IL REATO DI INTERMEDIAZIONE ILLECITA E SFRUTTAMENTO DEL LAVORO EX ART. 603 BIS DEL CODICE PENALE E L’APPLICAZIONE DELLA AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA EX ART. 34 D. LGS. 159/2011

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di Marco D’Orsogna Bucci*

Il Convegno organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili di Napoli lo scorso 26 Maggio 2023 sul tema: “Aspetti giuslavoristici nelle aziende sottoposte a sequestro e confisca”, è stata l’occasione per approfondire l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria nei casi connessi ai reati ex art. 603 bis del codice penale, ma soprattutto per un’analisi delle criticità di tale norma riscontrate nell’ambito della professione del consulente che, necessariamente, deve applicare la norma a scopo di prevenzione e a tutela della legalità.

“L’Art. 603 bis del codice penale “il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”

Il decreto legge 13 Agosto del 2011 n. 138 (poi convertito in L. 148/2011) all’art. 12 introduce nel codice penale l’art. 603 bis, che prevede il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. La norma nel corso del tempo ha vissuto due stagioni: una prima di scarsa efficacia ed applicazione, una seconda sostanzialmente più incisiva a partire dall’entrata in vigore della L. 199/2016 che apporta importanti modifiche all’art. 603 bis c.p.

La norma nasce quale risposta al dilagante problema del caporalato in agricoltura e, oggettivamente, fino alla sua introduzione nel 2011 era stato fatto ben poco sul tema. L’unica norma a contrasto di fenomeni illeciti di intermediazione era la legge n. 1369 del 23.10.1960, successivamente depotenziata. Un episodio tragico verificatosi nel territorio della regione Puglia, il decesso di una bracciante agricola mentre era a lavoro nei campi, spinse il parlamento ad avviare una discussione per la modifica dell’art. 603 bis. Con la legge n. 199 del 2016 prese forma l’attuale versione dell’articolo 603 bis.

La Legge n. 199 del 2016 ha ampliato le ipotesi di reato oltre le ipotesi di sfruttamento, perseguendo la condotta del datore di lavoro come mero utilizzatore delle prestazioni e non solo nei casi di intermediazione illecita. Il nuovo testo prevede la punizione “…con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, per chiunque: 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; 2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno…”.

Il nuovo art. 603 bis c.p. individua altresì, modificando la precedente versione, gli indici di sfruttamento in presenza “…di una o più delle seguenti condizioni: 

  1. la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  1. la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  1. la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  2. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”. 

La palese difformità dalla contrattazione collettiva quale indice di sfruttamento

Costituisce indice di sfruttamento, quindi, la sussistenza anche di una sola delle condizioni sopra individuate dalla norma. Al professionista che affianca l’azienda nella gestione e amministrazione del personale non può sfuggire la delicatezza del tema, ma soprattutto quanto sia labile il confine tra presupposto di reato e non.

È indubbio che la norma non aiuta nella definizione di un confine certo tra lavoro illecito e lecito, tra intermediazione genuina e illecita. I termini utilizzati lasciano ampi spazi di interpretazione e di rischio. La reiterazione di una condotta, da vocabolario della lingua italiana, altro non è che una ripetizione (anche una sola volta) della condotta medesima (Voc. Treccani “Fare di nuovo la stessa cosa, replicarla, ripeterla”).

La legge n. 199/2016 è successiva all’entrata in vigore dei decreti legislativi del Jobs Act, non sfugge quindi il mancato riferimento all’art. 51 del D. Lgs. n. 81/2015 nell’ambito della contrattazione collettiva di riferimento. Probabilmente con l’esplicita volontà di escludere ogni riferimento alla contrattazione aziendale l’art. 603 bis c.p. nella disciplina di uno degli indici di sfruttamento fa riferimento ad una palese difformità da “…contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale…”. Il riferimento al solo livello territoriale (oltre al nazionale) di contrattazione è esplicita condizione di applicazione della contrattazione territoriale in quei settori dove la stessa ha incidenza significativa soprattutto nella parte retributiva, quali Agricoltura ed Edilizia e, guarda caso, proprio in ambiti di forte presenza di illeciti in materia di sfruttamento ed intermediazione di manodopera.

Ma è altrettanto vero e lecito domandarsi: da quali CCNL si dovrà misurare la palese difformità? Quali sono le organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale? Sappiamo bene che dal 2011 (Accordo Interconfederale del 28.06.2011) nel nostro paese si cerca di comporre una “classifica” della rappresentatività e finora si procede per presunzioni, in attesa che si concluda l’iter di certificazione della rappresentanza sindacale previsto ad oggi per luglio 2024.

Ci viene incontro il c.d. “diritto circolatorio”, per quanto possa essere efficace in sede penale. L’ispettorato nazionale del lavoro nella circolare 28 febbraio 2019 n. 5, afferma: “…si ritiene utile precisare che la reiterazione va intesa come comportamento reiterato nei confronti di uno o più lavoratori, anche nel caso in cui i percettori di tali retribuzioni non siano sempre gli stessi in ragione di un possibile turnover. Inoltre, il riferimento ai contratti collettivi è evidentemente da intendersi ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni “comparativamente” più rappresentative, il che costituisce elemento di maggior garanzia per i lavoratori. Ciò anche in ragione del fatto che ogni altra disposizione di legge emanata negli ultimi decenni, che richiede l’applicazione di contratti collettivi a diversi fini, fa espresso riferimento ai contratti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali “comparativamente più rappresentative a livello nazionale”…”. 

Prendiamo per buono il “suggerimento” dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma verrebbe da chiedersi se i contratti sottoscritti da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative abbiano sempre il dono della legittimità sotto ogni aspetto, compreso quello retributivo. Guardando al caso del Ccnl Vigilanza privata qualche dubbio è lecito porsi (vedasi Corte d’Appello di Milano 580/2022, 673/2022).

Paradossalmente potremmo avere una conformità “penale” alla contrattazione collettiva nel caso del Ccnl Vigilanza Privata con paga oraria a 5,66 euro (paga mensile 980 euro su divisore mensile 173), sebbene non sufficientemente congrua ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.

Quale la linea di demarcazione tra lecito e illecito? La “palese difformità” dalla contrattazione collettiva non esprime un concetto numerico. Quando possiamo considerare palesemente difforme la corresponsione della retribuzione? Sono sufficienti 50 centesimi l’ora rispetto al minimo contrattuale? Si dovrà considerare solo la paga base o anche le altre indennità previste dal Ccnl? La mancata corresponsione della quattordicesima mensilità, ad esempio, è palese difformità? Possiamo ragionare nei termini in cui si è già espressa la giurisprudenza in merito alla giusta retribuzione ex art. 36 della Costituzione? Risposte certe non ne abbiamo.

E ancora, dal punto di vista degli ambiti intersettoriali, 1.000 euro mensili sono conformi nell’ambito del lavoro domestico dove si lavora fino a 52 ore settimanali e invece nella logistica sono palesemente difformi. La paga di un bracciante agricolo che opera in Molise è conforme a 7,50 euro l’ora mentre in Lombardia lo è a poco più di 10,00 euro, applicando la contrattazione territoriale del lavoro. 

È evidente l’assenza di un parametro numerico quantificabile, che misuri il confine tra lavoro lecito e illecito, qualunque sia il settore di appartenenza, qualunque sia la tipologia contrattuale. La norma non ci viene in soccorso, non individua un parametro, sia esso orario, giornaliero o mensile.  

Il concretizzarsi dell’approfittamento dello “stato di bisogno” 

La condizione di sfruttamento a cui può risalirsi mediante gli indici indicati dall’art. 603 bis c.p. deve altresì essere accompagnata dalla situazione di approfittamento dello “stato di bisogno”. Condizione anch’essa dai confini labili, ma soprattutto facilmente riscontrabile in una situazione che vede le parti essere, per definizione, di forza contrattuale differente. 

Per completezza, volendo ancora una volta affidarci alla prassi, sempre l’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la Circolare 28 febbraio 2019 n. 5 sul punto: “…quanto all’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori è possibile anzitutto richiamare la giurisprudenza che ha approfondito la nozione, pur relativamente ad altre fattispecie di reato. In particolare tale elemento rappresenta una delle circostanze aggravanti del reato di usura (art. 644 c.p.) che si realizza quando la condotta illecita è posta in essere “in danno di chi si trova in stato di bisogno”.

Preliminarmente, per quanto riguarda “l’approfittamento”, lo stesso può ritenersi riconducibile alla strumentalizzazione a proprio favore della situazione di debolezza della vittima del reato, per la quale è sufficiente una consapevolezza che una parte abbia dello squilibrio tra le prestazioni contrattuali (v. Cass. civ., sent. 1651/2015). Per quanto concerne lo “stato di bisogno” si ritiene di poter aderire anzitutto a quell’orientamento giurisprudenziale che ha chiarito come “lo «stato di bisogno» della persona offesa (…) non può essere ricondotto ad una situazione di insoddisfazione e di frustrazione derivante dall’impossibilità o difficoltà economica di realizzare qualsivoglia esigenza avvertita come urgente, ma deve essere riconosciuto soltanto quando la persona offesa, pur senza versare in stato di assoluta indigenza, si trovi in una condizione anche provvisoria di effettiva mancanza di mezzi idonei a sopperire ad esigenze definibili come primarie, cioè relative a beni comunemente considerati come essenziali per chiunque” (Cass. pen., sent. n. 4627/2000). Tale elemento del reato è stato altresì ricondotto ad “una condizione psicologica in cui la persona si trova e per la quale non ha piena libertà di scelta” (Cass. pen., sent. n. 2085/1993) e “non si identifica nel bisogno di lavorare, ma presuppone uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, che pur non annientando in modo assoluto qualsiasi libertà di scelta, comporta un impellente assillo, tale da compromettere fortemente la libertà contrattuale della persona” (Cass. pen., sent. n. 10795/2016). Come successivamente chiarito, anche su tale elemento – in quanto imprescindibile ai fini della applicazione dell’art. 603 bis c.p. – dovrà soffermarsi l’attenzione del personale ispettivo, che pertanto dovrà fornire i relativi elementi di prova. L’attività investigativa sarà comunque tanto più semplice da realizzarsi quanto più è evidente lo stato di “debolezza sociale” dei lavoratori, ciò che avviene non di rado in relazione all’impiego di personale straniero spesso extracomunitario…”.

La lettura dei decreti di disposizione di amministrazione giudiziaria ex art. 34 del d.lgs. n. 159/2011 connessi a reati ex art. 603 bis c.p., ci offre una fotografia di quanto sia facile riscontrare lo stato di bisogno nell’ambito dei rapporti di lavoro, non dovendo necessariamente riscontrarsi l’indigenza. A fondamento delle misure cautelari richieste troviamo, infatti, dichiarazioni dei lavoratori del tipo: “…non potevo lamentarmi perché lo stipendio era per me necessario al sostentamento della mia famiglia…”, ancora: “…io non ho mai fatto proteste per questi errori perché non avendo il contratto a tempo indeterminato avevo paura che non mi rinnovassero il contratto…”, in un altro caso: “…nelle buste mancavano sempre delle ore, non mi lamentavo perché avevo paura di essere lasciato a casa…”.

L’art. 34 del d.lgs. n. 159/2011

Con l’entrata in vigore della L. 161/2017 vengono apportate significative modifiche al Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione (Decreto Legislativo 159 del 6 Settembre 2011). Una di queste è l’inserimento nell’art. 34 del D. Lgs. n. 159/2011 della previsione dell’amministrazione giudiziaria nei casi connessi al 603 bis del codice penale. Quando sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di attività economiche, imprenditoriali possa agevolare l’attività di persone sottoposte a procedimento penale per i delitti di cui all’art. 603 bis del codice penale, il tribunale competente, per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti dei suddetti soggetti, dispone l’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili per lo svolgimento delle loro attività economiche. 

Il primo presupposto applicativo della misura è individuato nella sussistenza di sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, abbia natura ausiliaria ed agevolatoria rispetto ad un’altra attività svolta da un soggetto definito “agevolato”. Si tratta di una modifica sostanziale rispetto alla versione precedente dell’art. 34 in quanto si passa da “elementi probatori” a “sufficienti indizi”, abbassando quindi il livello probatorio per disporre l’amministrazione giudiziaria.

Il soggetto “agevolato” dalle attività economiche di un soggetto “agevolatore” deve appartenere ad una delle due categorie di soggetti individuate dal legislatore: 1) coloro ai quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione personale o patrimoniale; 2) persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei reati presupposto individuati nella stessa; tra questi rientra anche la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p.

Il soggetto “agevolatore”, nell’ambito della disciplina ex art. 34 D. Lgs. n. 159/2011 invece, svolge un’attività ausiliaria, non necessariamente di natura illecita essendo soltanto sufficiente che con la sua attività economica abbia agevolato i soggetti sottoposti a procedimento penale. Inoltre, in capo all’agevolatore non devono sussistere elementi per applicare allo stesso una misura di prevenzione. Il soggetto “agevolatore”, quindi, si muove nell’ambito della colpa, della negligenza, senza oltrepassare la soglia della piena consapevolezza o del dolo laddove si rischierebbero ipotesi di concorso nel reato, ma anche il commissariamento giudiziale ex art. 15 del D. Lgs. n. 231/2001 applicabile in quanto l’attività criminale è compiuta nell’interesse dell’impresa.

La Legge n. 199/2016, infatti, oltre a introdurre le modifiche sostanziali all’art. 603 bis del c.p., inserisce la fattispecie stessa tra i reati presupposto ex D. Lgs. n.231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti all’art. 25 quinquies “Delitti contro la personalità individuale”. Di conseguenza anche l’ente risponde del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro quando è commesso nel suo interesse e vantaggio.

Da qui l’importanza dell’adozione di modelli organizzativi di organizzazione, gestione e controllo ma soprattutto l’adozione e l’applicazione di procedure idonee ad evitare la commissione di reato. Tra i casi più eclatanti di amministrazione giudiziaria ricordiamo il colosso della logistica CEVA Logistics Italia srl, la cui misura fu applicata dal Tribunale di Milano nel Maggio 2019, prima in Italia dopo la riforma del 2017 dell’art. 34 del D. Lgs. n. 159/2011, dopo che un’indagine della procura di Pavia aveva portato a emettere ordinanze di custodia cautelare verso amministratori, figure apicali di cooperative, società e consorzi legate alla multinazionale della logistica da contratti per l’effettuazione di servizi in appalto.

Con decreto emesso in data 13 febbraio e depositato il 24 febbraio 2020, il Tribunale di Milano, dispose la revoca della misura di prevenzione di Amministrazione Giudiziaria delle attività di subfornitura applicata a CEVA Logistics Italia srl il 6 maggio 2019.

Secondo il Tribunale, infatti, “…sul piano della revisione del modello organizzativo di gestione e controllo, la società in amministrazione giudiziaria ha osservato tutto il periodo prescrizionale in punto di rivisitazione e attualizzazione del progetto e come tale anche l’obiettivo di ritorno alla legalità doveva ritenersi raggiunto…”.

Il Consiglio di Amministrazione della Società ha approvato nel mese di novembre 2019 il nuovo modello organizzativo 231, la nuova procedura di selezione, qualifica e monitoraggio delle controparti specializzate nella fornitura di servizi logistici. Il Consiglio di Amministrazione ha, inoltre, preso atto del nuovo corpo procedurale, che è stato aggiornato e revisionato per renderlo conforme all’organigramma vigente, oltre alla revisione dei sistemi di controllo interno, finalizzata a migliorare le procedure di gestione dei contratti di manodopera.

Conclusioni

Sia ben inteso, lo sfruttamento della manodopera è uno dei reati più ignobili e deprecabili, purtroppo, con evidenze su larga scala in settori storicamente ad alto numero di illeciti, come agricoltura e edilizia, ma in aumento anche in altre attività economiche soprattutto nelle terziarizzazioni di fasi no core- business, nella gig-economy, nel turismo e nella ristorazione, nei trasporti e logistica. L’analisi delle criticità emerse dall’approfondimento va declinato rispetto a situazioni al limite tra legalità e illegalità, spesso frutto di mala gestio o anche negligenza. Lungi dal giustificare comportamenti spregiudicati e veri e propri casi di sfruttamento dell’essere umano, bisogna altresì constatare limiti e criticità della norma e tenerne conto con estrema prudenza nell’ambito della nostra quotidiana attività di consulenza ai nostri clienti, fin dalla fase di inquadramento e di scelta della contrattazione collettiva applicabile, ma anche nell’adozione di opportuni controlli nelle filiere della fornitura, negli appalti. A parere di chi scrive l’art. 603 bis del codice penale potrebbe essere la norma perfetta ad ospitare un parametro oggettivo, certo e unico di “salario minimo”. L’individuazione di un limite salariale orario lordo, valido tanto per il lavoro subordinato, parasubordinato che per l’autonomo, potrebbe costituire un margine di certezza quantomeno rispetto all’indice di sfruttamento retributivo, lasciando il riferimento alla contrattazione collettiva ad ambiti diversi dal diritto penale.

*Odcec Lanciano

 

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