NATURA UMANA E FUTURO DEL LAVORO
di Giovanni Dall’Aglio*
Nel famoso dialogo sulla “natura umana” del 1971 tra Noam Chomsky e Michel Foucault1, Chomsky teorizza l’esistenza di un fondamento reale, assoluto, della natura umana che risiede nell’espressione della propria capacità creativa. Una facoltà naturale che tende ad opporsi ad ogni forma di coercizione; la stessa facoltà che esprime ad esempio un bambino che, di fronte a situazioni nuove come imparare la lingua madre, reagisce e pensa in modo diverso pur senza impararne le regole. La mente come qualcosa di contrapposto al mondo fisico. Seguendo Chomsky quindi, se il bisogno fondante della natura umana risiede nella ricerca creativa, una società giusta dovrebbe metterci nelle condizioni di massimizzare tale potenziale.
Eppure, se osserviamo l’identikit del lavoratore moderno, per la gran parte dei casi risulta difficile sostenere che stia esprimendo la propria natura in termini di libertà creativa e interessi. Non a caso le statistiche recenti mostrano che solo il 5% è “felice” al lavoro2. La reazione a questo stato delle cose è spesso ambivalente: c’è chi cambia lavoro senza acquisire nuove competenze o seguire i propri interessi, e chi invece rimane forzatamente. Sbagliano entrambi, esprimendo due facce della stessa medaglia, e cioè la fuga da se stessi.
Spesso i lavoratori si autoconvincono di stare nel posto giusto perché tutto il loro cammino li ha portati dove sono in quel momento, coerentemente con i propri studi, curriculum e percorsi di carriera. Di fronte al proprio malessere reagiscono cambiando lavoro, cercando retribuzioni maggiori e nuovi stimoli, che però non arriveranno perché continueranno
1 “Noam Chomsky & Michel Foucault Debate – ‘On human nature’” 1971.
2 Osservatorio HR Innovation Pratice della School of Management del Politecnico di Milano
a fare lo stesso tipo di lavoro che li rendeva già tristi prima. Nascondono così il proprio malessere dietro il consumo di cose principalmente inutili, ma che dia un senso ai soldi che guadagnano. Non colgono un aspetto fondamentale, e cioè che un curriculum fatto solamente di anni e liste di lavori non è futuribile se non rappresenta la loro vera natura.
Reid Hoffman, fondatore di Linkedin, descrivendo il futuro del mondo del lavoro, sostiene che il curriculum inteso come lista di anni di esperienza spesi a svolgere un dato lavoro, non avrà più significato. Alle aziende interesserà maggiormente il bagaglio di competenze acquisite sulla base di un portfolio di progetti che delineino la creatività e l’identità del lavoratore. In questo senso, il proprio “brand” digitale si configurerà come il nuovo CV. Sempre Hoffman sostiene che, grazie a quella che potremmo chiamare “rivoluzione delle competenze”, il 50% della popolazione statunitense sarà freelance entro un decennio. Per molti sarà una scelta che consentirà loro di sfruttare la propria competenza e creatività, lavorare a progetti che interessano veramente e soprattutto, guadagnare di più.
Questa visione del futuro apre a diverse riflessioni. Da un lato, dobbiamo essere consapevoli che stiamo per vivere un’epoca di opportunità senza precedenti: intelligenza artificiale, internet e creator economy
consentono di monetizzare le proprie passioni e competenze abbandonando vecchi stili di lavoro, dando un significato diverso al lavoro, più incline alla nostra vera natura creativa. Dall’altro però, chi non ha formazione, competenze e passioni adeguate, rischia di rimanere travolto dall’onda. O chi, pur avendo le competenze adeguate, si improvvisa freelance senza una progettualità. Per queste ultime tipologie di lavoratori, la Gig Economy si configurerà di più come “economia dei lavoretti”, e potrebbe non essere sostenibile a lungo termine, costringendo i lavoratori ad avere più impieghi simultanei, sempre più frammentati e incerti. Gli studi scientifici, infatti, esprimono preoccupazione riguardo alla gig economy per la sua natura precaria, la mancanza di protezioni sociali, e l’impatto negativo sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro, rendendo difficile una vera e propria realizzazione professionale e personale nel lungo termine.
Il tema è quindi complesso, e per questo i policy maker dovrebbero farsene carico, rivisitando le politiche di formazione e protezione sociale in chiave moderna, permettendo ai giovani di avere una panoramica completa che consenta loro di perseguire la propria natura con maggiore consapevolezza, senza superficialità. Per esempio, introducendo durante il percorso formativo dei corsi per contrastare l’analfabetismo finanziario, o dei corsi che diano una panoramica sulle possibilità per intraprendere una propria attività sfruttando internet, intelligenza artificiale e creator economy, evidenziando opportunità e rischi di breve e lungo termine, unitamente ad aspetti fiscali e previdenziali. Altrimenti rischiamo di perderli dietro ai vari trader improvvisati in rete, i famosi “fuffaguru”.
L’evoluzione del mondo del lavoro non è necessariamente una minaccia, ma un modo per ridefinire il concetto di successo. Nella convinzione che, qualsiasi posizione il lavoratore avrà raggiunto, questa non potrà definirsi di successo se è contraria alla propria natura.
Diceva Wilhelm von Humboldt3: “Ciò che non nasce dalla libera scelta di un uomo, o che è solo il risultato di istruzione e guida, non entra a far parte del suo vero essere, ma resta estraneo alla sua natura autentica; egli non lo compie con energie veramente umane, ma soltanto con esattezza meccanica…
…possiamo ammirare ciò che fa, ma disprezziamo ciò che è.”
*Ingegnere e PhD in Trieste
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3 “The Limits of State Action” by Wilhelm von Humboldt (1792)