Contributi previdenziali e mancata esecuzione della prestazione lavorativa

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di Stefano Ferri*

Uno dei temi di quotidiana attualità in materia di lavoro, che ha visto decise variazioni di posizione nella giurisprudenza, è quello relativo al calcolo dei contributi previdenziali nel caso di prestazione lavorativa non resa per assenza del lavoratore o per accordo con il lavoratore.

Il tema deriva dalla risalente Sentenza della Corte di Cassazione Sezioni Unite n. 11199 del 29/07/2002, secondo la quale l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (il cosiddetto “minimale contributivo”).

Il riferimento ad essi avrebbe incidenza solo sul rapporto previdenziale e non su quello retributivo, secondo l’art. 1 del d.l. 9 ottobre 1989 n. 338 (convertito in legge 7 dicembre 1989 n. 389), senza subire le limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 della Costituzione (cosiddetto “minimo retributivo  costituzionale”),  che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre, con incidenza sul distinto rapporto di lavoro, ai fini della determinazione della giusta retribuzione.

Il medesimo concetto viene ripetuto sempre dalla Suprema Corte con Sentenza n. 801 del 20/01/2012. Viene ribadito quindi il principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva; l’obbligo contributivo può pertanto essere parametrato a  importo superiore a  quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro.

Si vuole evitare che per effetto di una retribuzione calcolata su meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro non vengano rispettati i minimi contributivi.

Di orientamento opposto è invece la più recente Ordinanza n. 24109 del 03/10/2018, sempre della Corte di Cassazione, che, restando aderente al disposto legislativo, prevede che “L’obbligazione contributiva a carico del datore di lavoro ha il suo presupposto nella sussistenza dell’obbligo retributivo; ne deriva non solo che la contribuzione vada commisurata alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (cd. “minimale contributivo”), a prescindere dall’importo, eventualmente inferiore, di fatto corrisposto, ma anche che la stessa è dovuta nei casi di mancata esecuzione della prestazione lavorativa dipendente da illegittima interruzione, od unilaterale sospensione, del rapporto da parte del datore di lavoro, quale effetto risarcitorio dell’inadempienza di costui, mentre, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro e la corrispettività delle prestazioni, non spetta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa, sicché, nei casi di mancata esecuzione della prestazione, va sempre accertata la ragione per la quale la stessa non è stata resa.”(massima tratta dalla rassegna mensile della giurisprudenza civile della Suprema Corte di Cassazione redatta dall’Ufficio del Massimario e Ruolo – sentenze pubblicate ottobre 2018).

É evidente il netto cambiamento di posizione che peraltro era già stata stabilita in sede fallimentare dalla Sentenza n. 7473 del 14/05/2012 della Cassazione Civile Sezione Lavoro che non aveva ammesso al passivo i crediti vantati dall’Inps a titolo di contributi ed accessori riferiti al periodo compreso tra la dichiarazione del fallimento e la data di licenziamento dei dipendenti sul presupposto che, conseguendo al fallimento la cessazione dell’attività aziendale, il periodo intercorrente fino al licenziamento non poteva reputarsi quale periodo di lavoro prestato ed in quanto tale fonte di obbligazione a carico della massa fallimentare. Si consolidava quindi nella Sentenza il collegamento tra retribuzione e prestazione effettiva di lavoro: non essendovi obbligo retributivo per l’assenza di prestazione lavorativa, non è configurabile un credito contributivo dell’Istituto.

Da ultimo l’Ordinanza della Suprema Corte del 21 ottobre 2020 n. 22986 ritorna sulle precedenti posizioni stabilendo che la contribuzione è dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione). Pertanto, stando a quest’ultima impostazione, vi sarebbe a carico del datore di lavoro l’onere della prova di dimostrare che le assenze sono dovute a fattispecie rientranti in ipotesi legali o contrattuali di sospensione della prestazione.

Il tema è dibattuto e ha trovato negli ultimi anni soluzioni diverse: sarà interessante analizzare i prossimi sviluppi giurisprudenziali anche in relazione al quadro di una sempre maggiore flessibilità del lavoro che diviene tematica di grande importanza per orientare le scelte datoriali.

*Odcec Reggio Emilia

 

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