LE INVENZIONI INDUSTRIALI DEL LAVORATORE: TUTELA AZIENDALE E RICONOSCIMENTI INDIVIDUALI

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L’approfondimento
di Giada Rossi e Andrea Federico Antognini*

L’attività inventiva del lavoratore

In coerenza con il progresso tecnologico e l’evoluzione del sistema produttivo, sempre maggior attenzione è stata riservata alla materia delle invenzioni del lavoratore, nella quale coesistono due contrapposti interessi: quello del prestatore di lavoro ad essere riconosciuto autore delle stesse e ad ottenere una congrua remunerazione; quello dell’azienda a poterle sfruttare economicamente, beneficiando quindi dei frutti degli investimenti finanziari e degli sforzi organizzativi.

Nell’odierno contesto socio economico, infatti, le invenzioni di rado rappresentano un risultato occasionale dell’attività lavorativa, essendo sempre più spesso lo specifico obiettivo perseguito dalle realtà industriali, anche di piccole dimensioni, che destinano cospicui e mirati investimenti al progresso tecnico e scientifico, avvalendosi di figure specializzate e le cui mansioni consistono, in tutto o in parte, in ricerca e sviluppo.

In detto contesto, è di agile comprensione la deroga al generale principio secondo il quale spetti all’autore la titolarità di tutti i diritti, morali ed economici, sull’invenzione. Nel campo industriale, infatti, è proprio la facoltà di sfruttamento delle invenzioni riservata all’impresa ad incentivare il progresso, fermo restando il diritto del lavoratore inventore a un giusto riconoscimento economico.

Per questi stessi motivi, il legislatore ha dato rilievo decisivo all’apporto dell’azienda nel conseguimento delle invenzioni, tanto da prevedere, quale presunzione iuris et de iure, che si consideri effettuata durante l’esecuzione del rapporto di lavoro l’invenzione industriale per la quale sia stato chiesto il brevetto entro un anno dalla cessazione della prestazione lavorativa.

Il codice civile fornisce solo un quadro generale dei diritti conseguenti alle invenzioni industriali, prevedendo che, ai sensi dell’art. 2589 c.c., i diritti nascenti dalle invenzioni siano trasferibili, fatta eccezione per il diritto di esserne riconosciuto autore; il successivo art. 2590 c.c. precisa come, in caso di invenzioni conseguite nello svolgimento del rapporto di lavoro, il citato diritto di essere riconosciuto autore sia riservato al lavoratore.

Ben più articolata la disciplina del d.lgs 30/2005, il Codice della Proprietà Industriale (CPI), che all’art. 64 classifica le invenzioni dei lavoratori in base a due criteri principali: il contratto di lavoro e il campo di attività del datore di lavoro, da cui discende una tripartizione delle categorie di invenzioni, ciascuna con una diversa disciplina legale.:

  • le invenzioni cosiddette “di servizio”;
  • le invenzioni “aziendali”;
  • le invenzioni “occasionali”.

In accordo con la disciplina codicistica, il diritto morale della paternità della scoperta è sempre riservato al lavoratore, avendo carattere personalissimo e costituendo un diritto imprescrittibile, irrinunciabile, inalienabile ed intrasmissibile. I diritti di sfruttamento economico per contro vengono prevalentemente riservati al datore di lavoro, sebbene con alcune peculiarità, a seconda della tipologia di invenzione.

Tutela brevettuale e paternità dell’invenzione Prima di analizzare nel dettaglio le tipologie di invenzioni e la loro disciplina, giova anticipare qualche breve cenno in tema di brevetti e di paternità dell’invenzione. Il brevetto, come è noto, è un istituto giuridico che garantisce al creatore dell’invenzione il diritto di utilizzarla in modo esclusivo per un determinato periodo di tempo.

La disciplina brevettuale mira a conciliare due interessi contrapposti: da un lato, la possibilità che il segreto dell’invenzione venga svelato e che altri possano trarne vantaggio; dall’altro lato, il rischio che un’altra persona raggiunga lo stesso risultato inventivo, vanificando in tutto o in parte gli sforzi del primo inventore.

La tutela brevettuale garantisce inoltre che l’invenzione entri a far parte del patrimonio collettivo della conoscenza in modo stabile, al termine del periodo di monopolio concesso all’inventore.

In sintesi, mutuando le parole del filosofo, giurista ed economista inglese Jeremy Benthan, possiamo affermare che la promessa di un diritto di esclusiva sull’invenzione, insieme alla possibilità di commercializzarla, incoraggia l’inventore a diffondere il contenuto dell’invenzione tra la collettività, promuovendo così il progresso e beneficiando il maggior numero di persone.

Le funzioni di questa particolare forma di tutela vanno oltre le finalità appena citate e includono anche diritti più personali: i diritti morali e patrimoniali esclusivi sulle scoperte. Per quanto riguarda i diritti morali, essere l’autore dell’invenzione costituisce il presupposto per ottenere la paternità del brevetto, che viene presuntivamente provata dalla menzione del nome di un soggetto quale autore dell’invenzione, siccome riportato negli atti depositati per la domanda di brevetto.

Anche secondo l’interpretazione ufficiale dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM), si può ragionevolmente argomentare che vi sia una coincidenza tra il nome indicato al momento della registrazione del brevetto come inventore e la reale paternità dell’opera da parte dello stesso soggetto. Questa coincidenza si presume corretta fino a prova contraria, da fornirsi mediante un’apposita azione giudiziaria, e ciò onde garantire coerenza del sistema in uno con la certezza del diritto nonché al fine di evitare eventuali contestazioni amministrative sulla paternità dell’invenzione brevettata, che potrebbero rappresentare un disincentivo alla richiesta di brevetto da parte dell’inventore.

Quanto sopra è avvalorato, a maggior ragione, dall’esistenza di disposizioni, che si collocano al confine tra il diritto sostanziale e il diritto processuale, relative alla tutela dei diritti (come l’onere della prova, la rivendica, la nullità del brevetto, ecc.), che sono soggette a rigorose limitazioni temporali. Il rispetto di questi termini è essenziale per attuare pienamente i diritti connessi al brevetto.

Un aspetto sostanziale delle invenzioni di azienda è dunque quello di inquadrare correttamente l’inventore, per evitare contestazioni future e, se del caso, riconoscere al lavoratore la qualifica di inventore e correttamente retribuire lo stesso, al verificarsi di determinate condizioni.

Nel contesto di un rapporto di lavoro subordinato, per tutte le motivazioni già menzionate nel paragrafo che precede, la legislazione prevede una distinzione netta tra un aspetto comunemente definito “morale” e un altro definito “economico”. Questi aspetti corrispondono rispettivamente al diritto del dipendente-inventore di essere riconosciuto come autore dell’invenzione (ai sensi dell’art. 2590 c.c. e al diritto del datore di lavoro di sfruttare l’invenzione (ai sensi dell’art. 64 CPI).

Come sancito dall’art. 2590 c.c. e ripreso dall’art. 64 CPI, al soggetto che realizza l’invenzione spetta il diritto inalienabile di esserne riconosciuto autore. Di conseguenza, ove un datore di lavoro brevetti un’invenzione realizzata da un dipendente, è obbligato a designarlo correttamente come inventore presso l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi (UIBM). Se il datore di lavoro non adempie a detto obbligo, viola i diritti morali dell’inventore.

In ottemperanza ai suddetti diritti morali, il datore di lavoro è tenuto altresì a menzionare il nome del lavoratore ogniqualvolta l’invenzione venga descritta da un punto di vista tecnico-scientifico. Tuttavia, secondo la prevalente dottrina, non è necessario menzionare il lavoratore in altre forme, come nella pubblicità o nella presentazione del prodotto (quindi ad esempio su riviste commerciali).

Nonostante gli sforzi dottrinali e giurisprudenziali per proteggere il diritto morale del lavoratore inventore, la tutela offerta risulta spesso inadeguata nella pratica, considerando la vasta discrezionalità del datore di lavoro nell’inoltrare la domanda di brevetto. In alcuni casi, infatti, il datore di lavoro può addirittura mantenere l’invenzione segreta per motivi di strategia aziendale, frustrando ulteriormente il diritto del lavoratore inventore.

Non si trascuri infine che il riconoscimento della giusta ricompensa presuppone, come verrà spiegato in dettaglio successivamente, che il dipendente sia riconosciuto autore (o almeno coautore) dell’invenzione. Se il dipendente che richiede la giusta ricompensa non risulta essere uno degli inventori nel brevetto rilasciato dall’UIBM, dovrà prioritariamente adire l’autorità giudiziaria onde veder accertata la paternità dell’invenzione.

Le tipologie di invenzioni

Come anticipato, l’art. 64 CPI distingue, nei primi tre commi, tre tipologie di invenzione.

La prima, definita invenzione di servizio, attiene il caso di invenzioni realizzate durante l’esecuzione o l’adempimento del rapporto di lavoro, quando il contratto di lavoro preveda un’attività inventiva e una specifica retribuzione per quest’ultima. In questo caso, i diritti patrimoniali relativi all’invenzione industriale spettano interamente al datore di lavoro, mentre all’inventore spetta il diritto morale di essere riconosciuto come autore. Detta retribuzione dovrà risultare proporzionata all’attività inventiva, quantificazione che potrà essere agevolata nel caso in cui il contratto collettivo applicato in azienda preveda profili dedicati ad attività inventiva. In caso contrario, andranno individuati profili professionali il cui livello di inquadramento professionale sia in linea con l’attività da svolgersi, assicurandosi di adottare l’equivalente retribuzione.

Si definiscono invece invenzioni aziendali quelle realizzate dal lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa, sebbene quest’ultima non preveda nello specifico un’attività inventiva né la relativa remunerazione. In tali casi, come avviene per le invenzioni di servizio, spettano al datore di lavoro i diritti derivanti dall’invenzione, rimanendo ovviamente al lavoratore il diritto morale di esserne riconosciuto autore.

In aggiunta, stante la mancata remunerazione da contratto dell’attività inventiva, al lavoratore spetterà un equo premio, per la quantificazione del quale la norma statuisce che si tenga conto dell’importanza dell’invenzione, delle mansioni svolte dal lavoratore, della retribuzione percepita e del contributo che questi ha ricevuto dall’organizzazione del datore di lavoro.

Alla terza fattispecie di invenzioni, definite occasionali o libere, è riconducibile invece l’ipotesi in cui il lavoratore, al di fuori dell’ambito lavorativo, realizzi scoperte tecnico scientifiche brevettabili, rientranti comunque nel campo di attività del datore di lavoro. In detto caso, nessun diritto sorge automaticamente in capo al datore di lavoro, al quale la norma riserva in ogni caso un diritto di opzione per l’uso e per l’acquisto del brevetto, a fronte della corresponsione di un prezzo o di un canone, da fissarsi con deduzione di una somma corrispondente agli aiuti che l’inventore ha comunque ricevuto dal datore di lavoro.

Il menzionato diritto di opzione dovrà essere esercitato dal datore di lavoro entro tre mesi dalla data di ricevimento della comunicazione dell’avvenuto deposito della domanda di brevetto.

Le tipologie di invenzioni descritte dai primi due commi (invenzione di servizio o e invenzione aziendale) sono quelle sulle quali si è maggiormente concentrata la giurisprudenza, la quale ha cercato di meglio definire i casi in cui l’attività inventiva debba ritenersi compresa nel contratto di lavoro e quindi già remunerata oppure quando essa determini il diritto all’equo premio.

In ossequio all’articolo 36 della Costituzione, in entrambe le ipotesi citate, al lavoratore deve essere garantita una retribuzione proporzionata alla prestazione. In assenza di uno specifico corrispettivo per l’incarico inventivo, vi sarebbe uno squilibrio nel sinallagma contrattuale in caso di scoperta brevettabile. Parimenti, anche considerando l’ipotesi di una scoperta del tutto imprevista e aliena rispetto alle concrete mansioni lavorative, l’equo premio avrebbe natura di indennità a titolo straordinario conseguente ai benefici che il datore di lavoro avrebbe nell’appropriarsi dell’attività inventiva di un proprio dipendente.

La natura delle predette elargizioni risulta ontologicamente opposta: nel caso di invenzioni di servizio di cui al primo comma, in caso di attività inventiva retribuita, ci si riferisce ad una remunerazione concordata; nelle invenzioni aziendali di cui al secondo comma, invece, si parla di equo premio, ossia di un’indennità straordinaria. A tale distinzione conseguono diretti riflessi in tema di prescrizione del relativo diritto. Nel primo caso, si ritiene che la prescrizione del diritto sia quinquennale, trattandosi di componente della retribuzione. Per contro, essendo l’equo premio un’erogazione monetaria a natura indennitaria straordinaria, non connessa all’attività lavorativa dedotta in contratto, si rimanda all’ordinario termine decennale di prescrizione di cui all’articolo 2946 c.c.

La determinazione di criteri distintivi tra invenzione di servizio e invenzione aziendale è stata oggetto di studio e dibattito da parte della dottrina e della giurisprudenza. Tuttavia, nonostante la riforma del Codice della Proprietà Industriale, la questione rimane ancora in parte irrisolta.

Per la giurisprudenza, stante la deviazione dal principio fondamentale del diritto brevettuale, (secondo cui l’autore dell’invenzione è il titolare dei diritti di utilizzo economico), deviazione come detto giustificata dal contributo, talvolta determinante, che l’organizzazione aziendale apporta alla creazione e all’attuazione dell’invenzione, è necessario procedere ad una interpretazione restrittiva delle regole che escludono il diritto del dipendente all’equo premio.

Dovrà quindi porsi particolare attenzione nell’esame del caso concreto, onde appurare se l’attività inventiva fosse di fatto prevista nel contratto e specificamente retribuita. Ove così non fosse, il lavoratore avrà diritto all’equo premio.

La Corte di Cassazione ha stabilito che la probabilità che l’attività lavorativa dedotta in contratto possa condurre ad un’invenzione non è elemento ex se rilevante; il vero discrimine è la previsione o meno di una specifica remunerazione per l’attività inventiva.

Non appare dunque sufficiente che il lavoratore riceva una retribuzione superiore alla media della categoria di appartenenza, essendo necessaria una esplicita correlazione causale tra l’attività inventiva e la retribuzione. La prova di detta correlazione incombe esclusivamente sul datore di lavoro.

In sintesi, l’invenzione di azienda e l’invenzione di servizio si distinguono formalmente per la presenza o assenza di una specifica retribuzione legata all’attività inventiva del lavoratore. La previsione di una specifica voce retributiva per un’eventuale invenzione rappresenta un rischio economico a carico del datore di lavoro, che scommette sulle potenzialità del dipendente confidando in un’invenzione da parte di quest’ultimo. La rinuncia del lavoratore ai propri diritti sull’invenzione si palesa quale ricompensa del rischio accettato dal datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha stabilito che l’invenzione di servizio si verifica quando le parti hanno espressamente previsto che una parte della retribuzione versata al dipendente sia destinata esclusivamente a compensare l’ottenimento, anche solo eventualmente, di un risultato inventivo.

La valutazione del compenso deve essere effettuata anteriormente all’invenzione, non a posteriori. Inoltre, non è richiesto che l’attività inventiva sia esclusiva o prevalente rispetto ad altre mansioni di diversa natura; l’essenziale è che sia remunerata specificamente e adeguatamente.

Giova segnalare che, a fronte di un più risalente e formalistico orientamento giurisprudenziale che limita l’analisi al dato letterale del contratto di lavoro del dipendente, si sta affermando un orientamento maggiormente aderente al dato sostanziale che ritiene non strettamente vincolante la mera qualificazione contrattuale e che consente di accertare in concreto quali siano le prestazioni richieste al dipendente e da quest’ultimo effettivamente svolte nonché la retribuzione percepita dallo stesso.

L’approccio più prudente rimane comunque quello di addivenire ad un accordo fra le parti, prevedendo una specifica remunerazione per l’attività inventiva, così potendo dimostrare per tabulas la corrispondenza alla fattispecie dell’invenzione di servizio. In difetto, rimane elevato il rischio che un’invenzione venga qualificata come aziendale, con conseguente obbligo di corresponsione di un equo premio da parte del datore di lavoro.

L’equo premio

Nell’ordinamento giuridico italiano, ove non si rinvengono disposizioni normative volte a regolare la quantificazione dell’equo premio, si è diffusa l’adozione di una tecnica chiamata “formula tedesca”, di origine germanica. Questo metodo rappresenta il punto di riferimento per la determinazione del quantum dell’equo premio anche in Italia, riconosciuto come legittimo e vantaggioso sulla base degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, comprese le pronunce della Suprema Corte.

La formula tedesca non rappresenta l’unica esperienza significativa a livello internazionale per la quantificazione dell’equo premio. Sono emersi anche altri approcci derivati dalla tradizione anglosassone, come le normative inglesi e statunitensi, nonché approcci adottati in oriente, come in Cina e Giappone, che garantiscono una tutela adeguata e una giusta retribuzione al lavoratore dipendente.

Oltre alla formula tedesca, è stata sviluppata anche una metodologia più recente per la stima economica dell’equo premio chiamata “Intellectual Premium”, ideata dal Dott. Fabio Giambrocono nell’anno 2007. Questo approccio mira a superare le difficoltà riscontrate nella formula tedesca e semplificarne il calcolo.

Considerando le metodologie attualmente note e considerate utilizzabili per determinare l’equo premio, ossia la formula tedesca e l’Intellectual Premium, esaminiamo i principali parametri su cui si basano.

La formula tedesca, riconosciuta dalla prevalente giurisprudenza italiana, si basa su principi che si avvicinano a quelli previsti dal nostro sistema normativo sulle invenzioni. Utilizza come parametro principale il valore dell’invenzione, a partire dal quale vengono apportati correttivi e ponderazioni per quantificare l’equo premio spettante al dipendente inventore.

L’Intellectual Premium, invece, pone particolare enfasi non sul valore dell’invenzione, ma sullo stipendio del dipendente inventore. Il Dott. Giambrocono ritiene che l’equità dovrebbe basarsi su parametri aggiuntivi, in particolare lo stipendio del dipendente. Questa tesi associa l’equo premio a una sorta di “premio di produzione intellettuale” indipendente dalla determinazione “monetaria” del valore dell’invenzione, anche se quest’ultimo viene comunque considerato come uno dei parametri utilizzati nella stima.

La ragione principale per cui si potrebbe decidere di affiancare questa seconda metodologia alla formula tedesca è la difficoltà oggettiva nel determinare anticipatamente il parametro principale su cui si basa la formula tedesca, ovvero il valore economico dell’invenzione.

Ai fini della determinazione dell’equo premio, la “formula tedesca” si basa sulla moltiplicazione di due fattori. Il primo è il valore economico dell’invenzione (V), che rappresenta il vantaggio economico ottenuto dall’azienda grazie allo sfruttamento esclusivo dell’invenzione realizzata dal dipendente. Il secondo fattore (P) misura il contributo inventivo del dipendente in relazione al contributo dell’azienda nell’ottenimento dell’invenzione.

Per calcolare il valore dell’invenzione quando viene sfruttata “internamente”, le direttive tedesche prevedono tre modalità di calcolo: analogia di licenza, metodo del profitto e metodo della stima. L’analogia di licenza è il metodo comunemente utilizzato, che calcola il valore dell’invenzione determinando l’importo che l’azienda avrebbe dovuto pagare per acquistare una licenza per quell’invenzione da un terzo. Il metodo del profitto si basa sul profitto effettivamente ottenuto dall’azienda grazie all’utilizzo dell’invenzione, considerando anche una possibile diminuzione dei costi aziendali anziché un aumento del fatturato. Il metodo della stima, invece, effettua una valutazione approssimativa del valore dell’invenzione.

Dopo aver adottato una delle modalità di calcolo sopra menzionate, si ottiene un’approssimazione del profitto netto ottenuto dall’azienda grazie all’invenzione. La formula tedesca applica un correttivo specifico a tale importo, che aumenta progressivamente all’aumentare del valore, come indicato nella Tabella 1, in modo che il premio non superi in modo irragionevole la maggior retribuzione teorica che il dipendente avrebbe potuto ottenere se fosse stato un ricercatore. Tuttavia, l’importo ottenuto dalla riduzione graduale secondo la tabella non rappresenta ancora la base di calcolo definitiva per il fattore di partecipazione (P). Infatti, l’azienda non trasferisce al dipendente il 100% del profitto ottenuto tramite l’utilizzo dell’invenzione. Secondo la formula tedesca, al dipendente inventore viene corrisposta solo una parte di tale importo, che varia dal 12,5% al 33%, con il 20% considerato il valore “normale”. Questa percentuale può variare in base a diversi fattori, come l’innovatività dell’invenzione, la protezione legale e la dimensione della produzione.

(Tabella 1)

 

Attraverso i meccanismi di calcolo descritti sopra, si arriva alla determinazione del primo fattore della “formula tedesca”, ovvero il valore economico dell’invenzione (V).

Per quanto riguarda la quantificazione del fattore proporzionale (P), questo viene determinato dall’interazione algebrica di tre parametri distinti: la posizione del problema, la soluzione del problema e la posizione rispetto alle mansioni del dipendente. Per il primo parametro, che misura l’iniziativa del dipendente nell’individuare il problema tecnico, viene assegnato un punteggio da 1 a 6 in base al grado di autonomia.

Di seguito è riportata una tabella dettagliata che illustra quanto appena descritto.

(Tabella 2)

Per quanto riguarda il secondo punto (id est la soluzione del problema), si precisa che questo parametro valuta l’iniziativa del dipendente nella risoluzione del problema tecnico. In questa situazione, occorre considerare i seguenti tre elementi: (i) per raggiungere la soluzione, l’inventore ha impiegato uno sforzo che può essere definito come normale all’interno della propria professionalità. Questo si riferisce a ciò che il lavoratore deve conoscere per svolgere il proprio lavoro, senza richiedere conoscenze più approfondite o personali che vanno oltre la

“normalità” richiesta per l’adempimento delle proprie mansioni; (ii) l’azienda ha fornito assistenza tecnica all’inventore o ha messo a sua disposizione strumenti di supporto; (iii) la soluzione del problema è stata resa possibile grazie al lavoro svolto o alla conoscenza complessiva dell’azienda presso cui il dipendente inventore presta servizio. Ciò fa riferimento al metodo di lavoro adottato dall’azienda e alle direttive fornite al dipendente, anche sotto forma di suggerimenti, che hanno consentito di passare dalla fase concettuale a quella realizzativa dell’invenzione, agevolando la transizione.

A seconda della presenza totale o parziale dei tre elementi sopra menzionati, verrà assegnato un punteggio da 1 a 6, in base al grado di autonomia, come indicato nella seguente tabella dettagliata.

(Tabella 3)

Per la determina del fattore P, come indicato nell’elenco precedente, è importante notare che esso assegna un punteggio da 1 a 8, a seconda del ruolo svolto dal dipendente.

(Tabella 4)

Una volta assegnato a ciascuno di questi tre parametri il valore ritenuto più appropriato, in conformità con quanto indicato nelle Tabelle 2, 3 e 4 viste sopra, si procederà sommando questi valori attribuiti. Il risultato ottenuto, che potrà variare da un minimo di 3 a un massimo di 20, verrà infine convertito in una percentuale specifica, come stabilito nella tabella di seguito riportata.

(Tabella 5)

Il fattore percentuale così determinato costituirà il nostro fattore proporzionale (P), rappresentante nella fattispecie la percentuale di valore economico da imputarsi al dipendente inventore.

In generale pare opportuno evidenziare in via conclusiva che i risultati ottenuti, in assenza di dati economici certi, risentono di un’alta discrezionalità quando si debba effettuare questo calcolo in fase di lancio dell’invenzione e quindi in assenza di dati economici certi o previsioni fondate in merito al valore economico dell’invenzione.

Al fine di superare l’incertezza nel caso concreto, in caso di disaccordo circa l’ammontare dell’equo premio, l’art. 64 CPI statuisce che vi provveda un collegio di arbitratori composto da tre membri, uno nominato da ciascuna parte ed il terzo nominato dai primi due o, in difetto, dal Presidente della Sezione Specializzata del Tribunale del luogo ove il lavoratore rende abitualmente la prestazione lavorativa.

In conclusione, nell’attuale contesto imprenditoriale, in presenza di dipendenti che lavorino strutturalmente ad invenzioni, diviene dunque necessario per l’azienda regolamentare la loro posizione in via preventiva, sì da evitare contenziosi conseguenti a invenzioni di particolare successo, che possono aprire la strada a rivendicazioni economiche, che per l’azienda rappresenterebbero sopravvenienze negative significative e non preventivate.

*Avvocati in Milano

 

 

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