale:

– l’art. 35 c. 8-bis stabilisce che l’imposizione contributiva/assicurativa previdenziale, interviene sulla parte di compenso eccedente i primi € 5.000,00 annui;

– pertanto, per il calcolo di tale limite occorre considerare anche il rimborso spese forfettario erogato al volontario;

– vi è obbligo quindi, in capo all’associazione che eroga il compenso al proprio collaboratore sportivo, di sapere se lo stesso svolge anche attività di volontario presso altro Ente e l’importo complessivo del rimborso spese forfettario percepito fino a quel momento;

– così come è necessario che l’associazione che eroga il rimborso spese forfettario al proprio volontario, sia messa a conoscenza se lo stesso abbia percepito e in quale misura, compensi per collaborazione sportiva dilettantistica da altro Ente sportivo dilettantistico;

– tutti elementi che il volontario / collaboratore sportivo rilasciano all’Ente sportivo dilettantistico presso cui svolge la propria prestazione, tramite una autodichiarazione.

Vediamo ora cosa comporta sotto l’aspetto Erariale l’espressione “concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’art. 36 c.6”:

– art.36 c.6 stabilisce che i compensi di lavoro sportivo dilettantistico sono esenti da imposizione fiscale fino all’importo complessivo annuo di € 15.000,00

– il successivo c. 6-bis obbliga il lavoratore sportivo a rilasciare, all’atto della percezione del proprio compenso, una autodichiarazione attestante l’ammontare dei compensi percepiti per le prestazioni sportive dilettantistiche rese nell’anno solare presso altri Enti sportivi dilettantistici;

– ricordiamo anche che al superamento di detto limite di € 15.000,00 si determina, in capo all’Ente sportivo che eroga il compenso di collaborazione sportiva, l’obbligo mensile di elaborare il prospetto paga (cedolino) al fine della regolamentazione dell’IRPEF a carico dello sportivo (art.28 c.4);

– ora, sempre tramite specifica autodichiarazione, quell’Ente sportivo dovrà anche essere a conoscenza di eventuale rimborso spese forfettario percepito dal collaboratore;

 

– se ad esempio:

1) dal 01/01/2024 al 31/10/2024 è stato erogato al collaboratore sportivo un compenso di € 13.500,00

2) se il 30/11/2024 si eroga allo stesso un ulteriore compenso sportivo di € 1.500,00, detta somma rimane ancora nell’alveo dell’esenzione dettata dall’art.36 c. 6 pari a € 15.000,00;

3) ma se il collaboratore dichiara al proprio committente sportivo (con l’autodichiarazione di cui all’art. 36 c.6bis) che nel mese di novembre 2024 ha percepito anche un rimborso spese forfettario di € 400,00 da altro Ente sportivo dilettantistico, si determina che il 30/11/2024, al momento dell’erogazione della somma di € 1.500,00, il collaboratore ha superato il limite di esenzione di € 15.000,00, determinando l’obbligo in capo al committente, di istituire il prospetto paga (cedolino).

Una disposizione, quella del rimborso spese forfettario mensile, che poteva sembrare essere nata per agevolare le attività amministrative degli Enti sportivi, ma che al contrario sta creando un ulteriore aggravio di burocrazia.

Ulteriore elemento di criticità è il disposto del comma 3 dell’art 29 quando indica che “le prestazioni sportive di volontariato sono incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva”.

Il dubbio che emerse subito leggendo il passaggio normativo era verso i membri dei consigli direttivi delle associazioni sportive dilettantistiche che svolgono il loro mandato a titolo gratuito e che, come tali, dovevano essere considerati “volontari”, con una incompatibilità in caso di svolgimento, da parte loro, anche di prestazioni sportive retribuite con compenso di collaborazione sportiva. In merito è intervenuto personalmente il Ministro dello Sport che con un comunicato della Presidenza del Consiglio del 15/01/2024, ha confermato che i membri del consiglio direttivo di un sodalizio sportivo, pur svolgendo gratuitamente il mandato loro conferito dall’assemblea dei soci, non rientrano nella categoria dei volontari; pertanto, non si ravvisano le incompatibilità dell’art.29 c.3., ove però, sottolinea il Ministro, qualora tali soggetti oltre a svolgere il mandato di presidente o consigliere, svolgono per la propria associazione/società sportiva dilettantistica anche attività di volontariato sportivo, in tali caso non potranno svolgere altro incarico di lavoro sportivo retribuito per la medesima associazione/società sportiva.

Il finale comma 4 dell’art. 29 obbliga “gli enti dilettantistici, che si avvalgono di volontari, di assicurarli per la responsabilità civile verso i terzi”.

Analizziamo la necessità / opportunità di un’eventuale delibera del consiglio direttivo dell’ente sportivo.

L’art. 29 non la richiede (a differenza di quanto prevedeva il comma 2 dell’art.29 prima delle modifiche apportate dal DL 71 del 31/05/2024), ma al fine di avere a disposizione una documentazione che possa essere utile a giustificare la veridicità del rapporto di volontariato, si consiglia di predisporre quanto segue:

– dichiarazione del soggetto disponibile a svolgere attività di volontario all’interno della asd/ssd;

– delibera ad acquisire il volontario e limiti e modalità dei rimborsi spese allo stesso;

– lettera di incarico sottoscritta da asd/ssd per l’attività di volontariato, al soggetto che ha dato la propria la propria disponibilità.

Per concludere la normativa del volontario dettata dall’art. 29 può essere applicata alle società sportive professionistiche? La domanda nasce dal fatto che la prima stesura dell’art. 29 al primo comma, identificando le realtà che potevano avvalersi delle attività di volontari, indicava società e associazioni sportive dilettantistiche; con la prima modifica legislativa del DLgs n.163 del 05/10/2022 il termine dilettantistiche scompare e rimane solo società e associazioni sportive e da qui il dubbio.

Si ritiene il disposto dell’art. 29 inapplicabile alle società sportive professionistiche non solo perché il fine societario di una società professionistica è assolutamente inadeguato al principio di una attività volontaristica, ma anche perché da un punto di vista strettamente tecnico l’art. 29 indica:

  1. a) al primo comma in riferimento alle “attività istituzionali” e tali non sono quelle di una società professionistica;
  2. b) l’adempimento di comunicare i nominativi al RASD dei volontari che percepiscono rimborso spese forfettari è inattuabile per le società professionistiche in quanto non iscrivibili nel RASD.

*ODCEC Rimini

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di Fabiano D’Amato*

 

Di recente introduzione, la c.d. Patente a crediti è stata istituita dall’art. 10 comma 19 del D.L. 2 marzo 2024, n. 19, convertito in Legge 29 aprile 2024 n. 56.

La norma in questione ha infatti modificato in tal senso l’articolo 27 del D.Lgs. n. 81/2008.

Successivamente, norme di dettaglio sono state fornite dal D.M. 24.9.2024, n. 132, mentre la prassi principale è legata alla Circolare I.N.L. n. 4 del 23.9.2024 ed in parte alle FAQ successivamente pubblicate dall’Ispettorato stesso.

La richiesta deve essere effettuata online sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma per il solo mese di ottobre era stata prevista la possibilità, nelle more della effettuazione della richiesta telematica, di inviare un modello contenente le autocertificazioni e dichiarazioni sostitutive richieste a mezzo PEC agli indirizzi indicati dall’Ispettorato del Lavoro.

Il mancato possesso del documento, qualora tenuti, espone a pesanti conseguenze sanzionatorie.

Si ritiene utile evidenziare che i requisiti per l’ottenimento della patente in questione non costituiscono una novità, essendo già previsti da tempo dalla normativa vigente.

I soggetti interessati, sono tutte le imprese ed i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, secondo la definizione contenuta nell’art. 89 del D. Lgs. n. 81/08.

Vale la pena di ricordare i principali requisiti richiesti ai fini del rilascio, come elencati, fra l’altro, dalla circolare INL n. 4:

  1. a) iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
  2. b) adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal D.lgs. n. 81/2008;
  3. c) possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;
  4. d) possesso del documento di valutazione dei rischi, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  5. e) possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’art. 17-bis, commi 5 e 6, del D.lgs. n. 241/1997, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  6. f) avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nei casi previsti dalla normativa vigente.

Specifiche disposizioni sono previste per i soggetti esteri e, per quanto riguarda le esclusioni, per i prestatori d’opera intellettuale e per coloro che effettuano mere forniture, nonché per chi sia in possesso di attestazione SOA di categoria III o superiore.

Nel tempo, oltre le norme e la prassi provenienti dagli enti preposti, sono state diffuse, come sopra evidenziato, risposte alle domande più frequenti.

Alcuni dubbi permangono, e per citare alcune questioni esemplificative, si prenda ad esempio la FAQ n. 11, emendata il 6.11.2024 rispetto alla sua iniziale estensione.

La risposta riguarda il professionista “operante fisicamente” in un cantiere in qualità di archeologo, professione che la FAQ stessa evidenzia come non soggetta ad iscrizione ad uno specifico Albo; a riguardo precisa la risposta: “Considerato che, per la richiesta della patente da parte di una impresa o lavoratore autonomo italiano, il campo “iscrizione alla CCIAA” è obbligatorio, per gli archeologi lavoratori autonomi tale dichiarazione va intesa come indicativa dei necessari requisiti professionali, come il possesso della partita IVA e l’iscrizione alla Gestione separata”.

Senza entrare nel merito, scopo fuori portata per questo breve scritto, del dubbio se sulla base di una risposta ad una FAQ (anche se certamente di fonte autorevole) una autocertificazione di iscrizione ad un determinato ente possa essere intesa eventualmente come di possesso di altri requisiti, l’inclusione di una libera professione come quella dell’archeologo pone, a parere di chi scrive, l’ulteriore dubbio se l’esercizio in un cantiere di altra libera professione che comporti l’iscrizione, ad esempio, ad un albo professionale, possa ricadere nell’obbligo, qualora ad esempio il professionista si trovi ad essere a qualche titolo presente in cantiere.

In altre parole, la domanda potrebbe essere: come si distingue oggettivamente la prestazione d’opera intellettuale, rispetto alla prestazione di un professionista che operi fisicamente all’interno di un cantiere?

Questo anche perché la circolare n. 4 dell’INL di cui sopra si è esposto, ribadisce come siano compresi tra i soggetti destinatari della norma “le imprese – non necessariamente qualificabili come imprese edili – e i lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri.

Un ulteriore chiarimento sarebbe auspicabile.

Altra questione riguarda l’obbligo del possesso del cosiddetto DURF di cui alla lettera e) dei requisiti sopra evidenziati, in particolare, per coloro che non possano entrare in possesso di tale documento, quali i soggetti che siano in attività da meno di tre anni.

Orbene, sia dottrina che prassi della Agenzia delle Entrate specificano che il possesso del DURF è alternativo agli adempimenti in presenza di appalti c.d. “Labour intensive”, secondo quanto previsto dalla normativa.

Chi operi in coerenza con detti adempimenti, potrebbe essere considerato non soggetto all’obbligo di possesso del “DURF”?

Anche per questo aspetto sarebbe necessario un chiarimento, e nello specifico anche se sul modello di domanda vada considerata la dicitura “esenzione giustificata” o “non obbligatorio”; nel primo caso sembra rientrare il caso dell’adempimento dell’appaltatore nei confronti del committente la cui alternativa è il possesso del DURF 1.

Per concludere questa breve disamina di alcune questioni connesse al nuovo obbligo previsto, si evidenzia un ulteriore adempimento connesso: quello previsto dall’art. 1 comma 6 del D.M. 132/2024, che prevede che i soggetti tenuti alla presentazione della domanda per l’ottenimento della “Patente a crediti” informino della presentazione della domanda stessa il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale entro cinque giorni dal deposito.

Risultando la nomina di una delle due figure (RLS ed RLST) alternativa all’interno delle questioni riguardanti la sicurezza sul lavoro di ciascuna azienda, sarebbe auspicabile un chiarimento su chi sia il destinatario della comunicazione di presentazione della domanda della “Patente” tra i due destinatari.

Concludendo, le questioni in evoluzione sono tante e verosimilmente verranno “dipanate” con l’evoluzione dell’istituto.

C’è da confidare che chi è deputato ad effettuare i controlli connessi tenga in considerazione gli aspetti controversi nella applicazione dello stesso.

In tal senso sembra muoversi la possibilità di procedere alla correzione di errori materiali riscontrati sulla richiesta online, previa segnalazione della presenza eventuale di tali errori all’INL (Avviso pubblicato il 30.10.2024).

*ODCEC Roma

____________________

1 Si vedano per ulteriori considerazioni: Circolare Agenzia delle
Entrate 12.2.2024 n. 1, e, ad esempio: Pagano M. “Requisito
del DURF controverso per il rilascio della patente a punti”, su Il
Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 2.10.2024;
Carpentieri C. “Patente a crediti e obbligo del DURF: quando si
presentano le deleghe F24 “ al committente si è “esenti giustificati””
IPSOA Quotidiano 15.11.2024

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di Paolo Soro*

 

Nella Gazzetta Ufficiale n. 236 del 08.10.2024 è stata pubblicata la Legge 07/10/2024 n. 143, di conversione, con modifiche, del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113, recante misure urgenti di carattere fiscale, proroghe di termini normativi e interventi di carattere economico. Per quanto di interesse in questa sede, l’art. 6 del decreto (tassazione dei redditi di talune categorie di lavoratori frontalieri) determina ulteriori novità nel settore che si applicano già a decorrere dal periodo d’imposta 2024 (ultimo comma della disposizione in parola).

Prima di tutto, però, è il caso di fare un breve riepilogo delle sottostanti vicende normative.

Dopo anni di trattative, il 23 dicembre 2020 l’Italia e la Svizzera hanno firmato un nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri che ha sostituito il precedente Accordo del 1974. Tra il 2021 e il 2023, i parlamenti dei due Stati hanno poi adempiuto ai passaggi necessari per la traduzione del testo in Legge dello Stato. Il 1° luglio 2023, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge italiana di ratifica 83/2023, è avvenuto l’ultimo di questi passaggi. Infine, il 18 luglio 2023, Italia e Svizzera hanno proclamato ufficialmente l’entrata in vigore del nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri, definendo anche le norme transitorie che disciplinano le differenti regole cui sono soggetti i “nuovi frontalieri” rispetto agli “attuali frontalieri”. In sostanza, restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974 per quanto attiene ai c.d. “attuali frontalieri”. Viceversa, coloro i quali arrivano nel mercato del lavoro come frontalieri a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo Accordo 2020, saranno considerati come “nuovi frontalieri” e, a essi, si applicherà il regime ordinario stabilito dall’ Accordo 2020. Ma torneremo più avanti sul punto.

Svolta questa necessaria premessa al fine di fornire una visione generale d’insieme, occorre ora preliminarmente ricordare come vengono inquadrati i frontalieri dalla normativa comunitaria. L’art. 1, lett. B, Reg. 1408/71/CEE, stabilisce che:

Il termine «lavoratore frontaliero» designa qualsiasi lavoratore che è occupato nel territorio di uno Stato membro e risiede nel territorio di un altro Stato membro dove, di massima, ritorna ogni giorno o almeno una volta alla settimana; tuttavia, il lavoratore frontaliero, che è distaccato dall’impresa da cui dipende normalmente nel territorio dello stesso o di un altro Stato membro, conserva la qualità di lavoratore frontaliero per un periodo non superiore ai 4 mesi anche se, durante detto distacco, non può ritornare ogni giorno o almeno una volta alla settimana nel luogo ove risiede.

Peraltro, questa definizione si applica solamente alla protezione sociale dei lavoratori in questione all’interno dell’Unione europea. In campo fiscale, le convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione che determinano il regime dei lavoratori frontalieri, fissano in genere definizioni maggiormente restrittive, che impongono pure un criterio spaziale, secondo il quale il fatto di risiedere e lavorare in una zona frontaliera in senso stretto, definita in modo spesso variabile in ciascuna convenzione fiscale, è considerato un elemento costitutivo del concetto di lavoro frontaliero.

Prima, però, di arrivare alle nuove regole in materia, ratificate nel recente nuovo Accordo Italia / Svizzera, appare opportuno richiamare anche le principali disposizioni correlate, dettate dal nostro Legislatore nazionale. In proposito, l’art.1, comma 175, L. 147/2013, oltre a stabilire una sorta di no-tax-area per i primi 7.500 euro di reddito prodotto, definisce il frontaliere esclusivamente come quel lavoratore che:

– ha la residenza fiscale italiana;

– presta il lavoro in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, in zone di frontiera, o in Stati limitrofi.

Per quanto concerne la residenza fiscale italiana, pare appena il caso di ricordare che, a decorrere dal 01/01/2024, il comma 2, art. 2, TUIR è cambiato, di tal guisa che, adesso:

Si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.

Relativamente a detta ultima novellata “presunzione di residenza” in caso di mancata iscrizione AIRE, si fa presente che il legislatore (Legge 213/2023) ha inasprito le sanzioni che possono essere comminate dai comuni a coloro che, avendo la residenza fiscale all’estero, non provvedano a iscriversi presso l’AIRE locale di riferimento (o quello nazionale) entro 90 giorni: da 200,00 fino a un massimo di 1.000,00 euro a persona, per ogni anno di mancata iscrizione all’AIRE, per un massimo di 5 anni.

Sempre riguardo alla residenza fiscale italiana, non è invece mutato il comma 2-bis dello stesso art. 2 del TUIR, che concerne i trasferimenti nei Paesi c.d. “ex black list”. Peraltro, la Svizzera è uscita dalla citata “lista nera” sempre con medesima decorrenza (2024). Dunque, le nuove regole relative alla residenza degli Italiani, si applicano anche con riferimento agli eventuali spostamenti in terra elvetica avvenuti a partire dal 1° gennaio 2024.

Sempre in ottica fiscale, si rammenta che i frontalieri sono esonerati dall’obbligo di compilazione del quadro RW limitatamente agli investimenti e alle attività estere di natura finanziaria detenute nel Paese in cui svolgono la loro attività lavorativa. Questo esonero vale anche per il coniuge e i familiari di primo grado, nel caso in cui risultino cointestatari, titolari o delegati del conto corrente ove viene accreditato lo stipendio. La predetta esenzione, peraltro, è collegata al periodo in cui il dipendente presta lavoro oltre frontiera e vale per l’intero anno fiscale se l’attività lavorativa è stata svolta all’estero in via continuativa per la maggior parte del medesimo periodo d’imposta.

Laddove si faccia rientro in Italia, l’esonero è limitato e condizionato al trasferimento delle attività detenute all’estero entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (Agenzia delle entrate, provvedimento 18 dicembre 2013, n. 151663). Attenzione che, per contro, non esiste il medesimo tipo di esenzione relativamente all’eventuale liquidazione dell’IVIE e dell’IVAFE, se dovute.

Relativamente ai documenti interni di prassi, la circolare 2/E-2003 dell’Agenzia delle entrate, ai fini della corretta individuazione dei redditi prodotti dal frontaliere, afferma:

La disposizione si riferisce ai soli redditi percepiti dai lavoratori dipendenti che sono residenti in Italia e quotidianamente si recano all’estero in zone di frontiera o in Paesi limitrofi per svolgere la prestazione di lavoro. Non rientrano, invece, le ipotesi di lavoratori dipendenti, anch’essi residenti in Italia che, in forza di uno specifico contratto, che preveda l’esecuzione della prestazione all’estero in via esclusiva e continuativa, soggiornano all’estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di un periodo di 12 mesi” (per i quali, di regola, si applicano le retribuzioni convenzionali).

 

Orbene, seppure come noto i trattati internazionali assumono valenza prioritaria rispetto alle leggi domestiche (Costituzione, art. 117; DPR 600/1973, art. 75) e, semmai, si applicano le norme interne in deroga agli accordi internazionali solo se più favorevoli rispetto a questi ultimi (TUIR, art. 169), in considerazione dei vari problemi che possono derivare da una non corretta individuazione della residenza fiscale, appare indispensabile tenere conto delle predette disposizioni nazionali.

Ciò risulta vieppiù rilevante proprio negli spostamenti Italia – Svizzera, posto che la Convenzione di riferimento prevede un’eccezione alla regola generale prevista in Italia in merito al periodo d’imposta nel quale i soggetti sono considerati fiscalmente residenti:

La persona fisica che ha trasferito definitivamente il suo domicilio da uno Stato contraente all’altro Stato contraente, cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio è determinante, non appena trascorso il giorno del trasferimento del domicilio. L’assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è determinante inizia nell’altro Stato a decorrere dalla stessa data (art. 4, par. 4, Convenzione tra la Repubblica italiana e la Confederazione svizzera).

Vediamo allora quanto in concreto è stato stabilito con la legge 83 del 16 giugno 2023 (in vigore dal 1° luglio, fermo restando quanto si dirà dettagliatamente in merito al periodo transitorio), tramite la quale il Parlamento Italiano ha ratificato il nuovo Accordo del 23 dicembre 2020 (e Protocollo aggiuntivo), tra l’Italia e la Svizzera, sull’imposizione fiscale dei lavoratori frontalieri.

L’Accordo (che sostituisce quello precedente del 3 ottobre 1974, così contestualmente variando le previsioni di cui al par. 4, art. 15, Convenzione Italia / Svizzera del 1976), ridefinisce il concetto di “lavoratore frontaliero”, precisando che è tale solo chi:

  1. è fiscalmente residente in un Comune il cui territorio si trova, parzialmente o totalmente, entro 20 km dalla frontiera;
  2. lavora come dipendente nell’area di frontiera dell’altro Stato;
  3. in linea di massima, rientra ogni giorno dal lavoro al proprio domicilio.

Relativamente al punto a, ritorna dunque di importanza fondamentale la corretta determinazione della residenza fiscale in ogni giorno dell’anno.

Per quanto attiene al punto b, le aree di frontiera sono così individuate:

– Svizzera: Cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese;

– Italia: Regioni Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, oltre alla Provincia Autonoma di Bolzano.

Con riguardo infine al punto c, nel Protocollo aggiuntivo viene specificato che:

A meno che le Autorità competenti [Ministero delle Finanze per l’Italia e Dipartimento Federale delle Finanze per la Svizzera] decidano diversamente, è consentito, in linea di principio, di non rientrare quotidianamente al proprio domicilio nello Stato di residenza, per motivi professionali, per un massimo di 45 giorni in un anno civile. I giorni di ferie e di malattia non sono conteggiati in questo limite. Se questo limite viene superato, la persona perderà lo status di frontaliere, ai sensi del nuovo Accordo del 2020, per l’anno interessato.

Non è ben chiaro cosa si intenda con il generico “motivi professionali”, ma si può facilmente ipotizzare che la disposizione voglia far riferimento, in generale, a qualunque motivo di carattere lavorativo, tanto che – come sopra riportato – subito dopo viene precisato che non sono da considerare, agli effetti del computo complessivo, le giornate di ferie e di malattia. Da tenere presente che il tenore letterale della norma, “massimo 45 giorni in un anno civile”, consente la possibilità di “sfruttare” detto periodo in più volte o anche in maniera continuata in un’unica occasione nel corso dello stesso anno. Resta il fatto che, in pratica, non sempre potrebbe risultare agevole dimostrare i predetti “motivi professionali”.

Sempre nel Protocollo aggiuntivo in questione, infine, vengono ulteriormente delimitati i contorni propri dei frontalieri, come coloro che svolgono un’attività di lavoro dipendente da intendersi con riferimento alla definizione di cui all’art. 7 dell’Allegato I dell’Accordo UE sulla libera circolazione delle persone. In particolare, con riferimento al paragrafo 2 di tale articolo, resta inteso che, per quanto concerne la Svizzera, le disposizioni si applicano ai lavoratori dipendenti che detengono un permesso per frontalieri (attualmente definito permesso “G” per persone provenienti da Paesi UE/AELS) che soddisfano le altre condizioni previste nell’Accordo. Se, successivamente all’entrata in vigore dell’Accordo, dovessero esservi apportate modifiche sostanziali, Italia e Svizzera si consulteranno rapidamente al fine di valutarne le eventuali conseguenze.

Come prima anticipato, è previsto un regime transitorio nel quale – di norma – restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974, che interessa i c.d. “attuali frontalieri”, identificati come coloro che:

  1. A) alla data di entrata in vigore del nuovo Accordo, svolgono; oppure
  2. B) tra il 31/12/2018 e la data di entrata in vigore del nuovo Accordo, hanno svolto

attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere.

Si ritengono sussistenti tali condizioni quando, in relazione all’attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera, il datore di lavoro ha versato le relative ritenute o ha provveduto alla notifica presso l’autorità fiscale cantonale competente. I predetti “attuali frontalieri”, dunque (fatto salvo quanto si dirà alla fine in tema di ultime novelle normative), continuano a essere soggetti a tassazione esclusiva (100%) in Svizzera, fino alla cessazione del rapporto di lavoro in essere. Il Protocollo aggiuntivo al riguardo precisa che detti frontalieri restano imponibili soltanto in Svizzera a prescindere da eventuali interruzioni del rapporto di lavoro oppure da cambi del datore di lavoro, quando continuino comunque a essere sussistenti i requisiti del lavoratore frontaliere e l’attività di lavoro dipendente sia svolta nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere. Detto in altri termini, non è sufficiente una variazione formale dell’odierno rapporto di lavoro in essere per poter passare da “attuale frontaliere” con regime transitorio (precedente Accordo), a “nuovo frontaliere” con regime ordinario (nuovo Accordo).

A proposito di imposizione, come altresì precisato nel Protocollo aggiuntivo, l’espressione “imposta sui redditi delle persone fisiche” designa le imposte ordinarie nazionali e locali alle quali sono assoggettati i lavoratori non residenti: in Svizzera, si tratta delle imposte federali, cantonali e comunali (con moltiplicatore medio del cantone di riferimento) sulle persone fisiche; in Italia, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonché delle addizionali regionali e comunali.

Ma vediamo allora le differenze tra vecchio e nuovo accordo.

Accordo 1974

  1. I salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta.
  2. I Cantoni interessati (Grigioni, Ticino, Vallese), ogni anno, dal 1976, nel corso del primo semestre dell’anno successivo a quello cui la compensazione finanziaria si riferisce, versano il 40% dell’ammontare lordo delle imposte sulle remunerazioni pagate durante l’anno solare dai frontalieri italiani, come compensazione delle spese sostenute dai Comuni italiani, a causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio ed esercitano un’attività dipendente sul territorio di uno dei predetti cantoni.

iii. Il versamento avviene in franchi svizzeri in un conto aperto presso la Tesoreria centrale italiana, intestato al Ministero del tesoro e denominato: “Compensazioni finanziarie per l’imposizione operata in Svizzera sulle remunerazioni dei frontalieri italiani”. Le autorità italiane provvederanno a ritrasferire dette somme ai Comuni nei quali risieda un adeguato numero di frontalieri, d’intesa – per i criteri di ripartizione e di utilizzo – con i competenti organi delle Amministrazioni locali interessate.

Accordo 2020

  1. I) I salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri e pagate da un datore di lavoro quale corrispettivo di un’attività di lavoro dipendente, sono imponibili nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta. Tuttavia, l’imposta così calcolata non può eccedere l’80% dell’imposta complessiva risultante dall’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche vigente nel luogo in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta, ivi incluse le imposte locali sui redditi. Lo Stato di residenza assoggetta a sua volta a tassazione ed elimina la doppia imposizione.
  2. II) Il nuovo carico fiscale totale sul reddito da attività di lavoro dipendente dei lavoratori frontalieri residenti in Italia previsto dal nuovo Accordo, non può essere inferiore all’imposta che sarebbe prelevata in applicazione del precedente Accordo sui lavoratori frontalieri del 1974.

III) L’imposizione dei lavoratori frontalieri nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta è effettuata tramite imposizione alla fonte. Qualsiasi altro metodo d’imposizione è escluso ai fini del presente Accordo.

  1. IV) Lo Stato di residenza del lavoratore frontaliere elimina la doppia imposizione sui salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri, in conformità alle disposizioni dell’articolo 24 della Convenzione contro le doppie imposizioni del 1976.
  2. V) La Svizzera, al fine di eliminare la doppia imposizione, prenderà in conto nella determinazione della base imponibile, le imposte prelevate, riducendo dell’80% l’importo lordo del salario, dello stipendio e delle altre remunerazioni analoghe ricevute dal lavoratore frontaliere fiscalmente residente in Svizzera.

L’art. 4 della Legge di ratifica del nuovo Accordo 2020, eleva la franchigia applicabile ai lavoratori frontalieri italiani, a decorrere dal periodo d’imposta 2024. Conseguentemente, il reddito da lavoro dipendente prestato all’estero in zona di frontiera, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano, concorre a formare il reddito complessivo per l’importo eccedente i 10.000 euro (fino al 31/12/2023, come già evidenziato, la franchigia era 7.500 euro).

Relativamente ai frontalieri elvetici, sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, l’imposta netta e le addizionali comunale e regionale all’IRPEF, dovute sui redditi derivanti da lavoro dipendente prestato in Italia, sono specularmente ridotte del 20%. Le riduzioni, da indicare nella CU, spettano comunque negli importi determinati dal sostituto d’imposta, anche nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione dei redditi.

L’Accordo introduce, inoltre, una “clausola anti-abuso”, in forza della quale, laddove l’autorità competente di uno degli Stati contraenti venga a conoscenza di uno o più casi di abuso evidente e manifesto delle disposizioni, tale autorità può sottoporre il caso o i casi all’autorità competente dell’altro Stato contraente, onde definire il corretto trattamento fiscale ai fini dell’Accordo.

Spostandoci, ora, nell’alveo previdenziale, un aspetto importante dell’Accordo è dedicato al “telelavoro frontaliero”, che viene qualificato come:

Un’attività che può essere svolta da un qualsiasi luogo e può essere eseguita presso i locali o la sede del datore di lavoro, e che presenta le seguenti caratteristiche:

  1. Viene svolta in uno o più Stati membri diversi da quello in cui sono situati i locali o la sede del datore di lavoro;
  2. Si basa su tecnologie informatiche che permettono di rimanere connessi con l’ambiente di lavoro del datore di lavoro o dell’azienda e con le parti interessate o i clienti, al fine di svolgere i compiti assegnati dal datore di lavoro, nel caso dei lavoratori dipendenti, o dai clienti, nel caso dei lavoratori autonomi.

L’Accordo si applica ai lavoratori dipendenti che svolgono abitualmente telelavoro transfrontaliero a condizione che la loro residenza sia in uno Stato firmatario e che la sede legale o il domicilio dell’impresa o del datore di lavoro siano situati in un altro Stato firmatario. I soggetti che ricadono nell’ambito di applicazione dell’Accordo sono i lavoratori ai quali, in seguito al telelavoro transfrontaliero abituale e per effetto delle norme generali contenute nei regolamenti comunitari, si applicherebbe la legislazione dello Stato di residenza. I lavoratori possono essere occupati da una o più imprese e, in tale ipotesi, è necessario che i datori di lavoro abbiano la loro sede legale o il loro domicilio in un unico Stato firmatario. Per contro, l’Accordo non si applica nei seguenti casi:

– esercizio abituale di un’attività diversa dal telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza, e/o;

– esercizio abituale di un’attività in un altro Stato diverso da quello di residenza del lavoratore o in cui ha la sede legale o il domicilio l’impresa, e/o;

– esercizio lavoro autonomo.

In tali situazioni e per tutte quelle non contemplate dall’Accordo, come espressamente previsto, resta comunque impregiudicata la possibilità di concludere un accordo su base individuale, ex regolamento (CE) 883/2004.

Restando in tema di diritto europeo (art. 14 del Reg. CE 987/2009), si ricorda che una persona residente in Italia che lavora in Svizzera, può lavorare da casa al massimo per il 24,99% del tempo di lavoro previsto dal contratto. In caso di superamento di questa soglia, l’autorità previdenziale italiana (INPS) acquisisce la facoltà di richiedere all’azienda svizzera l’incasso del relativo contributo in Italia. Nello specifico, il predetto istituto ha avuto modo di affermare (messaggio 1072/2024), che, in base a quanto stabilito dal nuovo Accordo Italia/ Svizzera:

Su domanda, la persona che svolge abitualmente telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza in misura inferiore al 50% del tempo di lavoro complessivo, può essere assoggettata alla legislazione di sicurezza sociale dello Stato in cui il datore di lavoro ha la sede legale o il domicilio.

L’Accordo, pertanto, introduce la possibilità di derogare alla regola generale per la determinazione della legislazione applicabile nei casi di esercizio dell’attività in due o più Stati membri, in base alla quale la persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato di residenza se esercita un’attività pari o superiore al 25% in detto Stato membro (cfr. art. 13, par. 1, lett. a, regolamento CE 883/2004, in combinato disposto con l’art. 14, par. 8 e 10, regolamento CE 987/2009).

In attesa della revisione dei regolamenti comunitari di sicurezza sociale e dell’adozione di una specifica disciplina del telelavoro transfrontaliero, l’Accordo pare offrire una soluzione che concili gli interessi di tutte le parti in causa. In particolare, l’Accordo garantisce ai lavoratori la possibilità di potere continuare a svolgere la prestazione da remoto nello Stato di residenza, senza che ciò comporti una modifica della legislazione applicabile e sia così salvaguardata anche la continuità assicurativa in un solo Stato membro. Per contro, i datori di lavoro non hanno alcun ulteriore obbligo o adempimento da effettuare nello Stato di residenza del lavoratore.

La legge di ratifica dell’Accordo precisa, infine, talune ulteriori regole di carattere previdenziale, che peraltro non pare necessitino di particolari approfondimenti.

  1. I) Contributi prepensionamenti

A decorrere dal periodo d’imposta 2024, i contributi previdenziali per il prepensionamento di categoria che, in base a disposizioni contrattuali, sono a carico dei lavoratori frontalieri nei confronti degli enti di previdenza dello Stato in cui gli stessi prestano l’attività lavorativa, sono deducibili dal reddito complessivo nell’importo risultante dalla documentazione concernente l’effettivo sostenimento degli stessi.

  1. II) Assegni familiari

Sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, sono esclusi dalla base imponibile IRPEF, gli assegni di sostegno al nucleo familiare erogati dagli enti di previdenza dello Stato in cui il frontaliere presta l’attività lavorativa.

III) Naspi

A meno che l’importo della Naspi risulti comunque superiore all’indennità di disoccupazione prevista dalla legislazione svizzera (cosa, invero, assai improbabile), la Naspi per i frontalieri è calcolata per i primi 3 mesi in misura pari all’importo erogabile, in caso di disoccupazione, ai sensi della legislazione svizzera, secondo le modalità stabilite dall’art. 65, par. 6, II periodo, regolamento CE 883/2004, che risulta applicabile in forza dell’Accordo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Confederazione svizzera dall’altra, sulla libera circolazione delle persone.

Venendo ora, in sede conclusiva, alle recenti novità pubblicate l’8 ottobre 2024, a fronte del complessivo scenario fiscale sopra delineato, interviene la novella recata dall’art. 6, d.l. 113/2024.

I lavoratori possono optare per l’applicazione, sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera, di un’imposta sostitutiva di IRPEF e addizionali, pari al 25% delle imposte applicate in Svizzera sugli stessi redditi, se sussistono le seguenti condizioni:

  1. a) Il lavoratore si qualifica come frontaliere in base al nuovo Accordo del 2020;
  2. b) Il lavoratore, alla data di entrata in vigore del predetto Accordo, era qualificato come “attuale frontaliere”;
  3. c) I redditi sono assoggettati a tassazione in Svizzera secondo i criteri indicati sempre nel nuovo Accordo del 2020.

A tal riguardo, le imposte pagate in Svizzera sui redditi assoggettati all’imposta sostitutiva non sono ammesse in detrazione. L’opzione è esercitata dal lavoratore nella propria dichiarazione dei redditi. Il versamento dell’imposta sostitutiva è eseguito entro il termine per il versamento a saldo delle imposte sui redditi. L’ammontare delle imposte applicate in Svizzera è convertito in euro sulla base del cambio medio annuale del periodo d’imposta in cui i redditi sono percepiti. Per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, si applicano, in quanto compatibili, le ordinarie disposizioni in materia di imposte dirette. L’opzione per l’imposta sostitutiva può essere esercitata anche dai lavoratori dipendenti, qualificati come “attuali frontalieri”, residenti nei comuni delle province di Brescia e di Sondrio, inclusi nell’elenco allegato al decreto. Infine, i lavoratori che esercitano l’opzione in argomento, detraggono dall’imposta sostitutiva un importo pari al 20% dei contributi dovuti per il SSN sulla base delle regole e delle aliquote stabilite dalla regione di residenza.

Al di là delle novità di carattere fiscale di cui sopra, pare opportuno richiamare l’attenzione sulla novella concernente i comuni interessati dalla normativa.

In passato, non esisteva un elenco definito di comuni italiani considerati frontalieri; la Svizzera gestiva tale elenco unilateralmente, includendo solo i comuni situati entro 20 chilometri dal confine con i cantoni: Grigioni, Ticino e Vallese. Con il nuovo Accordo, è stato definito un elenco ufficiale di 72 comuni italiani situati entro 20 chilometri dal confine svizzero, che non erano stati precedentemente inclusi. Ciò consente ai residenti di tali comuni di accedere al nuovo regime fiscale, pur non avendo di fatto beneficiato del vecchio regime dei frontalieri. Per l’elenco di tutti i comuni italiani interessati, si rimanda agli allegati 1 e 2 del decreto.

*ODCEC Roma

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