Salario minimo: una soluzione equa o un ostacolo al mercato del lavoro?

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di Graziano Vezzoni* e Maurizio Centra**

Con il termine salario minimo si intende comunemente il livello più basso di retribuzione che un lavoratore può ricevere per legge. Sull’argomento si è recentemente sviluppato nel nostro Paese un acceso dibattito tra politici, economisti, imprenditori, sindacalisti e rappresentanti delle associazioni datoriali, con argomenti non privi di fondamento

In realtà, fin dal 1947 la costituzione italiana prevede (art. 36) che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. A ben vedere, per il lavoratore la Costituzione prevede ben di più del salario minimo, avendo sancito il diritto a una retribuzione equa e, in ogni caso, sufficiente a garantire una vita libera e dignitosa a sé stesso e alla sua famiglia. Ciò, ovviamente, non impedisce al legislatore ordinario di stabilire dei livelli retributivi minimi, ma fino ad oggi non ne ha avvertito la necessità, perché la contrattazione collettiva ha fornito e – nel tempo – aggiornato sistemi di valutazione economica delle prestazioni lavorative e tariffe salariali in linea con il precetto costituzionale. È notizia di questi giorni che la Camera dei Deputati, nel corso dell’esame di un disegno di legge sull’argomento, ha bocciato l’emendamento dell’opposizione teso a introdurre la tariffa minima legale di 9 euro l’ora.

Il dibattito in corso è scaturito o, quantomeno, alimentato da una, relativamente recente, direttiva dell’Unione Europea, che invita gli Stati membri a garantire salari equi e adeguati ai lavoratori, promuovendo la contrattazione collettiva e introducendo un salario minimo, ove necessario. Lo scopo di questa direttiva è anche quello di armonizzare i trattamenti retributivi e contrastare il c.d. dumping salariale. Basti pensare alle differenze che esistono anche tra i paesi dell’Unione Europea che hanno istituito il salario minimo legale. Ad esempio il Lussemburgo applica una tariffa minima che sfiora i 14 euro l’ora, mentre in altri paesi, come la Germania e il Belgio, tale valore è di circa 12 euro l’ora. Valore che scende a 11 euro l’ora in Francia e in Olanda nonché a 7,82 euro l’ora in Spagna, quindi inferiore al livello di 9 euro l’ora di cui si discute in Italia, come sono inferiori gli analoghi valori di Lituania, Portogallo, Cipro, Malta e Grecia, di 5 euro l’ora circa, quelli di Repubblica Ceca, Estonia e Croazia, che ammontano a 4 euro l’ora, e infine il valore dell’Ungheria, di 3 euro l’ora.

Nel nostro paese, come è noto, alcuni partiti politici e movimenti sociali sostengono l’introduzione di un salario minimo legale (9 euro l’ora), mentre altri si oppongono a questa proposta, sostenendo che avrebbe effetti negativi sull’occupazione e sulla competitività.

Quali sono i pro e i contro del salario minimo? Quali sono le esperienze degli altri paesi europei che lo hanno adottato? Quali sarebbero le conseguenze di una sua eventuale introduzione in Italia?

Analizzando brevemente i pro e i contro delle varie posizioni, al netto di considerazioni ideologiche, si può rilevare che:

  • I sostenitori del salario minimo ritengono che sia una misura necessaria a garantire una vita dignitosa ai lavoratori, soprattutto a quelli che non sono coperti dalla contrattazione collettiva o che sono esposti a forme di sfruttamento, precarietà e lavoro nero. Il salario minimo avrebbe il vantaggio di ridurre le disuguaglianze sociali, aumentare il potere d’acquisto dei consumatori, stimolare la domanda interna e la crescita economica. Inoltre, il salario minimo sarebbe uno strumento di armonizzazione sociale ed economica tra i paesi europei, in linea con i principi del mercato unico e del pilastro europeo dei diritti sociali.
  • I detrattori del salario minimo sostengono invece che sia una misura dannosa per il mercato del lavoro, in quanto creerebbe distorsioni e rigidità che penalizzerebbero le imprese e i lavoratori. Il salario minimo, a loro parere, avrebbe lo svantaggio di aumentare i costi del lavoro per le imprese, ridurre la competitività aziendale la capacità di investire, anche in ricerca e sviluppo, potrebbe anche causare una riduzione dell’offerta e della domanda di lavoro, con conseguente aumento della disoccupazione e della marginalizzazione dei lavoratori meno qualificati. Il salario minimo, inoltre, sarebbe uno strumento inefficace ed iniquo per contrastare la povertà, in quanto non terrebbe conto delle differenze territoriali, settoriali e individuali dei lavoratori.

Gli argomenti di discussione, dunque, sono molto divergenti e gli studi empirici sul salario minimo mostrano risultati contrastanti e dipendenti dal contesto economico, sociale e istituzionale dei paesi analizzati. In generale, si può osservare che il salario minimo ha effetti positivi quando è fissato a livelli moderati rispetto al reddito mediano nazionale e quando è accompagnato da politiche attive del lavoro, di sostegno al reddito e di inclusione sociale. Al contrario, il salario minimo ha effetti negativi quando è fissato a livelli troppo elevati rispetto al reddito mediano nazionale e quando non è integrato da altre misure di politica economica e sociale.

In Italia, l’introduzione del salario minimo richiederebbe una profonda riforma del sistema di relazioni industriali e della fiscalità sul lavoro. Si dovrebbe trovare un equilibrio tra la tutela dei diritti dei lavoratori e la flessibilità delle imprese, tra la coesione sociale e la competitività economica, tra le esigenze nazionali e quelle europee. Si dovrebbe anche tenere conto delle specificità territoriali, settoriali e professionali del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una forte eterogeneità, non ultimo, si dovrebbe anche valutare l’impatto del salario minimo sulle altre forme di protezione sociale, come ad esempio il reddito di inclusione, solo per fare un esempio.

Quello che non convince del dibattito nazionale in corso non è la contrapposizione tra diverse scuole di pensiero, bensì l’assenza di un’adeguata analisi delle cause che rendono il livello retributivo medio dei lavoratori italiani inferiore a quello dei loro omologhi tedeschi, francesi, olandesi, ecc., ossia di chi lavora in paesi concorrenti dell’Italia sui mercati internazionali. Quello che appare evidente, al di là del salario minimo, è che nei paesi dove le retribuzioni sono più alte, l’efficienza produttiva è superiore a quella dell’Italia, come sono migliori i servizi sociali, le infrastrutture e non solo.

Negli ultimi trenta anni, purtroppo, l’Italia ha progressivamente perso competitività, anche per la mancanza di una politica economica degna di questo nome, e adesso, con il costante calo demografico, l’aumento dell’età media dei cittadini e un debito pubblico stratosferico, trova difficoltà a “invertire la rotta”. Solo migliorando l’efficienza produttiva possono crescere i margini economici delle imprese e, quindi, creare le condizioni per trattamenti retributivi più soddisfacenti per i lavoratori, nel rispetto del precetto costituzionale.

* Odcec Lucca

** Odcec Roma

 

 

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