LE STAGIONI DEL LAVORO DIPENDONO DA NOI

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di Graziano Vezzoni* e Maurizio Centra**

Alcuni mesi or sono, la redazione di Noi & il Lavoro ha proposto ai lettori un sondaggio sulla ricerca di personale, alla luce delle difficoltà che sta vivendo il mercato del lavoro in Italia.

Nonostante il sondaggio fosse “aperto” sia agli imprenditori sia ai professionisti competenti in materia di lavoro, le risposte sono arrivate quasi esclusivamente da Commercialisti (96,5% del totale). Questo dato deve far riflettere non tanto sulla diffusione della Rivista, che è assolutamente trasversale, ma sulle iniziative che la redazione può avviare o potenziare allo scopo di accrescere il senso di appartenenza dei lettori, in un fecondo scambio biunivoco di idee, proposte e, perché no, analisi sociali con strumenti statistici.

Le risposte pervenute, più precisamente i questionari compilati dai professionisti, costituiscono un campione significativo delle esigenze di datori di lavoro che operano su tutto il territorio nazionale. Da tali risposte emerge un quadro che fa pensare a un lungo autunno del lavoro, se non addirittura a un precoce inverno, per evitare il quale occorrono iniziative sinergiche non solo di imprenditori, professionisti e associazioni (datoriali e dei lavoratori), ma anche di chi ha responsabilità politiche.

Il primo dato significativo emerge dalla risposta alla domanda sulle difficoltà a reperire lavoratori dipendenti, che è stata quasi totalmente affermativa (96,5% del totale). Quindi, dal sondaggio emerge che in tutta Italia assumere un lavoratore dipendente non è facile, almeno in questo periodo, anche quando non è richiesto un titolo di studio particolare, come è illustrato nella tabella seguente.

Titolo di studio del candidato ideale

Il dato è ancora più allarmante se esaminato assieme a quello dell’esperienza chiesta al candidato ideale, che solo nel 47,00% dovrebbe essere compresa tra uno e cinque anni, mentre nel 45,20% potrebbe essere pari a zero o inferiore a un anno, mentre solo nel 6,10% dei casi dovrebbe essere superiore a cinque anni, e fa capire che i datori di lavoro non intendono sottrarsi al compito di formare i loro collaboratori.

Sul rapporto diretto tra livelli di istruzione e occupazione, da una recente rilevazione dell’Istituto nazionale di statistica (Istat), resa nota il 9 ottobre 2023, emerge che nel 2022, fra i giovani di età inferiore a 35 anni, diplomati o laureati da almeno un anno e non oltre tre, è cresciuto il tasso di occupazione, precisamente: 56,5% tra i diplomati e 74,6% tra i laureati (+6,6 e +7,1 punti sul 2021). Per i laureati, inoltre, il valore è superiore di 4 punti del livello raggiunto prima della crisi del 2008, anche se le differenze con gli altri paesi dell’Unione Europea sono molto ampi. Come pure permangono enormi differenze tra nord e sud d’Italia. Basti pensare che nel Mezzogiorno, i laureati 30-34enni (21,6% contro 29,6% del Nord) hanno un tasso di occupazione di 20 punti più basso rispetto al Nord (69,9%, contro 89,2%).

Anche le condizioni familiari continuano ad essere un ostacolo alla progressione negli studi, lo dimostra il fatto che se i genitori hanno un basso livello di istruzione, un giovane su quattro abbandona precocemente gli studi e uno su dieci raggiunge il titolo terziario, mentre con almeno un genitore laureato, le quote migliorano in modo notevole, infatti, solo meno di tre su cento abbandona precocemente gli studi e circa sette su dieci raggiunge il titolo terziario.

Tornando al sondaggio, alla domanda sui settori economici nei quali si manifestano le maggiori difficoltà, che consentiva anche più risposte, gran parte dei professionisti hanno indicato il settore dei servizi, che va dai pubblici esercizi al terziario avanzato, seguito dal metalmeccanico e dall’edilizia. Dalle risposte emergono vari spunti di riflessione, quali la necessità di far conoscere ai giovani e alle loro famiglie le possibilità di lavoro che possono offrire taluni istituti tecnici superiori, si pensi alle scuole alberghiere e agli istituti a “vocazione” informatica o elettronica, nonché i licei linguistici. Come pure gli istituti di formazione successiva all’istruzione secondaria superiore, non di carattere universitario, i quali non solo favoriscono l’occupazione dei giovani che li frequentano, grazie anche ai rapporti di collaborazione che intrattengono con imprese del territorio, ma – in taluni casi – anche l’avvio di iniziative imprenditoriali autonome (start up). In pratica, esistono “sbocchi occupazionali” quasi certi per gli studenti che scelgono alcuni corsi di istruzione, per il fatto di essere in linea, ad esempio, con le politiche di promozione dell’offerta turistica italiana, nel caso di specialisti dell’accoglienza, o con i piani di attuazione del PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza), nel caso dei tecnici dell’area digitale.

Dalla tipologia di contratto di lavoro offerto, domanda che consentiva anche più risposte, si evince che quello più gradito, anche se di poco, è il contratto a termine, mentre è relegata all’ultimo posto la collaborazione occasionale. Al riguardo si può ritenere che l’assunzione a termine, che prevede anche una contribuzione (Inps) maggiore rispetto all’assunzione a tempo indeterminato, è spesso preferita dai datori di lavoro per il solo fatto che costituisce un lungo periodo di prova, come è confermato dalle statistiche nazionali in materia di durata e di trasformazione dei contratti a termine dal 2015 ad oggi.

Le risposte sull’età anagrafica del candidato ideale sono sorprendenti, nella misura in cui ben il 35,70% ha dichiarato che è un dato indifferente, anche se la preferenza (56,50%) si concentra nella fascia di età fino a 35 anni, mentre per gli ultra cinquantenni le speranze di trovare un impiego sono modeste, ma non trascurabili (6,10%).

Fa ben pensare il fatto che, almeno nelle risposte, il sesso del candidato ideale è indifferente (80, 90%), in un Paese nel quale le diverse condizioni retributive e di carriera tra uomo e donna sono ancora rilevanti.

Il dato che sorprende è quello della scarsa propensione al lavoro agile (smart working), che ha raccolto solo il 13% di consensi, probabilmente in quanto molti dei professionisti che hanno risposto si sono “ispirati” al settore dei servizi e, in particolare, ad attività ricettivo/alberghiere.

Le condizioni economiche (di base) offerte al candidato ideale non sono significative, anche se il 40,00% si è espresso per una retribuzione compresa tra 18.001 e 36.000 euro l’anno, e l’11,30% ha ritenuto che debbano essere determinate in base all’esperienza e al curriculum vitae.

Dalle condizioni accessorie arriva la conferma della disponibilità del datore di lavoro a investire sulla formazione professionale dei suoi collaboratori, infatti l’opportunità offerta al candidato di migliorare le proprie competenze è presente nel 30, 40% delle risposte. Proprio questa disponibilità potrebbe favorire l’impiego regolare di lavoratori stranieri, mediante apposite iniziative pubbliche, che, in un paese in decrescita demografica come l’Italia, potrebbe costituire una vera e propria risorsa. D’altro canto, gli indicatori demografici elaborati dall’Istat confermano un progressivo invecchiamento della popolazione italiana. Basti pensare che il quoziente di natalità è sceso da 9,4 per mille del 2002 a 6,7 per mille del 2022 e che nello stesso periodo:

  • il quoziente di mortalità è passato da 9,8 per mille a 12,1 per mille;
  • il quoziente di nuzialità è sceso da 4,7 per mille a 3,2 per mille;
  • il tasso di crescita totale è sceso da 3,4 per mille a -3,0 per mille.

Come se non bastasse, da oltre venti anni il numero medio di figli per donna (tasso di fertilità) è abbondantemente al di sotto della c.d. soglia di rimpiazzo (2,1), senza dar cenni di ripresa, infatti, da 1,27 del 2002 è sceso a 1,24 del 2022.

Anche se il problema della decrescita riguarda quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con l’eccezione della Francia, che ha adottato efficaci politiche sociali e di sostegno alla famiglia, la situazione italiana appare la più critica del vecchio continente, infatti:

  • la popolazione residente continua progressivamente a diminuire, anche se con tassi diversi negli anni, e al 1° gennaio 2023 ammonta a 58 milioni e 851mila unità, ossia 179 mila in meno rispetto all’anno precedente (-3‰);
  • il rapporto tra la popolazione over 65 e quella in età compresa tra i 15 e i 64 anni ha rag- giunto il 37%, con tendenza a salire almeno fino al 2035.

Dopo anni di difficoltà economiche, che per l’Italia sono iniziate ancor prima della crisi del 2008, e le difficoltà causate dalla pandemia da Covid-19 nel biennio 2020-2021, non ci voleva proprio la guerra in Ucraina, causata dall’invasione dell’esercito russo, e, ancor meno, la recente azione terroristica di Hamas contro lo stato di Israele. Ma questi eventi straordinari, non debbono distogliere l’attenzione di imprenditori e professionisti da fenomeni ormai irreversibili, come il cambiamento in corso nel settore dell’industria automobilistica, causato dal passaggio dal motore termico a quello elettrico, che comporterà una forte riduzione dell’impiego di mano d’opera, per “salvaguardare” la quale – nel nostro Paese – occorreranno iniziative di formazione e riqualificazione e, ci si augura, non pensionamenti anticipati, che finirebbero per “scaricare” il costo dell’operazione sulle future generazioni. Tra questi fenomeni rientra anche il crescente utilizzo dell’intelligenza artificiale e di robot nelle attività produttive, con effetti anche sull’impiego di mano d’opera; negli Stati Uniti d’America, ad esempio è già attiva una fabbrica di robot che costruiscono altri robot.

Nell’autunno del lavoro, sferzato dal vento dell’intelligenza artificiale, l’Italia, assieme agli altri paesi dell’Unione Europea, deve investire sistematicamente in ricerca e sviluppo, perché è solo elevando le conoscenze e le competenze dei lavoratori (subordinati e autonomi) che si può incidere, almeno in parte, sull’andamento dell’economia a livello globale. Diversamente, si rischia l’inverno della retrocessione al ruolo produttore conto terzi (outsourcer), ossia al servizio di chi possiede il know how. Per gestire il cambiamento e tutelare il tessuto economico nazionale, si potrebbe:

  • valorizzare i mestieri artigianali, riconoscendo il loro ruolo fondamentale nell’economia e nella società;
  • favorire la regolarizzazione e l’integrazione dei lavoratori immigrati, che spesso svolgono lavori faticosi, sempre meno graditi dai cittadini italiani, e che svolgono attività fondamentali in alcuni settori, come l’edilizia, l’agricoltura e la cura della persona;
  • investire nella formazione continua e nell’innovazione tecnologica, non solo per aumentare la produttività e la competitività, ma anche per rendere i lavori più interessanti e stimolanti;
  • creare sinergie tra i diversi settori economici, per ottimizzare l’uso delle risorse (umane e materiali) e migliorare le condizioni di lavoro.

In realtà i dati del sondaggio fanno capire che c’è ancora molto da fare, anche se fa ben sperare il dato relativo alle agevolazioni di legge (es. esonero contributivo), che solo nel 10,4% dei casi costituisce un requisito essenziale per l’assunzione.

* Odcec Lucca

** Odcec Roma

 

 

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