La Commissione di Certificazione dei contratti di lavoro è stata istituita in Italia con il Decreto Legislativo n. 276/2003 (Decreto Biagi) per rispondere alla crescente esigenza di maggiore chiarezza e trasparenza nei rapporti di lavoro. L’obiettivo principale è verificare che i contratti di lavoro siano conformi alla normativa nazionale e ai diritti dei lavoratori, garantendo sia la correttezza delle caratteristiche contrattuali sia la qualificazione adeguata del rapporto di lavoro.

Accanto alla funzione di ridurre il contenzioso, la legge assegna alle Commissioni di certificazione anche altri compiti volti a raggiungere diversi obiettivi, come supportare le parti nel chiarimento della loro volontà negoziale o consentire la cosiddetta “derogabilità assistita”, ovvero la possibilità di derogare a clausole o diritti disponibili con l’assistenza di un terzo soggetto.


Funzioni principali delle Commissioni

  • Certificazione dei contratti di lavoro (art. 75, D.Lgs. 276/2003): garantire una qualificazione chiara e certa dei rapporti di lavoro.
  • Certificazione dei contratti di appalto (art. 84): distinguere tra appalto legittimo e somministrazione di lavoro non conforme.
  • Certificazione di rinunce e transazioni riguardanti i diritti derivanti da un rapporto di lavoro, rendendole inoppugnabili ai sensi dell’art. 2113 c.c. (art. 82).
  • Consulenza e assistenza alle parti contrattuali: focalizzata sulla disponibilità dei diritti e sulla corretta qualificazione dei contratti di lavoro (art. 81).
  • Certificazione delle clausole compromissorie: le parti scelgono di affidare eventuali controversie a un collegio arbitrale (art. 31, legge 183/2010).
  • Certificazione dell’assenza dei requisiti per applicare la disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione (art. 2, D.Lgs. 81/2015).

Ambiti di applicazione

La certificazione dei contratti di lavoro può essere effettuata da diverse commissioni istituite presso:

  • Ispettorati Territoriali del Lavoro (ITL).
  • Università (pubbliche o private) e fondazioni universitarie attraverso i dipartimenti specializzati in diritto del lavoro.
  • Ordini professionali dei consulenti del lavoro.
  • Enti bilaterali.

di Matteo D’Ambrosio
Noi & il lavoro | Gennaio – Febbraio 2025 – Anno V n. 1


Esempio pratico

Un esempio concreto della fattibilità e dell’utilità della Commissione è rappresentato dalla convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e l’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma, che ha dato vita a una collaborazione concreta e mirata.

La certificazione può essere attivata su iniziativa volontaria, tramite richiesta del prestatore di lavoro o del datore di lavoro.


Il processo di certificazione

Il processo si articola in diverse fasi:

  • Presentazione dell’istanza
  • Verifica della documentazione
  • Eventuale audizione delle parti
  • Rilascio del certificato, qualora i requisiti siano soddisfatti

La procedura deve essere completata entro 30 giorni dalla ricezione della domanda o dalle integrazioni eventualmente richieste dalla Commissione. È possibile presentare ricorso al TAR entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento di certificazione.

Al termine del processo, la Commissione redige un atto formale di certificazione, avente valore di provvedimento amministrativo motivato. Tale atto:

  • Specifica i mezzi di impugnazione disponibili
  • Indica i termini per farvi ricorso
  • Identifica l’autorità competente
  • Include gli effetti civili, amministrativi, previdenziali e fiscali legati alla certificazione

Per i contratti già in atto, gli effetti della certificazione si applicano retroattivamente all’inizio del rapporto, se la Commissione verifica che il contratto sia stato attuato conformemente ai termini da certificare. Per i contratti sottoposti a certificazione prima della firma, gli effetti decorrono solo dopo la sottoscrizione, incluse eventuali integrazioni o modifiche deliberate dalla Commissione.

La certificazione può essere opposta, fino a una sentenza definitiva, a soggetti terzi come:

  • Organismi ispettivi e di vigilanza
  • Istituti previdenziali e assistenziali
  • Amministrazione finanziaria
  • Ispettorato Nazionale del Lavoro

L’opposizione può essere invalidata qualora un magistrato civile o amministrativo accolga uno dei ricorsi previsti dalla legge.


Motivi di opposizione

I principali motivi di opposizione includono:

  1. Errore nella qualificazione del rapporto di lavoro, dovuto a disaccordi tra organismi di controllo (es. INPS e INL) sulla natura subordinata o autonoma.
  2. Vizi formali o procedurali, come la mancata audizione delle parti o l’incompletezza della documentazione, che possono portare all’annullamento della certificazione.
  3. Contrarietà alla normativa vigente, se vengono violate norme inderogabili o contratti collettivi, in particolare in relazione a diritti fondamentali (ferie, retribuzione minima, sicurezza sul lavoro).
  4. Frodi o abusi nella certificazione da parte del datore di lavoro, finalizzati a mascherare sfruttamento o a eludere obblighi contributivi e fiscali.
  5. Ricorsi giudiziari:
    • Ricorso ex art. 80, D.Lgs. n. 276/2003, per impugnare l’atto presso il tribunale del lavoro.
    • Ricorso amministrativo, presentabile presso il giudice amministrativo per questioni di legittimità del provvedimento.

Fintanto che non venga emessa una sentenza definitiva di annullamento, la certificazione mantiene la sua efficacia legale e vincolante; durante tale periodo, gli Organismi di vigilanza non possono modificare la qualificazione del contratto certificato.


Confronti internazionali

Adottando una prospettiva più ampia, si possono individuare meccanismi analoghi in altri paesi, sebbene con approcci differenti:

  • Regno Unito: Gli “Employment Tribunals” risolvono controversie lavorative, ma non esiste un sistema preventivo di certificazione.
  • Francia: I “Conseils de Prud’hommes” trattano le dispute contrattuali solo quando sorgono.
  • Germania: I Tribunali del lavoro intervengono ex post, una volta sorte le controversie.
  • Stati Uniti: Il Dipartimento del Lavoro (DOL) e l’IRS monitorano la classificazione dei lavoratori, ma manca un meccanismo preventivo simile a quello italiano.

Considerazioni finali

In qualità di giovane commercialista, ritengo che la Commissione di Certificazione dei Contratti di Lavoro rappresenti un istituto di notevole supporto, in grado di garantire maggiore chiarezza e sicurezza per le parti stipulanti. Sebbene presenti vantaggi evidenti, la certificazione non risolve tutti i problemi: la complessità, la burocrazia e la non totale vincolatività possono dissuadere le piccole e medie imprese dall’adottarla, soprattutto in relazione a costi e tempi lunghi rispetto a benefici immediati.

Si auspica, inoltre, una maggiore semplificazione e accessibilità all’istituto, supportata da:

  • Digitalizzazione dei processi
  • Creazione di un team di esperti qualificati in grado di fornire supporto e consulenze a costi sostenibili

L’Italia si distingue come l’unico paese, tra quelli analizzati, ad aver istituito un sistema di certificazione preventiva, anticipando le controversie e promuovendo una visione proattiva e innovativa del diritto al lavoro, in linea con i principi sanciti dall’art. 4 della Costituzione.

ODCEC Napoli

La Legge di Bilancio per il 2025 ha modificato in maniera rilevante la tassazione del reddito di lavoro
prevedendo una detrazione e un trattamento integrativo aggiuntivi per titolari di redditi entro determinate fasce, rimodellando le detrazioni per figli e familiari a carico, concludendo con l’introduzione di un tetto complessivo al limite di detrazione collegato al doppio requisito redditonumero di figli presenti all’interno del nucleo familiare.

L’eliminazione dell’esonero contributivo, previsto fino al 31.12.2024 per la generalità dei dipendenti ha modificato il cuneo fiscale sui redditi da lavoro dipendente con una configurazione molto differente alla precedente in cui emerge un vantaggio per le famiglie con un numero di figli a carico superiori a due, ma vediamo nel dettaglio la nuova struttura.

L’art. 1 della Legge di Bilancio per il 2025 conferma e stabilizza le tre aliquote IRPEF introdotte dal D.lgs. 216/2023 oltre a confermare e stabilizzare le detrazioni già previste dal periodo d’imposta 2024 per redditi da lavoro dipendente.

La Legge di Bilancio Introduce, una nuova detrazione per i titolari di reddito da lavoro dipendente superiore a 20.000 euro ed entro i 40.000 euro modulata come nella tabella seguente:

Infine, prevede un trattamento integrativo aggiuntivo rispetto al trattamento integrativo introdotto dall’art. 1 del DL 3/2020, per i soli titolari di redditi entro i 15.000 euro, il già menzionato trattamento integrativo determinato in misura % andrà ad affiancarsi al precedente secondo il seguente schema:

La Legge di Bilancio ha inoltre modificato le detrazioni per figli a carico con età superiore a 21 anni, introducendo un tetto al limite di età per considerarli fiscalmente a carico, fissandolo nel trentesimo anno di età, con la sola esclusione per i figli disabili ai sensi della Legge 104. Per gli altri familiari fiscalmente a carico è stata mantenuta esclusivamente la detrazioni di 750 euro per gli ascendenti conviventi.
A completamento è stato introdotto un tetto alle detrazioni complessive per i titolari di redditi superiori a 75.000 euro, da modulare in base ad un coefficiente crescente per nuclei familiari composti da un numero di figli non superiore a due

Per i nuclei familiari con tre e più figli non si applica alcuna riduzione al tetto delle detrazioni complessivamente ammesse in riduzione delle imposte per ciascun anno.
Dal predetto tetto rimangono escluse le detrazioni per: spese sanitarie, le somme detraibili per investimenti in start-up o pmi innovative, interessi passivi su mutui contratti fino al 31.12.2024 e per premi di assicurazione relativi al rischio morte/ invalidità permanente o rischi catastrofali contratti entro lo stesso termine.

Rimangono escluse dal tetto anche le quote annue per interventi di recupero del patrimonio edilizio, riqualificazione energetica, super bonus ecc… per interventi conclusi fino al 31.12.2024.

La modifica della tassazione dei redditi di lavoro dipendente è stata accompagnata dall’eliminazione dello sgravio posto a favore della generalità dei dipendenti cancellando la precedente riduzione prevista fino al 31.12.2024.

La legge di bilancio introduce uno sgravio della quota IVS limitato alle madri lavoratrici.
Il predetto sgravio è riservato agli anni 2025 e 2026 alle lavoratrici dipendenti, autonome anche titolari di redditi da partecipazione che abbiano almeno due figli di cui il minore di età non superiore a 10 anni di età, mentre dal 2027 sarà limitato alle madri di almeno tre figli di cui il minore non abbia superato i 18 anni di età.

Il predetto sgravio non sarà cumulabile con il bonus mamme già introdotto dalla Legge di bilancio per il 2024 e ancora in vigore fino al 2026 per le madri di tre e più figli. Dalla lettura congiunta della normativa si deduce pertanto un rilevante vantaggio per i nuclei familiari numerosi e una riduzione della tassazione per i redditi superiori a 20.000 con invarianza di tassazione o aumento delle trattenute complessive per i redditi più bassi.

Tuttavia alla data odierna non è ancora possibile misurare l’impatto complessivo in quanto non è ancora nota la misura dello sgravio riservato alle madri che dovrà essere stabilito da un decreto congiunto tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Mise.

*ODCEC Lucca

di Oriana Costantini* e Bruno Anastasio**

L’ENASARCO (Ente Nazionale Assistenza per gli Agenti e i Rappresentanti di Commercio) è una fondazione assistenziale per la gestione della previdenza obbligatoria e l’assistenza dei professionisti che svolgono intermediazione commerciale e finanziaria con contratto di agenzia o di rappresentanza.

Le prestazioni previdenziali gestite dall’Enasarco sono di tipo integrativo. Infatti, sia gli agenti che i rappresentanti di commercio sono soggetti a doppia contribuzione: la prima da effettuare all’Inps alla Gestione Commercianti e la seconda da effettuare ad Enasarco.

L’Enasarco (inizialmente ENFASARCO) viene istituito nel 1939, dal Regio Decreto n. 1305 del 06 giugno 1939 ed oggi gestisce più di trecentomila posizioni contributive attive e centomila ditte mandanti obbligate alla contribuzione.
Sono obbligati all’iscrizione al Fondo di previdenza Enasarco tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio che operano in forma individuale, societaria o associativa, indipendentemente dalla tipologia giuridica della società, che operano su tutto il territorio nazionale per conto di aziende mandanti italiane o straniere e che abbiano sede in Italia. Si precisa che gli agenti che operano in
forma societaria, sia essa di capitali o di persone, sono tenuti all’iscrizione in Enasarco ed in particolar modo, per le società in nome collettivo tutti i soci devono essere iscritti obbligatoriamente all’Enasarco; mentre per le società in accomandita semplice l’obbligo vige solo per i soci accomandatari salvo casi particolari previsti dall’art. 2314 comma 2 del Codice Civile, che disciplina i soci
accomandanti che prestano il loro consenso a far sì che il loro nome sia compreso nella ragione sociale e che in virtù di questo rispondono di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari.

L’iscrizione deve avvenire ad opera della ditta mandante, che ha l’obbligo di provvedervi entro trenta giorni dalla sottoscrizione del mandato. Al momento della prima iscrizione viene assegnato il numero di matricola all’agente (di cui si andrà ad indicare se trattasi di agente plurimandatario o monomandatario), il numero di posizione alla ditta mandante e il numero identificativo alle società di agenzia.

Il contributo previdenziale obbligatorio, da calcolarsi su tutte le somme dovute all’agente a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di agenzia anche se non ancora liquidate, compresi acconti e premi, è del 17% e viene versata dalla ditta mandante, che ne è responsabile, trimestralmente. L’8,50% è a carico dell’agente che applica la ritenuta in fattura, mentre l’altro 8,50% è a carico della ditta mandante.

Fanno eccezione i preponenti che si avvalgono di agenti che svolgono la loro attività in forma di società di capitali. In questo particolare caso, l’aliquota contributiva complessiva è pari al 4%, di cui l’1% a carico dell’agente, mentre il tre 3% è a carico della ditta mandante.

Il contributo previdenziale è calcolato su tutte le somme dovute a qualsiasi titolo all’agente (provvigioni, rimborsi spese, premi di produzione, indennità di mancato preavviso) in dipendenza del rapporto di agenzia e viene versato all’Enasarco trimestralmente, secondo le seguenti scadenze: 20 maggio per le provvigioni maturate nel primo trimestre; il 20 agosto per le provvigioni maturate nel secondo trimestre; il 20 novembre per le provvigioni maturate il terzo trimestre ed infine il 20 febbraio dell’anno successivo per le provvigioni maturate il quarto trimestre.

Per il calcolo dei contributi si deve tener conto di un massimale e di un minimale provvigionale annuo. Per gli agenti plurimandatari il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 29.818 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 5.069,06 euro), mentre il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 502 euro (125,50 euro a trimestre). Per gli agenti monomandatari, invece, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 44.727 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 7.603,59 euro), mentre il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 1.002 euro (250,50 euro a trimestre).

Inoltre, il 31 marzo di ogni anno la ditta mandante ha l’obbligo di elaborare e di versare la quota da accantonare al FIRR. L’importo del contributo FIRR, che è completamente a carico della ditta mandante, viene calcolato tenendo conto sia delle provvigioni liquidate nell’anno solare precedente, sia della tipologia del mandato (se plurimandatario o monomandatario) e sia dei mesi di durata del rapporto di agenzia: per i plurimandatari il calcolo del contributo avviene in questo modo: il 4% fino a 6.200 € di provvigioni, il 2% dai 6.200,01 a 9.300,00 di provvigioni e l’1% oltre i 9.300,00 di provvigioni maturate; per i monomandatari invece è previsto il 4% fino a 12.400,00€ di provvigioni, il 2% da 12.400,01 a 18.600,00 € e l’1% oltre i 18.600,00.

Che cosa è il FIRR? Il FIRR è il Fondo indennità di risoluzione del rapporto ed è costituto dalle somme che vengono accantonate presso Enasarco dalle aziende mandanti in favore dei propri agenti. Alla cessazione del mandato di agenzia, La Fondazione Enasarco liquida all’agente le relative cifre accantonate, applicando una ritenuta d’acconto del 20% per gli agenti che operano o in forma individuale o costituiti in società di persone. Entro 30 giorni dalla fine del rapporto di agenzia, il preponente, compilando il modello online presente in “Gestione mandati” deve dare comunicazione alla Fondazione, che provvederà alla liquidazione tramite bonifico bancario.

Da attenzionare è la quota di FIRR relativa all’ultimo anno di cessazione del mandato, in quanto questa deve essere corrisposta direttamente all’agente, operando la ritenuta d’acconto del 20% nel caso di agente individuale o società di persone, e non può essere in alcun modo versata direttamente all’Enasarco. L’importo versato all’agente e la ritenuta operata e successivamente versata all’Erario, saranno certificate dall’ENASARCO tramite l’invio al soggetto percipiente di una certificazione.

Una problematica importante, su cui è necessario far luce, è quella che si riscontra nella gestione di contratti con ditte mandanti estere. La normativa di riferimento ha subito diverse modifiche nel corso del tempo. Infatti, inizialmente la legge n. 12/1973 art. 5 comma 1 prevedeva “l’obbligo di iscrizione alla Fondazione ENASARCO per tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio che operano sul territorio nazionale per nome e per conto di preponenti italiani o preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia” oppure “l’obbligo per tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”. Nel 2004, il Regolamento delle attività istituzionali Enasarco, all’art. 2 comma 1 stabiliva che “Sono obbligatoriamente iscritti al Fondo di previdenza della Fondazione tutti i soggetti che operino sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia.”

Nel 2013 il Regolamento delle attività istituzionali cambia nuovamente e cambia anche l’articolo 2 che al secondo comma ora recita: “Resta ferma l’applicazione delle norme dell’Unione Europea e delle convenzioni internazionali in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.” Poiché l’introduzione di tale modifica suscitò non pochi dubbi circa l’obbligo di iscrizione alla Fondazione Enasarco per gli agenti di ditte italiane operanti all’estero, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata propose interpello al Ministero del Lavoro, al cui quesito rispose la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il 19 novembre 2013, che ha previsto l’obbligo di iscrizione alla Fondazione ENASARCO per gli agenti di commercio italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri, anche se privi di sede o dipendenza in Italia agli agenti che risiedono in Italia e vi svolgono una parte sostanziale della loro attività; agli agenti che non risiedono in Italia, purché abbiano in Italia il proprio centro d’interessi; agli agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero, purché la durata di tale attività non superi i 24 mesi. Pertanto, ad oggi la normativa non lascia spazio più ad alcun dubbio di interpretazione: a norma del Regolamento delle Attività Istituzionali della Fondazione Enasarco la preponente straniera è obbligata al versamento dei contributi in favore dell’agente quando quest’ultimo operi sul territorio italiano, e la preponente abbia sede o una qualsiasi dipendenza (filiale, ecc…) in Italia. Rientrano in questa fattispecie anche gli agenti italiani operanti in zona estera, per conto di preponenti con sede o dipendenza in Italia, ma residenti in Italia dove svolgono la parte sostanziale dell’attività di agenzia diversa dalla mera visita personale ai clienti; per questi soggetti l’iscrizione e la contribuzione sono obbligatorie (come a suo tempo stabilito con O.d.S. n. 7/2004 del 26/4/2004 sotto la rubrica “Art. 2 – Obbligo di iscrizione al Fondo Previdenza”) ai sensi sia del comma 1 sia del comma 2, in applicazione dei principi dell’U.E., proprio perché parte sostanziale dell’attività è pur sempre svolta in Italia, ove non a caso si producono anche gli effetti giuridici rilevanti ai fini della normativa fiscale.

Nell’Unione Europea i sistemi previdenziali dei Paesi membri sono coordinati dal Regolamento C.E. 24 aprile 2004, n. 883, direttamente applicabile con forza di legge in ciascuno degli Stati membri. In virtù di tale Regolamento i preponenti dell’Unione Europea sono tenuti all’iscrizione e alla contribuzione presso la Fondazione: per gli agenti operanti in Italia, in virtù del principio della lex loci laboris che prevede parità di trattamento previdenziale e, quindi, di concorrenza fra tutti i lavoratori all’interno di uno stesso Paese; per gli agenti operanti in Italia e all’estero, purché l’agente risieda in Italia e vi svolga parte sostanziale della sua attività; per gli agenti operanti in Italia e all’estero che non risiedano in Italia, purché l’agente abbia in Italia il proprio centro d’interessi (valutato in riferimento al numero dei servizi prestati, alla durata dell’attività, alla volontà dell’interessato); per gli agenti operanti abitualmente in Italia e che si rechino a svolgere attività esclusivamente all’estero purché la durata di tale attività non superi i ventiquattro mesi. L’iscrizione alla Fondazione avviene sulla base di moduli predisposti in lingua inglese di contenuto analogo a quello previsto per i preponenti aventi sede o dipendenza in Italia.

Infine, se la preponente è extracomunitaria deve adempiere agli obblighi previdenziali italiani (e quindi al versamento dei contributi previdenziali Enasarco) se ciò è previsto da trattati o accordi internazionali tra l’Italia ed il Paese straniero, in cui la preponente ha sede. Nei casi diversi da quelli disciplinati al comma 1, è prevista la possibilità per l’agente di chiedere comunque alla Fondazione l’iscrizione dei rapporti di agenzia e, una volta ottenuta tale autorizzazione, di effettuare a suo esclusivo carico i versamenti contributivi. La facoltà di chiedere l’autorizzazione all’iscrizione e alla contribuzione sostitutiva, pertanto, può essere esercitata: dall’agente operante totalmente ed esclusivamente all’estero; dall’agente operante in Italia, totalmente o per una parte sostanziale, per conto di preponenti di Paesi esterni all’U.E. che non abbiano sottoscritto trattati o accordi internazionali di tutela sociale; dall’agente operante in Italia, totalmente o per una parte sostanziale dell’attività, per conto di preponenti dell’Unione Europea o per conto di Paesi esterni all’U.E. obbligati alla tutela sociale di diritto italiano in virtù di trattati internazionali. I contributi sostitutivi saranno determinati ai sensi degli articoli 4 e 5 del Regolamento delle Attività Istituzionali, senza differenze rispetto alle regole ivi dettate (aliquota contributiva da applicare su tutte le somme dovute all’agente, massimali provvigionali, minimali contributivi, ecc.). La domanda di iscrizione e di contribuzione sostitutiva potrà essere effettuata esclusivamente attraverso il modello predisposto dalla Fondazione che nel termine massimo di 90 giorni può rilasciare l’autorizzazione previe opportune verifiche. Nel corso di questi novanta giorni la Fondazione può richiedere anche documentazione integrativa atta a dimostrare la veridicità di quanto dichiarato dall’agente. Infine, ENASARCO fornirà le opportune linee guida per poter effettuare i versamenti contributivi.

La Fondazione Enasarco esercita un’importante attività ispettiva, per l’accertamento della natura del rapporto di agenzia e l’osservanza degli obblighi contributivi da parte delle ditte mandanti. L’attività ispettiva svolta dalla Fondazione produce annualmente migliaia di accertamenti con importanti risultati. Attraverso l’area riservata in Enasarco, le ditte possono denunciare spontaneamente i mancati versamenti; gli agenti possono segnalare la non osservanza degli obblighi contributivi da parte delle aziende. Di rilevante importanza è che l’omesso versamento dei contributi Enasarco per gli agenti di commercio non configura il reato di cui all’articolo 2 del D.L. 463/1983, ma è prevista la sola sanzione amministrativa disciplinata dall’articolo 36 del relativo regolamento. Tale reato, infatti, è previsto solo per le omissioni dei pagamenti (di importo superiore a 10.000 euro) relativi alle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, e non anche per quelle relative ad altre forme di ritenute previdenziali. La Cassazione con la sentenza n. 31900 del 03.07.2017 ha stabilito l’insussistenza del reato in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali a danno di un agente di commercio. Diversa cosa accade invece per gli agenti che omettono il versamento alla ditta mandante di provvigioni riscosse dai propri clienti. Nella fattispecie del caso, si configura il reato di appropriazione indebita per il quale l’agente può essere denunciato e vedere risolto immediatamente il contratto di agenzia in essere.

*ODCEC Parma
**ODCEC Napoli

di Stefano Ferri*

Uno dei temi che si ripropongono quotidianamente nei nostri studi professionali è quello relativo alla subordinazione ed agli elementi che la caratterizzano, nonché degli aspetti probatori correlati.

A tal proposito una recentissima sentenza (7 ottobre 2024) della sezione Lavoro della suprema Corte di Cassazione, numero 26138, ha fornito elementi a mio parere utili per la difesa di parte datoriale a fronte di pretese non di rado prive di fondamento.

La fattispecie prende le mosse da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che ha riformato la sentenza di primo grado accertando l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato e, di conseguenza, ha condannato al pagamento a favore del lavoratore delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto, oltre accessori di legge.

Segue ricorso del datore alla suprema Corte che cassa la sentenza impugnata con varie considerazioni di indubbio interesse. In primo luogo vengono richiamati i principi generali: costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato il vincolo di soggezione del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si concretizza in ordini specifici e in un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative; tale requisito deve essere necessariamente apprezzato dal giudice di merito.

Di conseguenza, elemento discretivo tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo è il concreto atteggiarsi del potere direttivo del datore di lavoro, che non si deve limitare a direttive di carattere generale, compatibili anche con il rapporto libero professionale, ma deve esplicarsi in “ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, stabilmente inserita nell’organizzazione aziendale”; viene quindi data continuità alla linea giurisprudenziale della Cassazione risalente, tra le numerose altre, alla ben nota sentenza n. 29646 del 16 novembre 2018.

Interessante e da tenere ben presente, per diversa fattispecie, è il chiarimento che “in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto; sicché, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale”.

Tornando al caso in esame, i giudici della suprema Corte rilevano come la prova della subordinazione sia completamente mancata, sia in virtù delle dichiarazioni confessorie a sé sfavorevoli rese nell’interrogatorio formale del ricorrente e sia perché nessuno dei testi escussi ha saputo riferire quale fosse il ruolo del lavoratore e neppure cosa in concreto facesse; in un tale scenario non si può assolutamente parlare di coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo aziendale e del relativo suo inserimento in esso. E in una fattispecie di questo tipo non è decisiva la provata presenza continuativa, in particolare perché non è emerso alcun esercizio di potere direttivo sul lavoratore.

Sulla base di tali affermazioni, la Cassazione conclude che la Corte d’Appello ha affermato la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo datoriale senza alcuna prova, con conseguente errore di diritto con riferimento all’articolo 2697 del Codice Civile, censurabile dalla suprema Corte, in quanto il giudice ha attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata.

In sintesi, il giudice di merito ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, non avendo parte datoriale assolto l’onere di gratuità della prestazione lavorativa stante la presunzione di onerosità, “posto che ogni attività oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, salva la prova – da fornirsi da colui che contesti l’onerosità – che la stessa sia caratterizzata da gratuità (Cass. 3 dicembre 1986, n. 7158; Cass. 28 marzo 2017, n. 7925; Cass. 28 marzo 2018, n. 7703) – ma rilevante soltanto quando una tale presunzione sia radicabile su una prestazione lavorativa di natura subordinata, qui indimostrata”.

Viene quindi ribadita una linea ormai consolidata della Corte di Cassazione: l’elemento essenziale del rapporto di lavoro è costituito dall’eterodirezione, quindi dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare datoriale, con correlati ordini specifici ed attività di vigilanza e controllo. Il giudice di merito non può sottrarsi all’apprezzamento di tali aspetti, anche in considerazione della tipologia di rapporto e tenuto conto, come indicato, che per prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, quindi occorre fare riferimento ai criteri complementari e sussidiari indicati in sentenza (collaborazione, continuità delle prestazioni, osservanza di un orario determinato, versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, coordinamento dell’attività lavorativa assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, assenza in capo al lavoratore di struttura imprenditoriale).

*ODCEC Reggio Emilia

di Domenico Calvelli*

Nel lontano 2013, a Roma, nacque una rinnovata coscienza nei Commercialisti che si occupavano da sempre, nella propria attività libero professionale, di lavoro e previdenza, non foss’altro che la legge numero 12 del 1979 riconosceva a tre categorie, commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro (questi ultimi nati proprio in questa circostanza) le competenze necessarie. Così volle dunque il potere legislativo, costituzionalmente sovrano.

In una intera giornata di lavori, ospiti dell’Ordine di Roma, si dibattè sin da principio se creare un soggetto avente caratteristiche di comitato scientifico o di sindacato. Il Comitato scientifico Gruppo Odcec Area Lavoro optò successivamente per la prima ipotesi; rappresentare cioè all’esterno le capacità dei commercialisti nel districarsi nella sempre più complessa normativa, e prassi, del diritto, dell’economia e dell’organizzazione del lavoro.

Non fu cosa da poco; un conto è operare quotidianamente nei propri studi professionali a supporto della propria clientela, un altro è divulgare all’esterno le proprie idee e le nozioni che appartengono alla disciplina trattata.

Si scelse, dapprima, di avvalersi, per la diffusione, della rivista “Il Commerci@lista”, già esistente e trasformatasi successivamente in “Giuseconomia”, che lanciò all’uopo la collana “lavoro e previdenza”.

Alfine nacque “Noi e il lavoro”, precipuo strumento di cui si dotò, molto fruttuosamente, il Comitato.

Tra i collaboratori si contarono (e si contano tuttora), oltre ad i colleghi, giuristi, accademici e rappresentanti della Pubblica Amministrazione, a comprova del fatto che il confronto tra diversi soggetti e differenti punti di vista non può che essere un momento di arricchimento reciproco, a giovamento dell’intero sistema economico e sociale.

Esprimersi senza pregiudizi, in totale onestà intellettuale, a volte anche ed eventualmente divergendo sulle singole vedute e posizioni, altro non è se non il carburante che tiene in vita uno Stato di diritto che possa dirsi democratico e liberale.

Noi e il lavoro è dunque testata bimestrale a diffusione nazionale che interpreta, dal punto di vista scientifico, le conoscenze della categoria dei Commercialisti sulla materia.

Perché dunque il titolo del presente articolo è “a volte ritornano”? Perché diressi dapprincipio Il Commerci@lista lavoro e previdenza, credendo in questa bellissima materia di studio, ed ora vengo chiamato a dirigere “Noi e il lavoro”, non senza una vena di orgoglio per appartenenze ad una categoria, quella dei Commercialisti, che (e non perché siamo più belli o più corporativi di altri) possono esprimere competenze in costante espansione, nel diritto (e pratica) societario, tributario, del lavoro, aziendale, contabile, finanziario, dei principi Esg, degli audit, della revisione, delle valutazioni, della pianificazione, della crisi d’impresa ecc.

I gruppi di lavoro, comunque li si voglia definire, rappresentano sempre crocevia di idee e di rapporti, scambi culturali fertili, utili al singolo ed alla collettività.

Così è stato anche nel caso del Comitato scientifico Gruppo Odcec Area Lavoro.

Noi e il lavoro è così una piazza scientifica e culturale virtuale, un luogo ove convergono le nozioni e le opinioni di una categoria professionale, quella dei Commercialisti, che ha optato per rappresentare all’esterno, al pubblico, alle istituzioni, le proprie competenze, vedute, idee, senza volersi imporre ma con la consapevolezza di poter essere utile al dibattito ed alla conoscenza.

*Direttore Responsabile

di Maurizio Falcioni*

 

Possiamo affermare che il Legislatore ha fortemente a cuore la figura del “volontario” in ambito sportivo; dal 2021, anno in cui si è voluto dare un svolta importante alla normativa in materia di sport dilettantistico con l’entrata in vigore del DLgs 36 a oggi, l’art.29 che regolamenta le prestazioni sportive dei volontari, ha subito ben tre modifiche legislative dettate da: art. 17 del Dlgs 163 del 05/10/2022 , dall’art. 1 del Dlgs 120 del 29/08/2023 e ultimo in ordine di tempo dall’art. 3 del DL 71 del 31/05/2024 (in vigore dal 01/06/2024).

E allora proviamo a fare il punto della disposizione con una analisi del testo al fine di rilevarne criticità e restrizioni.

Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a. possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari.

Utilizzando il termine attività istituzionali e non il termine attività sportive (che poi troviamo successivamente), la norma ammette la possibilità di utilizzare in generale prestazioni di volontariato, ma non poteva essere diversamente. In qualsiasi ente no profit, sportivo e non sportivo, è presente da sempre questa figura: associati e non che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Promuovere lo sport non solo come svolgimento di una attività sportiva ma anche di attività collaterali. Prendiamo a esempio il calcio, promuove lo sport anche chi pulisce gli spogliatoi, chi lava le maglie, chi riga e aggiusta il campo da gioco; sicuramente non è svolgere attività sportive, ma altrettanto sicuramente sono attività necessarie e indispensabili per promuovere lo sport.

A giustificazione, l’art. 29 sottolinea che “le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”. Prestazioni dei volontari sportivi che non sono retribuite in alcun modo, nemmeno dal beneficiario. Il termine utilizzato “non retribuite” è chiaro: al volontario non possono essere erogati compensi a titolo di retribuzione (che sia di natura subordinata che autonoma), ma nessuna normativa vieta di rimborsare al volontario, se richieste e concordate, le spese da lui sostenute nello svolgimento della propria attività gratuita a favore dell’ente associativo. Il volontario periodicamente (come da accordo con il sodalizio), predispone un elenco delle spese effettivamente sostenute (chiamiamolo pure un rimborso a piè di lista), con indicazione delle date e delle prestazioni di volontariato svolte, allegando la necessaria documentazione a giustificazione (fatture, scontrini fiscali, ricevute fiscali e non fiscali, biglietti di viaggio, etc. etc.).

È possibile fare rientrare anche il rimborso delle indennità chilometriche per l’utilizzo, da parte del volontario, del proprio automezzo? Certamente, se possiamo dimostrare che è una spesa effettivamente sostenuta, ma è assolutamente da attenzionare la procedura. Innanzitutto, è opportuno che il consiglio direttivo deliberi il rimborso al volontario anche per le indennità chilometriche, che nella delibera venga indicata marca, modello e targa dell’auto utilizzata dal volontario, oltre a reperire copia del libretto di circolazione dell’automezzo da tenere agli atti e utile per identificare il valore massimo del rimborso chilometrico in base alle tariffe elaborate dall’ACI.

È possibile rimborsare al volontario anche le spese sostenute dallo stesso nel proprio comune di residenza? Si ritiene che sia possibile, ma con una attenta valutazione dell’attività esercitata. Torniamo al nostro esempio del calcio. Se il volontario è l’addetto alla lavanderia sicuramente non sostiene alcuna spesa per tale prestazione, però potrebbe sostenere una spesa di trasporto (autobus) dalla propria abitazione all’impianto sportivo e tale spesa potrebbe essere oggetto di rimborso.

Se poi ad esempio la prestazione del volontario, utilizzando un proprio automezzo, è quella di “raccogliere” gli atleti dalle loro abitazioni per portarli all’impianto sportivo ove dovrà svolgersi la partita del campionato, corretto è il rimborso delle indennità chilometriche anche se il trasporto è effettuato all’interno del Comune di residenza del volontario e non può essere contestato il fatto che siano spese che ha effettivamente sostenuto.

Non è applicabile ovviamente al volontario la disposizione del c.5 dell’art.51 del DPR 917/1986 (determinazione del reddito di lavoro dipendente) quando stabilisce che sono reddito imponibile IRPEF i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Piuttosto possiamo prendere a riferimento la Risoluzione di AE n.38/E del 11/04/2014 che ammette il rimborso delle indennità chilometriche anche in contesto di territorio comunale. Le norme abrogate in materia di trattamento tributario dei proventi derivanti dall’esercizio di attività sportive dilettantistiche, secondo cui il territorio comunale di riferimento è quello ove risiede il soggetto interessato che percepisce l’indennità chilometrica .non possono che rimanere applicabili. In tal senso occorre far riferimento alle risoluzioni a corredo delle norme di cui al D. Lgs. 36/2021 ed ancora della L. 80 del 25/03/1986.

L’art. 29 entra nel merito del rimborso spese forfettario, stabilendo che ai volontari sportivi possono essere riconosciuti rimborsi forfettari per le spese sostenute per attività svolte anche nel proprio comune di residenza, nel limite complessivo di 400 euro mensili e che tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente.

È una disposizione che deve essere letta come una agevolazione contabile/amministrativa per il sodalizio sportivo.

Viene data la possibilità di erogare rimborsi spese in modalità forfettaria al volontario senza l’obbligo contabile, in capo all’Ente erogatore, di archiviare giustificativi di spesa, il prospetto del piè di lista, etc., ma, per evitare situazioni elusive, il legislatore ha stabilito che detto rimborso forfettario può essere al massimo di € 400,00 mensili per ogni singolo volontario.

Altro elemento di agevolazione è il fatto che il rimborso forfettario di spesa è ammesso per le spese sostenute dal volontario, anche in ambito del proprio comune di residenza, in tal senso la norma evidenzia che le spese siano effettivamente sostenute per evitare situazioni che potrebbero rappresentarsi elusive.

Esempio, posso pensare di erogare al volontario una somma forfettaria a titolo di rimborso spese di € 200,00 in quanto, con il proprio automezzo, ha trasportato gli atleti per una gara podistica da Roma a Bologna (e tra carburante, autostrada, usura auto, pranzo, etc. è una somma che certamente si sostiene per una trasferta del genere), ma non posso erogare un rimborso spese forfettario di € 200,00 al volontario che fa assistenza lungo il percorso della gara podistica e che ha la propria residenza nel Comune in cui ha sede la gara o in un Comune limitrofo, in quanto le spese per trasferirsi dalla propria residenza alla sede della gara sono certamente irrisorie.

Rimborsi spese forfettari quindi ammessi, ma la norma sottolinea che “in occasione di manifestazioni ed eventi sportivi riconosciuti dalle Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate, dagli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici, dal CONI, dal CIP e dalla società Sport e salute S.p.a. purché questi ultimi individuino, con proprie deliberazioni, le tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso.”

Importante, pertanto, il ruolo degli Organismi di affiliazione che con proprie delibere provvedono a:

– Riconoscere manifestazioni ed eventi sportivi;

– identificare le tipologie di spese per le quali è ammessa la modalità di rimborso forfettario;

– individuare le attività di volontariato per le quali è altrettanto ammesso il rimborso forfettario.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) con delibera del 01/11/2024 stabilisce che sono considerate manifestazioni ed eventi sportivi gare, tornei e altre manifestazioni organizzate dalla stessa FIGC e le attività di preparazione collegate allo svolgimento delle medesime gare, tornei e manifestazioni.

La Federazione Italiana di Atletica Leggera (FIDAL) con delibera del 07/10/2024 ritiene che vadano incluse, oltre alle prestazioni sportive svolte durante la competizione/evento, anche quelle realizzate in stretta prossimità dello stesso, purché connesse alla sua realizzazione (ad esempio l’allestimento di un percorso con transenne e il successivo smantellamento).

La FIGC considera attività di volontariato anche i soggetti non tesserati che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, senza fini di lucro, ma esclusivamente con finalità amatoriali (elenca il tipo di attività), tra cui troviamo accompagnatori degli atleti minori.

FIDAL considera attività di volontariato, ad esempio, chi elabora le classifiche, il videomaker, l’addetto alle premiazioni etc.

È importante ad ogni modo valutare con attenzione le delibere della Federazione e dell’Ente a cui l’associazione dilettantistica è affiliata.

Torniamo al limite del rimborso forfettario di complessive € 400,00 mensile.

È da considerarsi per ogni ente/organismo a cui il volontario presta la propria attività o è complessivo per tutte le realtà presso cui viene svolta la propria spontanea attività? La normativa non lo regolamenta e non abbiamo disposizioni di prassi da parte di Agenzia Entrate (come non abbiamo da AE alcun documento a commento del DLgs 36/2021), ma pensando sempre che l’art.29 è improntato ad evitare situazioni di elusione, logica vuole che il valore mensile di € 400,00 sia riferito all’attività volontaristica svolta presso tutti gli enti no-profit.

Così si esprimono anche alcune delibere di FN/EPS.

FIGC indica che il limite di € 400 mensile è un limite soggettivo riferito al singolo volontario sportivo, e non all’ente erogante, concetto, questo, che non è presente nella delibera della FIDAL, ma che invece viene ribadito nella delibera FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) del 15/10/2024.

In considerazione di quanto sopra subentra comunque la necessità di chiedere al volontario una autodichiarazione attestante l’eventuale percezione, nel corso dello stesso mese, di ulteriori rimborsi forfettari erogati da altri enti/organismi. Autocertificazione necessaria, vedremo dopo, anche ai fini fiscali/contributivi.

Tale limite di € 400,00 mensile, è cumulabile o meno con un rimborso spese documentato? Anche questo elemento non viene commentato dall’art.29.

Non ci sono limitazioni normative all’utilizzo cumulativo dei due tipi di rimborso: documentato e forfettario. Partendo dal concetto iniziale che la possibilità del rimborso forfettario è intesa come una forma di agevolazione burocratica/amministrativa per il sodalizio sportivo, soprattutto per alcuni tipi di spesa. Ad esempio, nell’ambito di un trasporto di atleti fuori Regione, sarebbe facile rimborsare in maniera documentale il costo dell’autostrada o del ristorante e in maniera forfettaria (in quanto più semplice il conteggio) il rimborso della spesa del carburante. Alcune delibere inseriscono la limitazione. La delibera della FIGC sottolinea che il rimborso spese documentato non è cumulabile con quello forfettario, la delibera della FIDAL nulla indica, ma anche la delibera di FIP non ammette cumulare il rimborso spese forfettario con le spese documentate sostenute per la medesima manifestazione/evento sportivo.

Associazioni ed enti eroganti sono tenuti a comunicare i nominativi dei volontari sportivi che nello svolgimento dell’attività sportiva ricevono i rimborsi forfettari e l’importo corrisposto a ciascuno, attraverso il Registro Nazionale delle Attività Sportive Dilettantistiche (RASD), in apposita sezione del Registro stesso, entro la fine del mese successivo al trimestre di svolgimento delle prestazioni sportive del volontario sportivo.

Per dare la possibilità agli enti di attuare detto nuovo adempimento dettato dall’ultima revisione normativa dell’art. 29, il RASD ha da poche settimane aggiornato il sito, integrandolo con una partizione dedicata ai volontari.

Tale comunicazione è resa immediatamente disponibile, per gli ambiti di rispettiva competenza, all’Ispettorato nazionale del lavoro, all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL).

L’art. 29 ha introdotto, sempre al fine di evitare forme di elusione, una particolare disposizione che sta suscitando più di una criticità. Nell’ultimo capoverso del comma 2 indica che detti rimborsi forfettari concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’articolo 35, comma 8-bis, e costituiscono base imponibile previdenziale al relativo superamento, nonché dei limiti previsti dall’articolo 36, comma 6.

Analizziamo il disposto dal punto di vista previdenziale:

– l’art. 35 c. 8-bis stabilisce che l’imposizione contributiva/assicurativa previdenziale, interviene sulla parte di compenso eccedente i primi € 5.000,00 annui;

– pertanto, per il calcolo di tale limite occorre considerare anche il rimborso spese forfettario erogato al volontario;

– vi è obbligo quindi, in capo all’associazione che eroga il compenso al proprio collaboratore sportivo, di sapere se lo stesso svolge anche attività di volontario presso altro Ente e l’importo complessivo del rimborso spese forfettario percepito fino a quel momento;

– così come è necessario che l’associazione che eroga il rimborso spese forfettario al proprio volontario, sia messa a conoscenza se lo stesso abbia percepito e in quale misura, compensi per collaborazione sportiva dilettantistica da altro Ente sportivo dilettantistico;

– tutti elementi che il volontario / collaboratore sportivo rilasciano all’Ente sportivo dilettantistico presso cui svolge la propria prestazione, tramite una autodichiarazione.

Vediamo ora cosa comporta sotto l’aspetto Erariale l’espressione “concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’art. 36 c.6”:

– art.36 c.6 stabilisce che i compensi di lavoro sportivo dilettantistico sono esenti da imposizione fiscale fino all’importo complessivo annuo di € 15.000,00

– il successivo c. 6-bis obbliga il lavoratore sportivo a rilasciare, all’atto della percezione del proprio compenso, una autodichiarazione attestante l’ammontare dei compensi percepiti per le prestazioni sportive dilettantistiche rese nell’anno solare presso altri Enti sportivi dilettantistici;

– ricordiamo anche che al superamento di detto limite di € 15.000,00 si determina, in capo all’Ente sportivo che eroga il compenso di collaborazione sportiva, l’obbligo mensile di elaborare il prospetto paga (cedolino) al fine della regolamentazione dell’IRPEF a carico dello sportivo (art.28 c.4);

– ora, sempre tramite specifica autodichiarazione, quell’Ente sportivo dovrà anche essere a conoscenza di eventuale rimborso spese forfettario percepito dal collaboratore;

 

– se ad esempio:

1) dal 01/01/2024 al 31/10/2024 è stato erogato al collaboratore sportivo un compenso di € 13.500,00

2) se il 30/11/2024 si eroga allo stesso un ulteriore compenso sportivo di € 1.500,00, detta somma rimane ancora nell’alveo dell’esenzione dettata dall’art.36 c. 6 pari a € 15.000,00;

3) ma se il collaboratore dichiara al proprio committente sportivo (con l’autodichiarazione di cui all’art. 36 c.6bis) che nel mese di novembre 2024 ha percepito anche un rimborso spese forfettario di € 400,00 da altro Ente sportivo dilettantistico, si determina che il 30/11/2024, al momento dell’erogazione della somma di € 1.500,00, il collaboratore ha superato il limite di esenzione di € 15.000,00, determinando l’obbligo in capo al committente, di istituire il prospetto paga (cedolino).

Una disposizione, quella del rimborso spese forfettario mensile, che poteva sembrare essere nata per agevolare le attività amministrative degli Enti sportivi, ma che al contrario sta creando un ulteriore aggravio di burocrazia.

Ulteriore elemento di criticità è il disposto del comma 3 dell’art 29 quando indica che “le prestazioni sportive di volontariato sono incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva”.

Il dubbio che emerse subito leggendo il passaggio normativo era verso i membri dei consigli direttivi delle associazioni sportive dilettantistiche che svolgono il loro mandato a titolo gratuito e che, come tali, dovevano essere considerati “volontari”, con una incompatibilità in caso di svolgimento, da parte loro, anche di prestazioni sportive retribuite con compenso di collaborazione sportiva. In merito è intervenuto personalmente il Ministro dello Sport che con un comunicato della Presidenza del Consiglio del 15/01/2024, ha confermato che i membri del consiglio direttivo di un sodalizio sportivo, pur svolgendo gratuitamente il mandato loro conferito dall’assemblea dei soci, non rientrano nella categoria dei volontari; pertanto, non si ravvisano le incompatibilità dell’art.29 c.3., ove però, sottolinea il Ministro, qualora tali soggetti oltre a svolgere il mandato di presidente o consigliere, svolgono per la propria associazione/società sportiva dilettantistica anche attività di volontariato sportivo, in tali caso non potranno svolgere altro incarico di lavoro sportivo retribuito per la medesima associazione/società sportiva.

Il finale comma 4 dell’art. 29 obbliga “gli enti dilettantistici, che si avvalgono di volontari, di assicurarli per la responsabilità civile verso i terzi”.

Analizziamo la necessità / opportunità di un’eventuale delibera del consiglio direttivo dell’ente sportivo.

L’art. 29 non la richiede (a differenza di quanto prevedeva il comma 2 dell’art.29 prima delle modifiche apportate dal DL 71 del 31/05/2024), ma al fine di avere a disposizione una documentazione che possa essere utile a giustificare la veridicità del rapporto di volontariato, si consiglia di predisporre quanto segue:

– dichiarazione del soggetto disponibile a svolgere attività di volontario all’interno della asd/ssd;

– delibera ad acquisire il volontario e limiti e modalità dei rimborsi spese allo stesso;

– lettera di incarico sottoscritta da asd/ssd per l’attività di volontariato, al soggetto che ha dato la propria la propria disponibilità.

Per concludere la normativa del volontario dettata dall’art. 29 può essere applicata alle società sportive professionistiche? La domanda nasce dal fatto che la prima stesura dell’art. 29 al primo comma, identificando le realtà che potevano avvalersi delle attività di volontari, indicava società e associazioni sportive dilettantistiche; con la prima modifica legislativa del DLgs n.163 del 05/10/2022 il termine dilettantistiche scompare e rimane solo società e associazioni sportive e da qui il dubbio.

Si ritiene il disposto dell’art. 29 inapplicabile alle società sportive professionistiche non solo perché il fine societario di una società professionistica è assolutamente inadeguato al principio di una attività volontaristica, ma anche perché da un punto di vista strettamente tecnico l’art. 29 indica:

  1. a) al primo comma in riferimento alle “attività istituzionali” e tali non sono quelle di una società professionistica;
  2. b) l’adempimento di comunicare i nominativi al RASD dei volontari che percepiscono rimborso spese forfettari è inattuabile per le società professionistiche in quanto non iscrivibili nel RASD.

*ODCEC Rimini

di Fabiano D’Amato*

 

Di recente introduzione, la c.d. Patente a crediti è stata istituita dall’art. 10 comma 19 del D.L. 2 marzo 2024, n. 19, convertito in Legge 29 aprile 2024 n. 56.

La norma in questione ha infatti modificato in tal senso l’articolo 27 del D.Lgs. n. 81/2008.

Successivamente, norme di dettaglio sono state fornite dal D.M. 24.9.2024, n. 132, mentre la prassi principale è legata alla Circolare I.N.L. n. 4 del 23.9.2024 ed in parte alle FAQ successivamente pubblicate dall’Ispettorato stesso.

La richiesta deve essere effettuata online sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma per il solo mese di ottobre era stata prevista la possibilità, nelle more della effettuazione della richiesta telematica, di inviare un modello contenente le autocertificazioni e dichiarazioni sostitutive richieste a mezzo PEC agli indirizzi indicati dall’Ispettorato del Lavoro.

Il mancato possesso del documento, qualora tenuti, espone a pesanti conseguenze sanzionatorie.

Si ritiene utile evidenziare che i requisiti per l’ottenimento della patente in questione non costituiscono una novità, essendo già previsti da tempo dalla normativa vigente.

I soggetti interessati, sono tutte le imprese ed i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, secondo la definizione contenuta nell’art. 89 del D. Lgs. n. 81/08.

Vale la pena di ricordare i principali requisiti richiesti ai fini del rilascio, come elencati, fra l’altro, dalla circolare INL n. 4:

  1. a) iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
  2. b) adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal D.lgs. n. 81/2008;
  3. c) possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;
  4. d) possesso del documento di valutazione dei rischi, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  5. e) possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’art. 17-bis, commi 5 e 6, del D.lgs. n. 241/1997, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  6. f) avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nei casi previsti dalla normativa vigente.

Specifiche disposizioni sono previste per i soggetti esteri e, per quanto riguarda le esclusioni, per i prestatori d’opera intellettuale e per coloro che effettuano mere forniture, nonché per chi sia in possesso di attestazione SOA di categoria III o superiore.

Nel tempo, oltre le norme e la prassi provenienti dagli enti preposti, sono state diffuse, come sopra evidenziato, risposte alle domande più frequenti.

Alcuni dubbi permangono, e per citare alcune questioni esemplificative, si prenda ad esempio la FAQ n. 11, emendata il 6.11.2024 rispetto alla sua iniziale estensione.

La risposta riguarda il professionista “operante fisicamente” in un cantiere in qualità di archeologo, professione che la FAQ stessa evidenzia come non soggetta ad iscrizione ad uno specifico Albo; a riguardo precisa la risposta: “Considerato che, per la richiesta della patente da parte di una impresa o lavoratore autonomo italiano, il campo “iscrizione alla CCIAA” è obbligatorio, per gli archeologi lavoratori autonomi tale dichiarazione va intesa come indicativa dei necessari requisiti professionali, come il possesso della partita IVA e l’iscrizione alla Gestione separata”.

Senza entrare nel merito, scopo fuori portata per questo breve scritto, del dubbio se sulla base di una risposta ad una FAQ (anche se certamente di fonte autorevole) una autocertificazione di iscrizione ad un determinato ente possa essere intesa eventualmente come di possesso di altri requisiti, l’inclusione di una libera professione come quella dell’archeologo pone, a parere di chi scrive, l’ulteriore dubbio se l’esercizio in un cantiere di altra libera professione che comporti l’iscrizione, ad esempio, ad un albo professionale, possa ricadere nell’obbligo, qualora ad esempio il professionista si trovi ad essere a qualche titolo presente in cantiere.

In altre parole, la domanda potrebbe essere: come si distingue oggettivamente la prestazione d’opera intellettuale, rispetto alla prestazione di un professionista che operi fisicamente all’interno di un cantiere?

Questo anche perché la circolare n. 4 dell’INL di cui sopra si è esposto, ribadisce come siano compresi tra i soggetti destinatari della norma “le imprese – non necessariamente qualificabili come imprese edili – e i lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri.

Un ulteriore chiarimento sarebbe auspicabile.

Altra questione riguarda l’obbligo del possesso del cosiddetto DURF di cui alla lettera e) dei requisiti sopra evidenziati, in particolare, per coloro che non possano entrare in possesso di tale documento, quali i soggetti che siano in attività da meno di tre anni.

Orbene, sia dottrina che prassi della Agenzia delle Entrate specificano che il possesso del DURF è alternativo agli adempimenti in presenza di appalti c.d. “Labour intensive”, secondo quanto previsto dalla normativa.

Chi operi in coerenza con detti adempimenti, potrebbe essere considerato non soggetto all’obbligo di possesso del “DURF”?

Anche per questo aspetto sarebbe necessario un chiarimento, e nello specifico anche se sul modello di domanda vada considerata la dicitura “esenzione giustificata” o “non obbligatorio”; nel primo caso sembra rientrare il caso dell’adempimento dell’appaltatore nei confronti del committente la cui alternativa è il possesso del DURF 1.

Per concludere questa breve disamina di alcune questioni connesse al nuovo obbligo previsto, si evidenzia un ulteriore adempimento connesso: quello previsto dall’art. 1 comma 6 del D.M. 132/2024, che prevede che i soggetti tenuti alla presentazione della domanda per l’ottenimento della “Patente a crediti” informino della presentazione della domanda stessa il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale entro cinque giorni dal deposito.

Risultando la nomina di una delle due figure (RLS ed RLST) alternativa all’interno delle questioni riguardanti la sicurezza sul lavoro di ciascuna azienda, sarebbe auspicabile un chiarimento su chi sia il destinatario della comunicazione di presentazione della domanda della “Patente” tra i due destinatari.

Concludendo, le questioni in evoluzione sono tante e verosimilmente verranno “dipanate” con l’evoluzione dell’istituto.

C’è da confidare che chi è deputato ad effettuare i controlli connessi tenga in considerazione gli aspetti controversi nella applicazione dello stesso.

In tal senso sembra muoversi la possibilità di procedere alla correzione di errori materiali riscontrati sulla richiesta online, previa segnalazione della presenza eventuale di tali errori all’INL (Avviso pubblicato il 30.10.2024).

*ODCEC Roma

____________________

1 Si vedano per ulteriori considerazioni: Circolare Agenzia delle
Entrate 12.2.2024 n. 1, e, ad esempio: Pagano M. “Requisito
del DURF controverso per il rilascio della patente a punti”, su Il
Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 2.10.2024;
Carpentieri C. “Patente a crediti e obbligo del DURF: quando si
presentano le deleghe F24 “ al committente si è “esenti giustificati””
IPSOA Quotidiano 15.11.2024

di Paolo Soro*

 

Nella Gazzetta Ufficiale n. 236 del 08.10.2024 è stata pubblicata la Legge 07/10/2024 n. 143, di conversione, con modifiche, del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113, recante misure urgenti di carattere fiscale, proroghe di termini normativi e interventi di carattere economico. Per quanto di interesse in questa sede, l’art. 6 del decreto (tassazione dei redditi di talune categorie di lavoratori frontalieri) determina ulteriori novità nel settore che si applicano già a decorrere dal periodo d’imposta 2024 (ultimo comma della disposizione in parola).

Prima di tutto, però, è il caso di fare un breve riepilogo delle sottostanti vicende normative.

Dopo anni di trattative, il 23 dicembre 2020 l’Italia e la Svizzera hanno firmato un nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri che ha sostituito il precedente Accordo del 1974. Tra il 2021 e il 2023, i parlamenti dei due Stati hanno poi adempiuto ai passaggi necessari per la traduzione del testo in Legge dello Stato. Il 1° luglio 2023, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge italiana di ratifica 83/2023, è avvenuto l’ultimo di questi passaggi. Infine, il 18 luglio 2023, Italia e Svizzera hanno proclamato ufficialmente l’entrata in vigore del nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri, definendo anche le norme transitorie che disciplinano le differenti regole cui sono soggetti i “nuovi frontalieri” rispetto agli “attuali frontalieri”. In sostanza, restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974 per quanto attiene ai c.d. “attuali frontalieri”. Viceversa, coloro i quali arrivano nel mercato del lavoro come frontalieri a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo Accordo 2020, saranno considerati come “nuovi frontalieri” e, a essi, si applicherà il regime ordinario stabilito dall’ Accordo 2020. Ma torneremo più avanti sul punto.

Svolta questa necessaria premessa al fine di fornire una visione generale d’insieme, occorre ora preliminarmente ricordare come vengono inquadrati i frontalieri dalla normativa comunitaria. L’art. 1, lett. B, Reg. 1408/71/CEE, stabilisce che:

Il termine «lavoratore frontaliero» designa qualsiasi lavoratore che è occupato nel territorio di uno Stato membro e risiede nel territorio di un altro Stato membro dove, di massima, ritorna ogni giorno o almeno una volta alla settimana; tuttavia, il lavoratore frontaliero, che è distaccato dall’impresa da cui dipende normalmente nel territorio dello stesso o di un altro Stato membro, conserva la qualità di lavoratore frontaliero per un periodo non superiore ai 4 mesi anche se, durante detto distacco, non può ritornare ogni giorno o almeno una volta alla settimana nel luogo ove risiede.

Peraltro, questa definizione si applica solamente alla protezione sociale dei lavoratori in questione all’interno dell’Unione europea. In campo fiscale, le convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione che determinano il regime dei lavoratori frontalieri, fissano in genere definizioni maggiormente restrittive, che impongono pure un criterio spaziale, secondo il quale il fatto di risiedere e lavorare in una zona frontaliera in senso stretto, definita in modo spesso variabile in ciascuna convenzione fiscale, è considerato un elemento costitutivo del concetto di lavoro frontaliero.

Prima, però, di arrivare alle nuove regole in materia, ratificate nel recente nuovo Accordo Italia / Svizzera, appare opportuno richiamare anche le principali disposizioni correlate, dettate dal nostro Legislatore nazionale. In proposito, l’art.1, comma 175, L. 147/2013, oltre a stabilire una sorta di no-tax-area per i primi 7.500 euro di reddito prodotto, definisce il frontaliere esclusivamente come quel lavoratore che:

– ha la residenza fiscale italiana;

– presta il lavoro in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, in zone di frontiera, o in Stati limitrofi.

Per quanto concerne la residenza fiscale italiana, pare appena il caso di ricordare che, a decorrere dal 01/01/2024, il comma 2, art. 2, TUIR è cambiato, di tal guisa che, adesso:

Si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.

Relativamente a detta ultima novellata “presunzione di residenza” in caso di mancata iscrizione AIRE, si fa presente che il legislatore (Legge 213/2023) ha inasprito le sanzioni che possono essere comminate dai comuni a coloro che, avendo la residenza fiscale all’estero, non provvedano a iscriversi presso l’AIRE locale di riferimento (o quello nazionale) entro 90 giorni: da 200,00 fino a un massimo di 1.000,00 euro a persona, per ogni anno di mancata iscrizione all’AIRE, per un massimo di 5 anni.

Sempre riguardo alla residenza fiscale italiana, non è invece mutato il comma 2-bis dello stesso art. 2 del TUIR, che concerne i trasferimenti nei Paesi c.d. “ex black list”. Peraltro, la Svizzera è uscita dalla citata “lista nera” sempre con medesima decorrenza (2024). Dunque, le nuove regole relative alla residenza degli Italiani, si applicano anche con riferimento agli eventuali spostamenti in terra elvetica avvenuti a partire dal 1° gennaio 2024.

Sempre in ottica fiscale, si rammenta che i frontalieri sono esonerati dall’obbligo di compilazione del quadro RW limitatamente agli investimenti e alle attività estere di natura finanziaria detenute nel Paese in cui svolgono la loro attività lavorativa. Questo esonero vale anche per il coniuge e i familiari di primo grado, nel caso in cui risultino cointestatari, titolari o delegati del conto corrente ove viene accreditato lo stipendio. La predetta esenzione, peraltro, è collegata al periodo in cui il dipendente presta lavoro oltre frontiera e vale per l’intero anno fiscale se l’attività lavorativa è stata svolta all’estero in via continuativa per la maggior parte del medesimo periodo d’imposta.

Laddove si faccia rientro in Italia, l’esonero è limitato e condizionato al trasferimento delle attività detenute all’estero entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (Agenzia delle entrate, provvedimento 18 dicembre 2013, n. 151663). Attenzione che, per contro, non esiste il medesimo tipo di esenzione relativamente all’eventuale liquidazione dell’IVIE e dell’IVAFE, se dovute.

Relativamente ai documenti interni di prassi, la circolare 2/E-2003 dell’Agenzia delle entrate, ai fini della corretta individuazione dei redditi prodotti dal frontaliere, afferma:

La disposizione si riferisce ai soli redditi percepiti dai lavoratori dipendenti che sono residenti in Italia e quotidianamente si recano all’estero in zone di frontiera o in Paesi limitrofi per svolgere la prestazione di lavoro. Non rientrano, invece, le ipotesi di lavoratori dipendenti, anch’essi residenti in Italia che, in forza di uno specifico contratto, che preveda l’esecuzione della prestazione all’estero in via esclusiva e continuativa, soggiornano all’estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di un periodo di 12 mesi” (per i quali, di regola, si applicano le retribuzioni convenzionali).

 

Orbene, seppure come noto i trattati internazionali assumono valenza prioritaria rispetto alle leggi domestiche (Costituzione, art. 117; DPR 600/1973, art. 75) e, semmai, si applicano le norme interne in deroga agli accordi internazionali solo se più favorevoli rispetto a questi ultimi (TUIR, art. 169), in considerazione dei vari problemi che possono derivare da una non corretta individuazione della residenza fiscale, appare indispensabile tenere conto delle predette disposizioni nazionali.

Ciò risulta vieppiù rilevante proprio negli spostamenti Italia – Svizzera, posto che la Convenzione di riferimento prevede un’eccezione alla regola generale prevista in Italia in merito al periodo d’imposta nel quale i soggetti sono considerati fiscalmente residenti:

La persona fisica che ha trasferito definitivamente il suo domicilio da uno Stato contraente all’altro Stato contraente, cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio è determinante, non appena trascorso il giorno del trasferimento del domicilio. L’assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è determinante inizia nell’altro Stato a decorrere dalla stessa data (art. 4, par. 4, Convenzione tra la Repubblica italiana e la Confederazione svizzera).

Vediamo allora quanto in concreto è stato stabilito con la legge 83 del 16 giugno 2023 (in vigore dal 1° luglio, fermo restando quanto si dirà dettagliatamente in merito al periodo transitorio), tramite la quale il Parlamento Italiano ha ratificato il nuovo Accordo del 23 dicembre 2020 (e Protocollo aggiuntivo), tra l’Italia e la Svizzera, sull’imposizione fiscale dei lavoratori frontalieri.

L’Accordo (che sostituisce quello precedente del 3 ottobre 1974, così contestualmente variando le previsioni di cui al par. 4, art. 15, Convenzione Italia / Svizzera del 1976), ridefinisce il concetto di “lavoratore frontaliero”, precisando che è tale solo chi:

  1. è fiscalmente residente in un Comune il cui territorio si trova, parzialmente o totalmente, entro 20 km dalla frontiera;
  2. lavora come dipendente nell’area di frontiera dell’altro Stato;
  3. in linea di massima, rientra ogni giorno dal lavoro al proprio domicilio.

Relativamente al punto a, ritorna dunque di importanza fondamentale la corretta determinazione della residenza fiscale in ogni giorno dell’anno.

Per quanto attiene al punto b, le aree di frontiera sono così individuate:

– Svizzera: Cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese;

– Italia: Regioni Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, oltre alla Provincia Autonoma di Bolzano.

Con riguardo infine al punto c, nel Protocollo aggiuntivo viene specificato che:

A meno che le Autorità competenti [Ministero delle Finanze per l’Italia e Dipartimento Federale delle Finanze per la Svizzera] decidano diversamente, è consentito, in linea di principio, di non rientrare quotidianamente al proprio domicilio nello Stato di residenza, per motivi professionali, per un massimo di 45 giorni in un anno civile. I giorni di ferie e di malattia non sono conteggiati in questo limite. Se questo limite viene superato, la persona perderà lo status di frontaliere, ai sensi del nuovo Accordo del 2020, per l’anno interessato.

Non è ben chiaro cosa si intenda con il generico “motivi professionali”, ma si può facilmente ipotizzare che la disposizione voglia far riferimento, in generale, a qualunque motivo di carattere lavorativo, tanto che – come sopra riportato – subito dopo viene precisato che non sono da considerare, agli effetti del computo complessivo, le giornate di ferie e di malattia. Da tenere presente che il tenore letterale della norma, “massimo 45 giorni in un anno civile”, consente la possibilità di “sfruttare” detto periodo in più volte o anche in maniera continuata in un’unica occasione nel corso dello stesso anno. Resta il fatto che, in pratica, non sempre potrebbe risultare agevole dimostrare i predetti “motivi professionali”.

Sempre nel Protocollo aggiuntivo in questione, infine, vengono ulteriormente delimitati i contorni propri dei frontalieri, come coloro che svolgono un’attività di lavoro dipendente da intendersi con riferimento alla definizione di cui all’art. 7 dell’Allegato I dell’Accordo UE sulla libera circolazione delle persone. In particolare, con riferimento al paragrafo 2 di tale articolo, resta inteso che, per quanto concerne la Svizzera, le disposizioni si applicano ai lavoratori dipendenti che detengono un permesso per frontalieri (attualmente definito permesso “G” per persone provenienti da Paesi UE/AELS) che soddisfano le altre condizioni previste nell’Accordo. Se, successivamente all’entrata in vigore dell’Accordo, dovessero esservi apportate modifiche sostanziali, Italia e Svizzera si consulteranno rapidamente al fine di valutarne le eventuali conseguenze.

Come prima anticipato, è previsto un regime transitorio nel quale – di norma – restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974, che interessa i c.d. “attuali frontalieri”, identificati come coloro che:

  1. A) alla data di entrata in vigore del nuovo Accordo, svolgono; oppure
  2. B) tra il 31/12/2018 e la data di entrata in vigore del nuovo Accordo, hanno svolto

attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere.

Si ritengono sussistenti tali condizioni quando, in relazione all’attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera, il datore di lavoro ha versato le relative ritenute o ha provveduto alla notifica presso l’autorità fiscale cantonale competente. I predetti “attuali frontalieri”, dunque (fatto salvo quanto si dirà alla fine in tema di ultime novelle normative), continuano a essere soggetti a tassazione esclusiva (100%) in Svizzera, fino alla cessazione del rapporto di lavoro in essere. Il Protocollo aggiuntivo al riguardo precisa che detti frontalieri restano imponibili soltanto in Svizzera a prescindere da eventuali interruzioni del rapporto di lavoro oppure da cambi del datore di lavoro, quando continuino comunque a essere sussistenti i requisiti del lavoratore frontaliere e l’attività di lavoro dipendente sia svolta nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere. Detto in altri termini, non è sufficiente una variazione formale dell’odierno rapporto di lavoro in essere per poter passare da “attuale frontaliere” con regime transitorio (precedente Accordo), a “nuovo frontaliere” con regime ordinario (nuovo Accordo).

A proposito di imposizione, come altresì precisato nel Protocollo aggiuntivo, l’espressione “imposta sui redditi delle persone fisiche” designa le imposte ordinarie nazionali e locali alle quali sono assoggettati i lavoratori non residenti: in Svizzera, si tratta delle imposte federali, cantonali e comunali (con moltiplicatore medio del cantone di riferimento) sulle persone fisiche; in Italia, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonché delle addizionali regionali e comunali.

Ma vediamo allora le differenze tra vecchio e nuovo accordo.

Accordo 1974

  1. I salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta.
  2. I Cantoni interessati (Grigioni, Ticino, Vallese), ogni anno, dal 1976, nel corso del primo semestre dell’anno successivo a quello cui la compensazione finanziaria si riferisce, versano il 40% dell’ammontare lordo delle imposte sulle remunerazioni pagate durante l’anno solare dai frontalieri italiani, come compensazione delle spese sostenute dai Comuni italiani, a causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio ed esercitano un’attività dipendente sul territorio di uno dei predetti cantoni.

iii. Il versamento avviene in franchi svizzeri in un conto aperto presso la Tesoreria centrale italiana, intestato al Ministero del tesoro e denominato: “Compensazioni finanziarie per l’imposizione operata in Svizzera sulle remunerazioni dei frontalieri italiani”. Le autorità italiane provvederanno a ritrasferire dette somme ai Comuni nei quali risieda un adeguato numero di frontalieri, d’intesa – per i criteri di ripartizione e di utilizzo – con i competenti organi delle Amministrazioni locali interessate.

Accordo 2020

  1. I) I salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri e pagate da un datore di lavoro quale corrispettivo di un’attività di lavoro dipendente, sono imponibili nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta. Tuttavia, l’imposta così calcolata non può eccedere l’80% dell’imposta complessiva risultante dall’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche vigente nel luogo in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta, ivi incluse le imposte locali sui redditi. Lo Stato di residenza assoggetta a sua volta a tassazione ed elimina la doppia imposizione.
  2. II) Il nuovo carico fiscale totale sul reddito da attività di lavoro dipendente dei lavoratori frontalieri residenti in Italia previsto dal nuovo Accordo, non può essere inferiore all’imposta che sarebbe prelevata in applicazione del precedente Accordo sui lavoratori frontalieri del 1974.

III) L’imposizione dei lavoratori frontalieri nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta è effettuata tramite imposizione alla fonte. Qualsiasi altro metodo d’imposizione è escluso ai fini del presente Accordo.

  1. IV) Lo Stato di residenza del lavoratore frontaliere elimina la doppia imposizione sui salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri, in conformità alle disposizioni dell’articolo 24 della Convenzione contro le doppie imposizioni del 1976.
  2. V) La Svizzera, al fine di eliminare la doppia imposizione, prenderà in conto nella determinazione della base imponibile, le imposte prelevate, riducendo dell’80% l’importo lordo del salario, dello stipendio e delle altre remunerazioni analoghe ricevute dal lavoratore frontaliere fiscalmente residente in Svizzera.

L’art. 4 della Legge di ratifica del nuovo Accordo 2020, eleva la franchigia applicabile ai lavoratori frontalieri italiani, a decorrere dal periodo d’imposta 2024. Conseguentemente, il reddito da lavoro dipendente prestato all’estero in zona di frontiera, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano, concorre a formare il reddito complessivo per l’importo eccedente i 10.000 euro (fino al 31/12/2023, come già evidenziato, la franchigia era 7.500 euro).

Relativamente ai frontalieri elvetici, sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, l’imposta netta e le addizionali comunale e regionale all’IRPEF, dovute sui redditi derivanti da lavoro dipendente prestato in Italia, sono specularmente ridotte del 20%. Le riduzioni, da indicare nella CU, spettano comunque negli importi determinati dal sostituto d’imposta, anche nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione dei redditi.

L’Accordo introduce, inoltre, una “clausola anti-abuso”, in forza della quale, laddove l’autorità competente di uno degli Stati contraenti venga a conoscenza di uno o più casi di abuso evidente e manifesto delle disposizioni, tale autorità può sottoporre il caso o i casi all’autorità competente dell’altro Stato contraente, onde definire il corretto trattamento fiscale ai fini dell’Accordo.

Spostandoci, ora, nell’alveo previdenziale, un aspetto importante dell’Accordo è dedicato al “telelavoro frontaliero”, che viene qualificato come:

Un’attività che può essere svolta da un qualsiasi luogo e può essere eseguita presso i locali o la sede del datore di lavoro, e che presenta le seguenti caratteristiche:

  1. Viene svolta in uno o più Stati membri diversi da quello in cui sono situati i locali o la sede del datore di lavoro;
  2. Si basa su tecnologie informatiche che permettono di rimanere connessi con l’ambiente di lavoro del datore di lavoro o dell’azienda e con le parti interessate o i clienti, al fine di svolgere i compiti assegnati dal datore di lavoro, nel caso dei lavoratori dipendenti, o dai clienti, nel caso dei lavoratori autonomi.

L’Accordo si applica ai lavoratori dipendenti che svolgono abitualmente telelavoro transfrontaliero a condizione che la loro residenza sia in uno Stato firmatario e che la sede legale o il domicilio dell’impresa o del datore di lavoro siano situati in un altro Stato firmatario. I soggetti che ricadono nell’ambito di applicazione dell’Accordo sono i lavoratori ai quali, in seguito al telelavoro transfrontaliero abituale e per effetto delle norme generali contenute nei regolamenti comunitari, si applicherebbe la legislazione dello Stato di residenza. I lavoratori possono essere occupati da una o più imprese e, in tale ipotesi, è necessario che i datori di lavoro abbiano la loro sede legale o il loro domicilio in un unico Stato firmatario. Per contro, l’Accordo non si applica nei seguenti casi:

– esercizio abituale di un’attività diversa dal telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza, e/o;

– esercizio abituale di un’attività in un altro Stato diverso da quello di residenza del lavoratore o in cui ha la sede legale o il domicilio l’impresa, e/o;

– esercizio lavoro autonomo.

In tali situazioni e per tutte quelle non contemplate dall’Accordo, come espressamente previsto, resta comunque impregiudicata la possibilità di concludere un accordo su base individuale, ex regolamento (CE) 883/2004.

Restando in tema di diritto europeo (art. 14 del Reg. CE 987/2009), si ricorda che una persona residente in Italia che lavora in Svizzera, può lavorare da casa al massimo per il 24,99% del tempo di lavoro previsto dal contratto. In caso di superamento di questa soglia, l’autorità previdenziale italiana (INPS) acquisisce la facoltà di richiedere all’azienda svizzera l’incasso del relativo contributo in Italia. Nello specifico, il predetto istituto ha avuto modo di affermare (messaggio 1072/2024), che, in base a quanto stabilito dal nuovo Accordo Italia/ Svizzera:

Su domanda, la persona che svolge abitualmente telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza in misura inferiore al 50% del tempo di lavoro complessivo, può essere assoggettata alla legislazione di sicurezza sociale dello Stato in cui il datore di lavoro ha la sede legale o il domicilio.

L’Accordo, pertanto, introduce la possibilità di derogare alla regola generale per la determinazione della legislazione applicabile nei casi di esercizio dell’attività in due o più Stati membri, in base alla quale la persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato di residenza se esercita un’attività pari o superiore al 25% in detto Stato membro (cfr. art. 13, par. 1, lett. a, regolamento CE 883/2004, in combinato disposto con l’art. 14, par. 8 e 10, regolamento CE 987/2009).

In attesa della revisione dei regolamenti comunitari di sicurezza sociale e dell’adozione di una specifica disciplina del telelavoro transfrontaliero, l’Accordo pare offrire una soluzione che concili gli interessi di tutte le parti in causa. In particolare, l’Accordo garantisce ai lavoratori la possibilità di potere continuare a svolgere la prestazione da remoto nello Stato di residenza, senza che ciò comporti una modifica della legislazione applicabile e sia così salvaguardata anche la continuità assicurativa in un solo Stato membro. Per contro, i datori di lavoro non hanno alcun ulteriore obbligo o adempimento da effettuare nello Stato di residenza del lavoratore.

La legge di ratifica dell’Accordo precisa, infine, talune ulteriori regole di carattere previdenziale, che peraltro non pare necessitino di particolari approfondimenti.

  1. I) Contributi prepensionamenti

A decorrere dal periodo d’imposta 2024, i contributi previdenziali per il prepensionamento di categoria che, in base a disposizioni contrattuali, sono a carico dei lavoratori frontalieri nei confronti degli enti di previdenza dello Stato in cui gli stessi prestano l’attività lavorativa, sono deducibili dal reddito complessivo nell’importo risultante dalla documentazione concernente l’effettivo sostenimento degli stessi.

  1. II) Assegni familiari

Sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, sono esclusi dalla base imponibile IRPEF, gli assegni di sostegno al nucleo familiare erogati dagli enti di previdenza dello Stato in cui il frontaliere presta l’attività lavorativa.

III) Naspi

A meno che l’importo della Naspi risulti comunque superiore all’indennità di disoccupazione prevista dalla legislazione svizzera (cosa, invero, assai improbabile), la Naspi per i frontalieri è calcolata per i primi 3 mesi in misura pari all’importo erogabile, in caso di disoccupazione, ai sensi della legislazione svizzera, secondo le modalità stabilite dall’art. 65, par. 6, II periodo, regolamento CE 883/2004, che risulta applicabile in forza dell’Accordo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Confederazione svizzera dall’altra, sulla libera circolazione delle persone.

Venendo ora, in sede conclusiva, alle recenti novità pubblicate l’8 ottobre 2024, a fronte del complessivo scenario fiscale sopra delineato, interviene la novella recata dall’art. 6, d.l. 113/2024.

I lavoratori possono optare per l’applicazione, sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera, di un’imposta sostitutiva di IRPEF e addizionali, pari al 25% delle imposte applicate in Svizzera sugli stessi redditi, se sussistono le seguenti condizioni:

  1. a) Il lavoratore si qualifica come frontaliere in base al nuovo Accordo del 2020;
  2. b) Il lavoratore, alla data di entrata in vigore del predetto Accordo, era qualificato come “attuale frontaliere”;
  3. c) I redditi sono assoggettati a tassazione in Svizzera secondo i criteri indicati sempre nel nuovo Accordo del 2020.

A tal riguardo, le imposte pagate in Svizzera sui redditi assoggettati all’imposta sostitutiva non sono ammesse in detrazione. L’opzione è esercitata dal lavoratore nella propria dichiarazione dei redditi. Il versamento dell’imposta sostitutiva è eseguito entro il termine per il versamento a saldo delle imposte sui redditi. L’ammontare delle imposte applicate in Svizzera è convertito in euro sulla base del cambio medio annuale del periodo d’imposta in cui i redditi sono percepiti. Per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, si applicano, in quanto compatibili, le ordinarie disposizioni in materia di imposte dirette. L’opzione per l’imposta sostitutiva può essere esercitata anche dai lavoratori dipendenti, qualificati come “attuali frontalieri”, residenti nei comuni delle province di Brescia e di Sondrio, inclusi nell’elenco allegato al decreto. Infine, i lavoratori che esercitano l’opzione in argomento, detraggono dall’imposta sostitutiva un importo pari al 20% dei contributi dovuti per il SSN sulla base delle regole e delle aliquote stabilite dalla regione di residenza.

Al di là delle novità di carattere fiscale di cui sopra, pare opportuno richiamare l’attenzione sulla novella concernente i comuni interessati dalla normativa.

In passato, non esisteva un elenco definito di comuni italiani considerati frontalieri; la Svizzera gestiva tale elenco unilateralmente, includendo solo i comuni situati entro 20 chilometri dal confine con i cantoni: Grigioni, Ticino e Vallese. Con il nuovo Accordo, è stato definito un elenco ufficiale di 72 comuni italiani situati entro 20 chilometri dal confine svizzero, che non erano stati precedentemente inclusi. Ciò consente ai residenti di tali comuni di accedere al nuovo regime fiscale, pur non avendo di fatto beneficiato del vecchio regime dei frontalieri. Per l’elenco di tutti i comuni italiani interessati, si rimanda agli allegati 1 e 2 del decreto.

*ODCEC Roma

di Andrea Federici*

“Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti gli altri giorni che verranno può dipendere da quello che farai oggi”.1

Nella pratica del diritto del lavoro, sempre più di sovente, ci si confronta con aspetti tecnici informatici che hanno riflessi in materia di organizzazione del personale.

Tra gli altri, è quanto accade dovendo affrontare la correlazione tra diritto alla riservatezza dei dipendenti e collaboratori e casella e-mail aziendale individualizzata. È principio ormai consolidato che il nome e cognome, ancorché accompagnati dal dominio aziendale, sono a tutti gli effetti dati personali del dipendente o collaboratore e, per questo, soggetti alle tutele di legge.

1 Ernest Hemingway, Per chi suona la campana

Un recente provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali (provvedimento del 17 luglio 2024) è occasione per condividere alcune riflessioni che riportano all’attenzione l’importanza di pianificare anzitempo l’organizzazione del personale, in particolare rispetto agli strumenti informatici affidati, ancorché gli effetti positivi, ritengo, non possano apprezzarsi nell’immediatezza, ma solo a conclamata “patologia”, conseguente al rilievo disciplinare o allo scioglimento del rapporto lavorativo o di collaborazione.

Il menzionato provvedimento del Garante trae origine da un contenzioso incardinato innanzi alla Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Venezia già in sede cautelare (RG n. 4897/2021 -Giudice Lisa Torresan), nel quale l’impresa ricorrente imputava ad un proprio agente di commercio di avere, con la collaborazione di alcuni dipendenti, dato forma ad un disegno illecito, finalizzato a sottrarre informazioni segrete o comunque riservate di natura commerciale.

Tra gli elementi di prova, l’impresa ricorrente aveva allegato copiosa corrispondenza elettronica dei resistenti, acquisita mantenendo attivo l’account aziendale e accedendo al contenuto di tutta la corrispondenza transitata nello stesso profilo di posta elettronica individualizzato.

Ed è proprio sulla conservazione di tali dati o, meglio, sull’attività di indagine sul contenuto della posta elettronica dell’agente mediante accesso all’applicativo Mail Store installato sui pc aziendali, che si è concentrata l’attività istruttoria del Garante, risoltosi nel provvedimento citato e che ha condotto l’autorità a dichiarare illegittimo il trattamento operato dall’impresa e, tra le altre, ingiungendo il pagamento di una consistente sanzione pecuniaria di euro 80.000,00.

In sintesi, vengono esaminati due fondamentali documenti aziendali: da un lato, l’informativa rilasciata dal titolare del trattamento, dall’altro il regolamento aziendale e, in particolare, quanto avente ad oggetto “attrezzatura utilizzata dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.

Il Garante evidenzia come l’informativa rilasciata ai dipendenti e collaboratori risultava essere generica, nella misura in cui prevedeva: “la conservazione dei dati personali unicamente per consentire l’espletamento di tutti gli adempimenti connessi o derivanti dal rapporto di lavoro, indicando come tempo di conservazione il termine di dieci anni …(omissis)”; dall’altro, il regolamento, informava il dipendente (interessato) che: “ (omissis) …è informato della elaborazione di log degli accessi alla posta elettronica e al gestionale che sono conservati per una durata di almeno sei mesi”.

In realtà, rileva il Garante, nessuna informazione veniva fornita in merito alla possibilità di effettuare back up del contenuto della casella individuale di posta elettronica in costanza di rapporto, né in ordine al contenuto archiviato successivamente alla cessazione dello stesso per un periodo di ulteriori tre anni. Parimenti carente risultava l’informazione in ordine alla finalità di analizzare le e-mail presenti nell’account aziendale e verificarne in contenuto, finalità ultronea a quella dichiarata, ovvero garantire la sicurezza dei sistemi informatici.

Sotto altro profilo, il Garante sottolinea come il trattamento che la società ha effettuato in qualità di datore di lavoro sui dati contenuti nella casella di posta elettronica (inviata e ricevuta) assegnata ai propri dipendenti è idoneo a consentire un’attività di controllo sull’attività dei lavoratori in violazione di quanto previsto dall’art. 4 della legge 300 del 20.5.1970 ove, anche se si realizzasse una delle finalità tassativamente indicate dall’art. 4, comma 1 della citata disposizione, la Società non ha attivato le procedure di garanzia ivi previste, ovvero accordo con le rappresentanze sindacali o, in assenza, di autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, con questo risultando certamente illegittimo tale trattamento.

Per ampliare l’argomento di dissertazione, i principi qui espressi richiamano alla mente la pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7.9.2017, Caso Barbulescu v. Romania (application n. 61496/2008). La Grande Camera si è espressa in favore delle ragioni del dipendente, difformemente alla Corte Nazionale, ritenendo essenziali i principi di garanzia procedurale e di proporzionalità, nel bilanciamento tra rispetto della vita privata del dipendete ed esigenze, anche disciplinari, della parte datoriale. Secondo i Giudici di Strasburgo, principi ineliminabili di tale bilanciamento sono:

  1. a) che il lavoratore sia informato preventivamente e in modo chiaro sulla possibilità che il datore di lavoro monitori la corrispondenza e altre comunicazioni;
  2. b) che siano fornite indicazioni precise e circostanziate sulla natura di tale controllo;
  3. c) sia effettuata una valutazione del grado e dell’ampiezza dell’intrusione, tenendo conto del tempo e del numero di soggetti che possono accedere ai contenuti archiviati;
  4. d) esistenza di fondati motivi che legittimino il controllo delle comunicazioni e l’accesso al loro contenuto, dal momento che per sua natura tale processo è di tipo invasivo;
  5. e) possibilità di istituire un sistema di monitoraggio meno intrusivo, valutando, caso per caso, se l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro possa essere raggiunto senza accedere direttamente al contenuto completo delle comunicazioni del lavoratore;
  6. f) le conseguenze del monitoraggio del lavoratore e dell’utilizzo da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione di controllo;
  7. g) l’esistenza di adeguate garanzie per il lavoratore.

In linea con i contenuti espressi appare, quindi, che il datore di lavoro debba prestare la massima attenzione e attentamente pianificare l’introduzione di sistemi di conservazione delle e-mail aziendali individualizzate concesse in uso al proprio personale dipendente e collaboratori, non solo agendo, in via preventiva sullo specifico contenuto del proprio regolamento aziendale secondo i richiamati principi e dandone specifica informazione al dipendete, ma valutando altresì caso per caso, se l’introduzione di nuove tecnologie comporti riflessi di controllo sull’attività del dipendente e, per questo, da sottoporre alle garanzie e limiti di cui all’art. 4 della legge 300 del 20.5.1970.

Solo la costruzione di un processo organizzativo ragionato ab origine potrà consentire alla parte datoriale il legittimo esercizio del trattamento dei dati acquisiti e, se del caso, il conseguente potere disciplinare, senza incorrere in prevedibili responsabilità e sanzioni.

*Avvocato in Bologna

di Stefano Grimaldi*

Oggi, forse come non mai nella storia precedente, siamo sotto scacco di un’ansia moderna scaturita da pressioni del futuro prossimo, foriere di instabilità politica, sociale, morale, lavorativa, occupazionale.

In questo quadro molto ecumenico e paradossalmente democratico, che investe tutti o quasi, possiamo già definire il fatto che il lavoro del Giuslavorista è una di quelle attività dinamicizzate e suscettibili di profonde trasformazioni, conseguentemente al mutare veloce di tutto il mondo del lavoro e delle varie esigenze-emergenze sociali ma che, in particolare, anch’essa prende spinta dalla propulsione dell’ innovazione tecnologica, già alle porte di ogni professione e in piena fase di decollo verticale.

Questa situazione di complessità ed esigenze trasformative, ormai naturali e dicevamo avviate, renderà sempre più impellente e necessaria una figura consulenziale strategica, capace di coniugare e coordinare varie discipline unitamente alle varie figure professionali necessarie allo scopo comune di cui, brevemente, si andrà a trattare fra poco.

Ad esempio; la moltitudine di forme contrattuali che vanno dal part-time al freelance ecc, unitamente ai nuovi sistemi di lavoro (sempre più in smart e remoto poiché la cosiddetta LIFE BALANCE oggi è prioritaria), richiederanno all’esperto Giuslavorista doti di gestione relativamente al lavoro flessibile e una buona dose di approfondimenti e aggiornamenti (non solo normativi), su quali saranno le vie migliori per assicurare tutto quanto le moderne condizioni di lavoro vogliono garantite. Fra le quali, come non bastasse, capacità umanistiche di inclusività e tutela della salute dei lavoratori, non ultime la gestione di performance sempre più insaziabili e dati sempre più numerosi e soprattutto sensibili da attenzionare.

Dati che, abbiamo visto essere un “nuovo petrolio”.

Informazioni che, attraverso dossieraggi delinquenziali sono in grado di distruggere reputazioni (umane e aziendali), destabilizzare un sistema economico, turbare e affossare mercati. Per dirne solo alcune.

Tornando per un attimo alle righe precedenti nelle quali si accennava a un futuro sostenibile, equo e attento “all’uomo”, non va dimenticato che le normative europee hanno fissato in agenda pure parametri di governance responsabili, ambientaliste ed etiche; all’interno delle quali il Giuslavorista sarà chiamato a consigliare sulle nuove e più attuali politiche di lavoro, riferendosi a un nuovo welfare aziendale e a una sostenibilità, molto ESG, come imprescindibile strategia di sviluppo e tenuta sul mercato.

Il Giuslavorista, sarà una figura determinante anche in questo percorso.

Ma un Giuslavorista che si rispetti non può, in tutto questo bailamme gestionale, farsi mancare una sana crisi d’impresa ricca di capovolgimenti di fronte, licenziamenti (magari per colpa o grazie alla IA ed alle sue considerazioni), insolvenze, fallimenti, procedure varie… contestualmente alla specializzazione che verrà loro richiesta; nell’adozione delle neonate ma già pimpanti piattaforme digitali capaci di un potere risolutivo, mai visto prima, delle controversie di ogni tipo o nella stesura di contratti dalla velocità di risposta fotonica.

Quindi, il Giuslavorista con grande probabilità, aumenterà il proprio patrimonio professionale, o meglio, dovrà aumentarlo, proprio perché dopo ciò detto, diventerà ancor più una figura fondamentale e collaborativa ovvero collante fra skills umane e intelligenza informatica; fra psicologi del lavoro, lavoratori, capi d’azienda e quant’altro, a garanzia di integrazione e consulenza globale.

Altroché.

Ella-Egli, dovranno garantire e garantirsi una continua formazione. Una perseverante e intensa vicinanza a tutti i comparti, ai settori e agli attori di questa complessa macchina che è un mondo del lavoro sempre più sfidante.

In conclusione, alla domanda delle cento pistole: L’intelligenza artificiale sostituirà l’uomo?

È ragionevole ipotizzare che, al pari di ogni epoca, percentuali umane difficilmente pronosticabili patiscono e patiranno l’evoluzione. Converrà quindi intanto puntare, a mio avviso, su belle scorte di: resilienza, specializzazione, capacità evolutiva, interazione professionale.

Ergo, in questi casi aperti nell’incipit e citati sopra… tranquilli, l’ora del decesso della professione giuslavoristica pare non sia ancora arrivata…anzi, meno male che ad aiutarvi nell’oceano delle richieste ci sarà l’amica IA.

*Direttore Responsabile – Ordine Naz. Giornalisti 150732