Limiti del Jobs Act nel lavoro a tempo determinato

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di Giada Rossi*

La riforma del lavoro realizzata mediante il Jobs Act e, specificamente, la disciplina applicabile ai licenziamenti illegittimi nei confronti di lavoratori assunti dal giorno 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, Jobs Act, torna all’esame del Tribunale di Milano, il quale, con sentenza pubblicata in data 31 maggio 2021, decide di disapplicare l’art. 1 comma 2 del d.lgs. 23/2015  perché  ritenuto  in  contrasto  con  il  diritto dell’Unione Europea.

La norma citata ha ad oggetto l’estensione della disciplina delle tutele crescenti ai rapporti di lavoro che, sebbene instaurati anteriormente all’entrata in vigore del decreto in commento, vengano convertiti a tempo indeterminato posteriormente al 7 marzo 2015.

Il caso da cui muove le mosse la Corte Meneghina è quello dell’impugnazione di un licenziamento collettivo, promosso da una lavoratrice assunta a termine nell’anno 2013 ed il cui rapporto è stato convertito a tempo indeterminato nell’aprile 2015, quindi ex lege assoggettato al Jobs Act.

La Corte milanese decide di disapplicare l’art. 1 comma 2 del d.lgs. 23/2015 in ragione di un rilevato contrasto con il diritto dell’Unione, in particolare con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo Collettivo quadro sul lavoro a termine allegato alla direttiva 1999/70/CE, il quale prevede che i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive. 

La Corte Europea era stata chiamata a pronunciarsi, a seguito di rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di  Milano,  sulla  compatibilità  dell’art.  1  comma  2 d.lgs.  23/2015  con  il  menzionato  principio  di  non discriminazione, in ragione della disparità venutasi a creare  a  seguito  dell’accertamento  dell’illegittimità del  licenziamento  collettivo,  ove  tutti  i  lavoratori avevano diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, ad eccezione della lavoratrice il cui contratto era stato trasformato a tempo indeterminato posteriormente al 7 marzo 2015, alla quale sarebbe quindi spettata una mera tutela indennitaria.

I lavoratori a tempo indeterminato assunti anteriormente al 7 marzo 2015, ai sensi della legge 23 luglio 1991 n. 223 “Normeinmateriadicassaintegrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro”, possono infatti rivendicare la reintegrazione nel loro posto di lavoro, oltre a tutele risarcitorie. Per contro, un lavoratore a tempo indeterminato il cui contratto è stato stipulato successivamente a tale data oppure un lavoratore a tempo determinato, il cui rapporto è stato stabilizzato posteriormente al 7 marzo 2015, ha diritto soltanto a un’indennità economica, stabilita entro il massimale previsto dal d.lgs n. 23/2015.

Nella causa C-652/19, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha esaminato il regime transitorio istituito dall’articolo 1 comma 2 del d.lgs. 23/2015, che estende l’applicazione delle tuteli crescenti ai contratti a tempo determinato stipulati prima della data della sua entrata in vigore, convertiti in contratti a tempo indeterminato dopo tale data, al fine di verificare se esista una ragione oggettiva che giustifichi il diverso trattamento.

La Corte Europea, con la pronuncia del 17 marzo 2021, ha ritenuto che il trattamento meno favorevole è giustificato dall’obiettivo di politica sociale perseguito dal decreto legislativo n. 23/2015, consistente nell’incentivare i datori di lavoro ad assumere lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, l’assimilazione a una nuova assunzione della conversione di un contratto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato sarebbe giustificata dal fatto che il lavoratore interessato ottiene, in cambio, una forma di stabilità dell’impiego. 

Prosegue infatti constatando che rafforzare la stabilità dell’occupazione, favorendo la conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato, costituisce un obiettivo legittimo del diritto sociale e, peraltro, un obiettivo perseguito dall’accordo quadro. Tale misura appare infatti idonea ad incentivare i datori di lavoro a convertire i contratti di lavoro a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato.

Conclude pertanto la Corte Europea nel senso che, fatte salve le verifiche che devono essere effettuate dal giudice  del  rinvio,  il  solo  competente  a  interpretare  il diritto nazionale, l’assimilazione a una nuova assunzione della  conversione  di  un  contratto  di  lavoro  a  tempo determinato  in  un  contratto  a  tempo  indeterminato rientra  in  una  più  ampia  riforma  del  diritto  sociale italiano  il  cui  obiettivo  è  quello  di  promuovere  le assunzioni a tempo indeterminato, tale da giustificare in via eccezionale la differenza di trattamento.

Pertanto la clausola 4 dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che essa non osta a una

normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato in caso di licenziamento collettivo illegittimo ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

Nonostante questa statuizione, il Tribunale di Milano ha deciso di disapplicare l’art. 1 comma 2 d.lgs. 23/2015, in ragione del potere riconosciuto dalla stessa Corte di Giustizia al giudice nazionale di accertare “in concreto” l’effettiva conformità del diritto interno con quello comunitario.

Il tribunale ha quindi valutato, nello specifico, ingiustificato il regime differenziato, rilevando che le tutele attenuate per i casi di licenziamenti illegittimi non sono misure di fatto idonee a favorire le assunzioni a tempo indeterminato, indi la stabilità dell’occupazione, come apparirebbe dagli studi condotti.

Il Tribunale ha inoltre ribadito che i lavoratori assunti con contratto a termine ante Jobs Act e trasformati a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015 non possono essere considerati “nuovi assunti”, tenuto conto dell’assenza di qualsiasi “effetto novativo” nella conversione del contratto.

La norma disapplicata genererebbe infatti, in caso di tutela per licenziamenti collettivi illegittimi, una discriminazione in contrasto con il diritto dell’Unione, in quanto foriera di disparità di tutele per lavoratori del tutto comparabili, se non per la genesi negoziale del loro rapporto (id est un contratto a tempo indeterminato oppure un primo contratto a termine poi stabilizzato).

Si assiste dunque ad un nuovo ed incisivo ridimensionamento della disciplina delle tutele crescenti, negli anni interessata da interventi legislativi, della Corte Costituzionale e della magistratura ordinaria.

La versione originale del d.lgs. 23/2015 prevedeva un risarcimento predeterminato nel quantum, pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 (da dimezzarsi in caso di imprese con meno di quindici dipendenti), in caso di accertata insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento; l’importo veniva ridotto a una mensilità per ogni anno di servizio in caso di licenziamento affetto da vizio formale e/o procedurale.

Nell’anno 2018, il legislatore è intervenuto con il decreto dignità, modificando i minimi e i massimi risarcitori, elevandoli a 6 nel minimo e 36 nel massimo.

Nel medesimo anno, anche la Corte Costituzionale ha preso in esame le tutele previste dal Jobs Act e ha dichiarato incostituzionale, con la sentenza n. 194/2018, l’art. 3 del citato decreto nella misura in cui vincola la determinazione dell’indennità risarcitoria, in caso di insussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, al solo criterio matematico discendente dall’anzianità di servizio. Tornano quindi applicabili i criteri integrativi di cui all’art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604 “Norme sui licenziamenti individuali“ quali, ad esempio, il numero di occupati dall’azienda, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti) e, grazie all’aumento del massimale operato dal decreto dignità, l’indennità risarcitoria a favore di un lavoratore potrebbe essere di significativa entità anche dopo soli pochi anni di servizio, perfino maggiore rispetto a quanto previsto dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, Statuto dei lavoratori.

Nell’anno 2020, con la sentenza n. 150/2020, la Corte Costituzionale è intervenuta altresì sull’art. 4 del d.lgs. 23/2015, dichiarando anche in tale ipotesi (licenziamenti affetti da vizi formali o procedurali) l’illegittimità costituzionale del mero criterio algebrico di quantificazione dell’indennità, e ribadendo la necessità di utilizzare i criteri integrativi.

Infine, sono sempre più frequenti gli interventi giurisprudenziali tesi ad estendere i casi di reintegra anche nella disciplina delle tutele crescenti, ove originariamente erano previsti in via eccezionale e limitata, nelle ipotesi di grave illegittimità dei licenziamenti (licenziamenti nulli, discriminatori, ritorsivi etc).

A ben vedere quindi, la disciplina prevista dal d.lgs. 23/2015, osteggiata fin dall’entrata in vigore, in quanto definita di minor tutela per i lavoratori, diventa oggi in concreto migliorativa rispetto all’art. 18, con elevati standard risarcitori e di tutela.

*Avvocato in Milano

 

 

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