Dopo i voucher solo incertezza, per il momento

di Gaia Davini, Laila Dania Domini, Riccardo Lari, Elisabetta Scatena e Graziano Vezzoni*

Da ormai due mesi è stato abolito dal nostro ordinamento il lavoro accessorio, la cui retribuzione si basava sui buoni lavoro, meglio conosciuti come voucher, e i datori di lavoro che vi facevano ricorso legittimamente sono alla ricerca di strumenti alternativi, che abbiano analoghe caratteristiche di semplicità e flessibilità. L’abolizione è stata disposta dall’art. 1 del decreto legge 17 marzo 2017, n. 25 “Disposizioni urgenti per l’abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonché per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità solidale in materia di appalti”, convertito dalla legge 20 aprile 2017, n. 49, che ha abrogato gli articoli da 48 a 50 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81.

È stato posto fine ai voucher dopo che i Sindacati dei lavoratori, in realtà la Cgil, hanno raggiunto il quorum necessario per il referendum sulla loro abolizione. La guerra, tutta ideologica, condotta dai Sindacati, era basata sull’assunto che l’esistenza dei voucher era di impedimento ad una effettiva assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori e che il loro massiccio utilizzo incrementava il precariato. I Sindacati, pur essendo stati anche loro grandi utilizzatori dei voucher (sic), non hanno mai riconosciuto che nel nostro Paese esistono delle forme di lavoro “incompatibili” con i contratti di lavoro a tempo indeterminato, anche se part time o intermittente. Bisogna, altresì dire, che effettivamente all’inizio vi è stato un uso distorto se non un vero abuso di questo istituto, che però era stato prontamente arginato con il decreto legislativo n.185/2016 che aveva reso più stringente il suo utilizzo prevedendo una maggiore tracciabilità dei voucher ed una specifica disciplina sanzionatoria. Adesso però ci domandiamo tutto quel mondo che veniva coperto dai voucher, dove finirà? Senz’altro una gran parte finirà nel mondo dell’invisibile (leggi lavoro nero) ed ad un’altra parte spetterà ai professionisti proporre ai datori di lavoro delle alternative. Vediamo quindi quali possono essere queste alternative.

Lavoro intermittente

Il contratto di lavoro intermittente o a chiamata, regolato dall’art.13 decreto legislativo 81/2015, a differenza dei voucher è, a tutti gli effetti, un rapporto di lavoro subordinato nato per sopperire a temporanee esigenze di prestazioni di lavoro. L’unica cosa è che non può essere utilizzato da tutti i datori di lavoro, devono infatti sussistere alcune condizioni, quali:

  • la tipologia contrattuale deve essere prevista dal contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento;
  • i lavoratori da assumere devono avere meno di 24 anni o più di 55 anni;
  • le occupazioni che, per legge, sono considerate discontinue sono quelle previste dalla tabella allegata al regio decreto 2657/1923.

Quindi prima di stipulare un contratto di lavoro a chiamata bisogna verificare se ricorre una delle tre suddette condizioni. Per quanto riguarda il concreto svolgimento del rapporto di lavoro le similitudini con il sistema dei voucher sono notevoli, perché il lavoratore intermittente (senza disponibilità) matura il diritto alla retribuzione unicamente nei giorni in cui il datore di lavoro richiede la sua prestazione mentre nei periodi in cui è in attesa di una chiamata non è titolare dei diritti spettanti ai lavoratori subordinati. Il lavoro a chiamata può prevedere anche una garanzia di disponibilità dove il lavoratore si obbliga a rimanere a disposizione del datore di lavoro in caso di una chiamata in cambio di una indennità monetaria. Questo tipo di contratto è ammesso ed il suo svolgimento, con il medesimo datore di lavoro, non deve essere superiore a 400 giornate nell’arco di 3 anni solari; se viene superato tale limite il rapporto di lavoro si trasforma in un rapporto a tempo indeterminato. Tale limitazione non vale per i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo. Prima dell’inizio della prestazione lavorativa il datore di lavoro è obbligato a darne comunicazione in via telematica all’Ispettorato nazionale del lavoro, attraverso il servizio informatico Clicklavoro, con email all’indirizzo PEC intermittenti@pec.lavoro.gov.it, tramite l’App Lavoro Intermittente, SMS al n. 3399942256 e in caso di malfunzionamento degli altri sistemi per fax.

Contratto a tempo parziale

Il contratto di lavoro a tempo parziale (part time) si caratterizza per una ridotta durata della prestazione lavorativa rispetto all’orario lavorativo standard previsto per la generalità dei lavoratori dipendenti. Può essere stipulato sia a tempo determinato che a tempo indeterminato e non si pone in rapporto di specialità od eccezionalità rispetto all’ordinario rapporto di lavoro full time. Il quadro normativo non pone particolari vincoli o condizioni alla stipula di questo tipo di contratto, limitandosi a chiedere la precisa fissazione della durata complessiva della prestazione nell’arco della settimana, del mese o dell’anno e la corretta determinazione della collocazione giornaliera della stessa nell’arco della singola giornata di lavoro, rimettendo di fatto alla contrattazione collettiva l’individuazione di particolari condizioni o limiti. Tale rinvio ha comportato l’inapplicabilità del contratto part time a tutte quelle prestazioni di lavoro caratterizzate da una durata della prestazione estremamente contenuta nei settori i cui contratti di categoria prevedono una durata minima sotto la quale non è possibile scendere, ad esempio il CCNL commercio (Confcommercio). Detto problema aveva trovato una pratica soluzione nell’utilizzo dei voucher i quali, consentivano di regolare tutte quelle prestazioni che si caratterizzavano per una ridotta frequenza e/o per una notevole variabilità della stessa. Con l’abolizione dei voucher il problema è riemerso in tutta la sua complessità lasciando un vuoto normativo difficile da colmare e obbligando i professionisti del settore ad interrogarsi su se e quando il contratto part- time possa sostituire i voucher. La risposta non può che essere negativa e ciò per una moltitudine di ragioni che sono al contempo pratiche, strutturali ed economiche; (i) la prima di queste ragioni si ravvisa nella natura stessa delle prestazioni in oggetto che si caratterizzano per l’occasionalità e per l’accessorietà, ovvero in altri termini si caratterizzavano per l’assenza di una riproduzione schematica nell’esercizio della prestazione sia in termini temporali sia in termini di mansioni affidate. Contrariamente, come già detto sopra, l’individuazione della durata della prestazione è elemento imprescindibile nel contratto di lavoro part- time, a cui va aggiunta l’individuazione di mansioni predefinite così come per ogni tipologia contrattuale e ciò anche qualora si inseriscano clausole di flessibilità. Anche nella fortunata ipotesi in cui la prestazione presenti profili di stabilità, idonei a giustificare la stipula di un contratto part time, un’ulteriore (ii) problematica è economica. Le disposizioni normative in materia di voucher consentivano nel corso di un anno solare di corrispondere ad ogni singolo prestatore un importo massimo approssimato di 2.690 Euro lordi corrispondenti a 269 ore di lavoro. Poiché molti CCNL prevedono una prestazione minima (vedi sopra) il datore di lavoro sarebbe costretto a spendere una somma superiore a quella che sosteneva prima rispettando la legge. Un attento lettore potrebbe sempre opporre a questa affermazione l’assunto che per l’effetto dell’abolizione dei voucher un committente anziché rivolgersi a più prestatori potrà assumerne uno solo o alcuni di quelli che impiegava prima, stipulando con loro un contratto part-time che sia pari alla durata delle lavorazioni precedentemente affidate a più prestatori, provocando così la riduzione della precarietà, di cui i voucher sono stati incolpati di essere, tra gli altri la causa. In vero, escludendo situazioni limite, molti committenti utilizzavano i voucher poiché con essi potevano, riducendo al minimo le incombenze burocratiche, dare regolamentazione alla prestazioni svolte da più soggetti nel corso di una singola giornata o di un gruppo di giornate, a cui si riconnettevano picchi insoliti di lavoro, si pensi alla singola manifestazione o al singolo evento che comportano la necessità di un addetto alle vendite o di un cameriere in più rispetto al normale organico.

Alla luce di queste brevi riflessioni pare evidente che il contratto part-time non può essere la soluzione per la regolamentazione di quelle prestazioni occasionali e accessorie oggettivamente “genuine”, ovvero di tutte quelle prestazioni che o per assenza della riproduzioni di uno schema standard di prestazione o che per la saltuarietà dell’evento a cui si collegano non giustificano né strutturalmente né economicamente la stipula di un contratto, neanche part time.

Lavoro autonomo occasionale

L’art. 2222 del codice civile disciplina l’attività di lavoro autonomo occasionale: “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”. Per evitare che l’attività svolta sia riconducibile al contratto di lavoro subordinato è necessario che sia di un buon grado professionale e priva di etero-direzione ed etero-organizzazione. Quindi il rapporto deve essere caratterizzato dall’assenza di un orario prestabilito, dalla completa libertà nelle scelte tecniche di esecuzione del lavoro o del servizio, deve essere fissato un risultato da raggiungere con l’assunzione del rischio economico da parte del lavoratore autonomo. Per confermare l’occasionalità è essenziale che la prestazione sia priva del carattere di periodicità, pena l’assoggettamento ad IVA e a tutti gli adempimenti previsti per le attività esercitate in modo professionale. La legge attualmente in vigore non pone limiti né di importo né di durata (la legge Biagi imponeva un limite di euro 5.000 e una durata complessiva non superiore a 30 giorni), ma prevede l’iscrizione alla Gestione Separata Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale) e il pagamento dei relativi contributi nel caso di superamento dell’importo complessivo di euro 5.000 di prestazioni occasionale. Tale importo funge anche da franchigia. Infatti è stato chiarito dall’INPS che il contributo è dovuto solo sulla parte eccedente, per l’anno 2017, nella misura del 25,72%, se il lavoratore è privo di copertura pensionistica obbligatoria, e del 24%, se in pensione o provvisto di altra assicurazione pensionistica. Il contributo è versato dal Committente (Datore di lavoro). Il lavoratore contribuisce nella misura di 1/3 mediante ritenuta. L’intero compenso imponibile della prestazione è soggetto alla ritenuta fiscale del 20% a titolo d’acconto. Come precisato dall’art. 71, comma 2, del Tuir, “le spese specificatamente inerenti alla loro produzione” (ad esempio spese di viaggio, vitto e alloggio) sostenute dal lavoratore autonomo occasionale sono deducibili dall’ammontare dei compensi da questo percepiti direttamente nella propria dichiarazione dei redditi.

È evidente la maggiore quantità di adempimenti burocratici sia a carico del prestatore che del committente, il maggior rischio sanzionatorio in caso di controllo o di vertenza e anche il maggior costo, in caso di applicazione dei contributi da versare alla Gestione Separata Inps, rispetto al soppresso lavoro accessorio retribuito mediante i voucher.

Contratto d’opera

Il contratto d’opera, come il lavoro autonomo occasionale (vedi sopra), è regolato dall’art. 2222 del codice civile. Oggetto del contratto è l’opera prestata o il servizio reso, il tutto svolto con autonomia e piena discrezionalità tecnica del prestatore nei confronti del committente, senza alcun vincolo di subordinazione. Di fatto, tale tipologia rientra in una fattispecie di lavoro autonomo, quindi al di fuori di ogni previsione di lavoro subordinato: in particolare, l’elemento peculiare del contratto d’opera consiste in una elevata autonomia e una prevalenza del lavoro personale rispetto all’organizzazione di mezzi e servizi. Questi tratti, oltre a distinguerlo dal rapporto di lavoro subordinato, la cui obbligazione è tipicamente di mezzi mentre quella del contratto d’opera è di risultato, lo distinguono anche da altre forme di lavoro autonomo, quale ad esempio il contratto di appalto. In effetti, mentre nel contratto di appalto siamo in presenza di una organizzazione di mezzi e servizi, nel contratto d’opera prevale sempre l’elemento del lavoro personale (anche se coadiuvato da componenti della famiglia o da collaboratori secondo il modulo organizzativo della piccola impresa ex art. 2083 codice civile). In sintesi, il contratto d’opera deve:

  • consistere in un’opera o in un servizio: per opera si intende un impegno di fare per servizio una attività tesa a soddisfare un interesse del committente;
  • essere prevalentemente (e non esclusivamente, come nel rapporto di lavoro subordinato) personale;
  • svolgersi senza alcun vincolo di subordinazione: il prestatore gode di una piena discrezionalità tecnica anche se si obbliga a eseguire la prestazione in base alle regole stabilite dal committente;
  • essere compensato con un corrispettivo e non dalla retribuzione: corrispettivo che viene generalmente convenuto tra le parti, salvo il ricorso al giudice in caso di disaccordo;
  • essere effettuato sotto la responsabilità del prestatore per eventuali vizi o difformità: non essendoci vincolo di subordinazione, il rapporto lavorativo si basa sulla diligenza del prestatore, per cui in caso di mancata o inesatta esecuzione dell’opera il committente può denunciare ciò e recedere unilateralmente dal contratto.

Questo breve excursus è stato fatto in quanto, rispettate le caratteristiche sopra descritte, il contratto in esame può rappresentare una alternativa all’utilizzo dei voucher, tenendo anche conto che in Europa i voucher sono stati utilizzati esclusivamente per le famiglie e il no profit e non per le imprese in relazione alle quali, in mancanza di nuovi interventi, non rimane che l’utilizzo di contratti, di natura subordinata o autonoma.

Collaboratori familiari nel settore artigianato, agricoltura e commercio senza compenso

Per quanto concerne il corretto inquadramento dei collaboratori familiari che prestano servizio a titolo gratuito e occasionale nei diversi settori dell’artigianato, agricoltura, commercio, la disciplina più univoca, a cui riferirsi, è stata dettata dal Ministero del Lavoro con Circolare n. 10478 del 10 giugno 2013 e n. 14184 del 5 agosto 2013. Andando ad analizzare le condizioni e le caratteristiche di tali collaborazioni occorre analizzare e valutare:

  • l’occasionalità della prestazione, che deve essere fondata sul principio “prestazione resa affectionis vel benevolentiae causa” (prestazioni rese per spirito di solidarietà e gratitudine), si intende quella caratterizzata dalla non sistematicità e stabilità dei compiti espletati, con comportamenti non fondamentali e prevalenti nell’ambito della gestione e del funzionamento dell’impresa;
  • il vincolo di parentela, i soggetti che possono essere collaboratori familiari sono il coniuge, parenti e affini entro il terzo grado per quanto riguarda artigianato e commercio, mentre nel settore agricolo possono essere collaboratori i parenti e gli affini entro il quarto grado.

I soggetti economici che possono beneficiare delle collaborazioni di tipo gratuito da parte dei familiari sono: (i) le imprese individuali e (ii) le società di persone in cui il socio familiare sia socio di maggioranza o amministratore unico.

La caratteristica dell’occasionalità della prestazione lavorativa da parte del familiare, così da escludere l’obbligo di iscrizione Inps è sostenibile nel caso di prestazioni rese da familiari pensionati (percipienti pensione di invalidità, vecchiaia o anzianità), di prestazioni rese da familiare con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno presso un altro soggetto economico e di prestazioni fornite nell’ambito dell’impresa familiare, anche da familiari studenti, nel rispetto del vincolo temporale di 90 giorni, intesi come frazionabili in ore, ossia 720 ore nel corso dell’anno solare. Nel caso di superamento dei 90 giorni, il limite quantitativo si considera comunque rispettato anche laddove l’attività resa dal familiare si svolga soltanto per qualche ora al giorno, fermo restando il tetto massimo delle 720 ore annue. In questi casi opera una presunzione a favore del familiare di natura occasionale, è comunque possibile che tale condizione venga contestata dal personale ispettivo ove disponga di precisi indici sintomatici e di documentazione probatoria di carattere oggettivo ed incontrovertibile, che si tratta di una prestazione lavorativa in senso stretto, ad esempio se vi è la prova che il familiare pensionato è presente tutti i giorni e non in via residuale nei luoghi di lavoro. Ai fini previdenziali e assicurativi:

– non è richiesta l’iscrizione alla gestione assicurativa di competenza Inps se si tratta di mere prestazioni occasionali e del rispetto del limite temporale dei 90 giorni all’anno o 720 ore all’anno;

– per le collaborazioni familiari a titolo gratuito l’iscrizione Inail (Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro) non è dovuta solo se la prestazione non viene erogata più di una/due volte nell’arco dello stesso mese e comunque non più di 10 gg l’anno.

Ai fini degli obblighi in materia di sicurezza, la normativa è interamente applicabile anche ai collaboratori familiari occasionali a titolo gratuito.

* Odcec Lucca

 

 

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