Rassegna di giurisprudenza – Licenziamento per superamento periodo di comporto

di Bernardina Calafiori* e Alessandro Daverio* 

Ordinanza   Tribunale   di   Santa   Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n. 20012 

Licenziamento – nullità – periodo di comporto – malattia – obbligo preavviso da parte del datore di lavoro – necessità 

Un dipendente di un’Azienda del settore della Grande Distribuzione veniva licenziato per il superamento del periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva.

A seguito della comunicazione impugnava davanti al Tribunale il provvedimento, ritenendolo illegittimo poiché, a suo dire, il datore di lavoro non gli avrebbe comunicato l’imminente scadenza del periodo di comporto chiedendo per questo motivo la reintegrazione nel posto di lavoro.

Come noto, il periodo di comporto è il numero di giorni continuativi di malattia, indicati solitamente nei contratti collettivi nazionali di settore, decorso il quale, il datore di lavoro ha la facoltà, ai sensi dell’art. 2110, comma 2 c.c., di recedere ad nutum dal rapporto di lavoro.

La Giurisprudenza ritiene in larga parte che il datore di lavoro possa senza ulteriore indugio procedere al licenziamento non appena decorsi i giorni previsti dalla contrattazione collettiva e che non possa ritenersi sussistente a suo carico un generale obbligo di comunicazione della  prossimità della scadenza del periodo di conservazione del posto, neanche quale declinazione degli obblighi generali di buona fede e correttezza (Cass. civ. sez. lav. 28 giugno 2006, n. 14891).

Tuttavia la sentenza in commento ha ritenuto di compiere un percorso argomentativo differente e giungere a conclusioni difformi.

Il Tribunale ha infatti ritenuto che dovessero considerarsi la natura della patologia che aveva afflitto il lavoratore; detta natura era – afferma la sentenza – nota all’Azienda anche successivamente alle visite ex d.lgs. 81/2008 (T.U. delle Leggi in Materia di Sicurezza sul Lavoro) e si trattava di complicanze riconducibili al diabete congenito da cui era affetto il lavoratore.

La gravità della patologia in questione poneva il dipendente in situazione di “minorata difesa”. Pertanto detta situazione avrebbe fatto sorgere diversi obblighi anche in capo al datore di lavoro.

Alla luce di questa considerazione il Tribunale ha tratto diverse conclusioni.

«In accordo con gli approdi di maggiore “sensibilità” per il lavoratore malato a cui è giunta la giurisprudenza di merito, la società […] avrebbe dovuto comportarsi in maniera diversa e consona ai principi civilistici di correttezza e buona fede ex art. 1175 c.c. e ai più generali principi di solidarietà sociale ex art 2 Costituzione, che impongono di cooperare attivamente al fine del soddisfacimento dell’interesse della propria controparte contrattuale, con il limite dell’apprezzabile sacrificio»

In particolare l’ordinanza ha statuito che:

«se è vero che generalmente non vi è l’obbligo per il datore di comunicare l’appropinquarsi della scadenza del comporto al lavoratore malato, vi sono delle fattispecie particolarmente gravi, in cui la comunicazione datoriale è sicuramente meno gravosa rispetto al dovere di attivarsi per chiedere informazioni da parte del lavoratore gravemente ammalato. Infatti, occorre distinguere i casi in cui vi sia una malattia per così dire “comune”, cioè dalla prognosi sicuramente fausta, facilmente guaribile ed anche in tempi brevi, e dalla convalescenza non invalidante, da quelli di estrema gravità, in cui le condizioni di integrità psico- fisica del lavoratore siano particolarmente critiche – come nel caso di specie, in cui non vi è dubbio che la salute del ricorrente fosse seriamente compromessa-, caratterizzate da una prognosi non sicuramente fausta e da una convalescenza lunga e suscettibile di complicanze molto pericolose». 

L’ordinanza in commento ha ritenuto inoltre decisivo onde valutare la violazione dei principi di buona fede e correttezza la circostanza che l’Azienda non abbia comunicato al dipendente la vicina scadenza del periodo di comporto in quanto questi avrebbe potuto usufruire – a sua esclusiva richiesta – di un ulteriore periodo di aspettativa non retribuita successivo rispetto al comporto.

*** 

Appalto genuino e interposizione illecita di manodopera

di Bernardina Calafiori* e Simone Brusa* 

Tribunale di Padova, sentenza n. 550 del 16 luglio 2019

Tra gli indici rivelatori della differenza tra un appalto genuino e un’interposizione illecita di manodopera rientra anche il software attraverso il quale il committente gestisce l’operatività dei dipendenti della società fornitrice del servizio. 

La sentenza in epigrafe ha affrontato il ricorso presentato da alcuni dipendenti di una cooperativa che, all’interno di un Consorzio, eseguiva un appalto per il prelievo e l’organizzazione della merce.

I lavoratori della cooperativa rivendicavano un rapporto di lavoro alle dirette dipendenze del committente (il Consorzio), la conseguente applicazione del ccnl Terziario al loro rapporto di lavoro (essendo questo il contratto collettivo applicato dal Consorzio ai propri dipendenti) e, considerato il miglior trattamento previsto dal ccnl richiesto, chiedevano anche la condanna della committente al pagamento delle relative differenze retributive.

A fondamento della propria domanda, i dipendenti deducevano che era il Consorzio ad esercitare l’effettivo potere direttivo e di controllo nei loro confronti. In particolare, per l’esercizio delle loro mansioni i lavoratori utilizzavano un lettore ottico “su cui compariva l’ordine da effettuare e…indicava ai lavoratori lo scaffale ove riporre la merce” ed un sistema di cuffie e microfono tramite cui il prestatore doveva comunicare ad un operatore automatico le operazioni svolte e tali strumenti di lavoro erano di proprietà del Committente.

Il Consorzio sosteneva la legittimità dell’appalto in quanto l’organizzazione del lavoro dei dipendenti della cooperativa era affidata a responsabili della stessa e, con riferimento al lettore ottico, sosteneva che il codice identificativo del singolo lavoratore era assegnato dalla cooperativa.

Nel caso in esame il Giudice affermava che, al fine di verificare la legittimità dell’appalto, “la questione centrale è se la cooperativa esercitava un potere datoriale autonomo ovvero svolgeva una funzione di controllo non dissimile da quella che può svolgere un capo reparto, privo di discrezionalità, essendo i ritmi e le modalità di lavoro dettati dalla committente”. Il Giudice evidenziava altresì che tale valutazione doveva anche tener conto della “evoluzione tecnologica che ha in molti settori reso obsoleta la relazione da superiore a subordinato, rimettendo alle macchine di guidare il processo produttivo”.

Il Giudice accertava quindi che:

  1. il responsabile del magazzino (dipendente del Consorzio) esercitava sui responsabili della cooperativa un “controllo specifico e puntuale che andava oltre la predisposizione di direttive generali sull’esecuzione dell’appalto”;
  2. il software (lettore ottico e microfono) di proprietà del Consorzio “registrava le singole operazioni dei lavoratori”;
  3. la raccolta di dati inerenti le operazioni compiute dai singoli lavoratori era valorizzata come un “potenziale controllo a distanza” degli stessi da parte del Committente;
  4. i richiami dei titolari della cooperativa ai dipendenti erano legati con “sospetta coincidenza temporale” ai colloqui tra dei titolari con il preposto del Consorzio.

Su tali presupposti, il Tribunale di Padova accoglieva il ricorso dei lavoratori, dichiarandoli dipendenti della società committente con conseguente condanna delle stessa al pagamento delle differenze retributive dovute.

* Avvocato Studio Legale Daverio

 

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