PROMUOVERE L’INCLUSIVITÀ E LA PARITÀ DI GENERE ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO «Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole.»

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di Tatiana Cazzaro*

 Cosa c’entra il linguaggio con la parità di genere?

Il modo in cui ci esprimiamo non è mai neutro. Ogni singola parola che scegliamo, e come decidiamo di dare forma a un testo, e più in generale a un contenuto, riflette cosa e come pensiamo. Siamo noi a decidere quali parole vogliamo vivere, siamo noi a decidere quali parole ci rappresentano.

«Oggi viviamo in società molteplici, che hanno bisogno di narrazioni plurali, capaci di raccontarne la complessità e le potenzialità» scrive Valentina di Michele in Scrivi e lascia vivere, un manuale pratico di scrittura inclusiva e accessibile.

Le parole sono azioni, perché fanno sempre succedere le cose. Hanno un impatto, positivo o negativo, sulla vita delle persone. Possono perpetuare pregiudizi, disuguaglianze, esclusione, in diversi ambiti della vita privata, lavorativa, sociale. Le parole sono un atto politico perché, scegliendole e usandole, ogni persona prende una posizione e dichiara la sua visione del mondo.

In questo articolo affronteremo come i linguaggi

inclusivi possano giocare un ruolo fondamentale nel favorire un ambiente più equo e rispettoso per tutti i generi. Nessuno escluso.

 

Un breve glossario, prima di cominciare.

Alcune parole che userò in questo articolo potrebbero suonare strane o sconosciute. Qui di seguito un elenco con una breve definizione che può aiutare.

Bias > è spesso tradotto dall’inglese come pregiudizio, ma è  limitante. È una «scorciatoia mentale», un automatismo che inganna la mente. Come scorciatoie, aiutano a prendere decisioni veloci che generano credenze (che diventano poi stereotipi e/o pregiudizi difficili da scardinare).

Ageismo > è una forma di discriminazione basata  sull’età,  che  si  verifica  quando  si  assumono pregiudizi negativi nei confronti di persone anziane o giovani semplicemente a causa della loro età. Un fenomeno che si manifesta attraverso stereotipi, discriminazioni o ingiustizie in diversi ambiti come la salute, l’occupazione, l’accesso ai servizi, le relazioni interpersonali.

Abilismo > è una forma di discriminazione o pregiudizio nei confronti delle persone con disabilità.

 

Si manifesta attraverso atteggiamenti negativi, stereotipi, barriere fisiche o sociali, linguaggi che limitano opportunità e partecipazione delle persone con disabilità nella società e può manifestarsi in diversi ambiti, come l’istruzione, il lavoro, l’accesso ai servizi e in diversi aspetti della vita quotidiana. Per approfondire.

Classismo > Il classismo è una forma di discriminazione basata sullo status sociale o economico di una persona. Si manifesta attraverso pregiudizi, stereotipi o trattamenti ingiusti nei confronti di individui appartenenti a determinate classi sociali, sia in termini di privilegi che di svantaggi.

Schwa > simbolo fonetico utilizzato per rispettare l’identità di genere di ogni persona. Il simbolo fonetico

/ǝ/ si usa per le desinenze al singolare. Lo schwa lungo

/3/ invece per il plurale. È una alternativa all’uso dell’asterisco in finale di parola. Pur essendo scelte inclusive, potrebbero non esserlo per una questione di accessibilità. Vera Gheno spiega la storia e il suo uso.

 

Cosa significa inclusività

Secondo il dizionario Oxford Languages, l’inclusività è la «tendenza a estendere a quanti più soggetti

possibile il godimento di un diritto o la partecipazione a un sistema o a un’attività.».

Si tratta quindi di creare un ambiente in cui ogni persona si senta rispettata, valorizzata e parte di un gruppo o di una comunità, senza essere discriminata, promuovendo la diversità e l’equità.

Di conseguenza, perché possa definirsi inclusivo, un linguaggio deve tendere a includere quante più persone possibile. Negli ultimi tempi, il linguaggio inclusivo è stato relegato alla semplice formula «non usare il maschile sovraesteso» o all’uso di asterischi e schwa, ma è molto di più.

 

Il linguaggio è un potente strumento di comunicazione che può influenzare profondamente sia le nostre percezioni sia le interazioni sociali. È sempre più rilevante, per la società in cui viviamo e per le organizzazioni di cui facciamo parte, usare un linguaggio inclusivo sia per promuovere la parità dei generi sia per contrastare discriminazioni e stereotipi. Di certo, sappiamo che richiede un grosso sforzo scrivere e parlare in maniera inclusiva, proprio perché serve scardinare convinzioni, credenze e bias cognitivi che fanno parte di noi, che abbiamo imparato fin dall’infanzia e ben radicati nella cultura in cui viviamo

e nel quotidiano.

 

La definizione di linguaggio inclusivo

Gran parte dei primi documenti ufficiali sul linguaggio inclusivo si sono concentrati sulla disparità di trattamento, anche linguistico, tra uomini e donne. Oggi si fa più spesso riferimento a linguaggi inclusivi, proprio per demarcare la pluralità di soggetti compresi. Il linguaggio inclusivo si riferisce a un modo di comunicare che si pone l’obiettivo di includere, appunto, e di evitare discriminazioni o esclusioni nei confronti di determinati gruppi sociali, inclusi quelli legati al genere, all’orientamento sessuale, all’etnia, alla disabilità, all’età, alle condizioni socio- economiche e culturali. Un linguaggio è inclusivo quando non rafforza stereotipi di genere, non è razzista, non discrimina in base all’età (ageismo), non è abilista (non discrimina le persone con disabilità). Al contrario, rispetta ogni persona e, appunto, la include, perché aumenta e migliora la rappresentazione di ogni singola persona.

 

La rilevanza della parità di genere nelle parole

In italiano e in molte altre lingue come il francese e lo spagnolo, il genere grammaticale è binario: ogni nome, aggettivo e pronome può essere o maschile o femminile. L’italiano è una lingua flessiva e rende più difficile parlare in modo neutro rispetto al genere. Il linguaggio è arbitrario e a ogni oggetto e concetto è assegnato un genere per convenzione. Quando parliamo di persone e animali il genere grammaticale coincide con il genere naturale.

 

Il problema sorge quando, per convenzione e per semplificare, il genere è sconosciuto oppure ci si debba riferire a una moltitudine mista composta da diversi generi. Di solito viene applicata quella scorciatoia tanto comoda dell’uso del maschile sovraesteso, come se quel maschile fosse neutro. Di certo semplifica la vita di chi parla, ma diventa non inclusivo per chi è dall’altra parte. Succede tutte quelle volte in cui ci si riferisce a un gruppo eterogeneo con un «benvenuti a  tutti» o  a  un  buongiorno  a  tutti  i partecipanti» che, anche senza rendersene conto, accentua le disuguaglianze, mettendo in secondo piano non solo le persone che appartengono al genere femminile, ma tutte le persone non binarie. Perché esistono persone che per caratteristiche o per scelta non si possono categorizzare in uno dei due generi binari. Il sesso biologico non equivale al genere.

Come ho scritto più su, sono le parole che scegliamo e come le utilizziamo a definire il nostro modo di vedere il mondo e l’attenzione che diamo alle persone.

 

Nel mondo del lavoro gli esempi non mancano. Il genere femminile è linguisticamente discriminato, per non parlare di tutte le persone non binarie. Si sprecano gli esempi in cui certe professioni vengono espresse solo al maschile, connotando la corrispondente femminile a una banalizzazione sia sul piano formale che di significato in senso stretto. Non è difficile parlare di ´ministro e ministra`, ´architetto e architetta` eppure ancora oggi, sono molte le persone che scelgono la forma maschile perché più autorevole. È un peccato.

 

Un linguaggio inclusivo in azienda

Usare un linguaggio inclusivo in azienda non è complicato. Si tratta di adottare un linguaggio capace di comprendere le differenze che aiuta a creare e ad accrescere il senso di appartenenza. E propongo un passaggio ulteriore che porta a usare una comunicazione inclusiva che accolga le differenze, le rispetti e le renda concrete in ogni ambito: dalle comunicazioni ufficiali alle e-mail interne ed esterne, dal sito web alle presentazioni, dall’utilizzo dei nomi professionali declinati, all’utilizzo delle immagini. E non resti invece solo una dichiarazione di intenti per dire che «la nostra è un’azienda inclusiva» e che non si concretizza nel fare quotidiano.

Un linguaggio inclusivo è in ascolto. Nel momento in cui abbiamo un dubbio su come riferirci a una persona, basta chiedere.

È fondamentale che ogni persona dentro l’azienda si senta vista, compresa, accettata e rispettata, anche attraverso il linguaggio. Alcuni esempi possono aiutare a capire.

Quando ci si rivolge a un gruppo misto, per esempio, si può usare la doppia formula maschile e femminile (anche se non totalmente inclusivo) oppure riformulare la frase usando «persona o persone», che ritengo essere la forma più inclusiva in assoluto.

«Diamo il benvenuto a ogni persona presente», «vi ringraziamo di essere qui» invece di «ringraziamo tutti di essere qui».

 

In Italia e nelle organizzazioni si sta iniziando a fare molto.  Ne è  di  esempio,  il Di Parola  Fest,  il  primo evento in Italia dedicato alla comunicazione chiara e alla semplificazione del linguaggio che si è tenuto il 21 e 22 settembre 2023.

 

Le parole sono strumenti potenti e servono non solo a nominare le cose, ma anche a farle succedere. Le parole vanno scelte e progettate, senza dimenticare la complessità entro cui ci si muove. Le parole sono un mezzo per creare e generare mondi. Dietro le parole ci sono sempre le persone. Senza esclusioni.

Perché alla fine, basta sforzarsi. E serve volerlo.

 

*UX e content designer, strategist, formatrice, copywriter

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