L’“intenzione di licenziare” ex Art. 7, L. 604/66 non rileva ai fini della normativa sui licenziamenti collettivi

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di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta* 

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 15118, pubblicata il 31 maggio 2021, ha affrontato il tema del licenziamento collettivo con particolare riguardo al requisito del numero minimo di cinque licenziamenti “come sufficiente ad integrare l’ipotesi di licenziamento collettivo”.

La vicenda traeva origine dal ricorso di una dipendente che era stata assunta da una Società quale “Responsabile della gestione commerciale delle commesse relative” a una determinata Business Unit aziendale e, successivamente, licenziata “per pretese ragioni oggettive consistenti nella necessità di ridurre i costi fissi e nella contrazione del valore della Produzione”.

La ricorrente, nel proprio ricorso, impugnava il licenziamento innanzi al Tribunale di Udine deducendo fra l’altro: (i) “una consolidata posizione nel mercato” del datore di lavoro, che nell’anno precedente al licenziamento aveva assunto ventuno nuovi dipendenti di cui un dirigente; (ii) che subito dopo il di lei licenziamento la Società aveva avviato “numerose procedure ex art. 7 della legge 604/66” e che nell’arco di 120 giorni “le lettere di licenziamento o di convocazione davanti alla D.T.L. erano state in tutto nove, e che quindi la società avrebbe dovuto attivare una procedura di licenziamento collettivo”.

Il Tribunale di Udine respingeva il ricorso della ricorrente, mentre la Corte d’appello di Trieste, successivamente adita, qualificava il licenziamento della ricorrente “come licenziamento collettivo”.

La società promuoveva ricorso per cassazione avverso alla citata pronuncia denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 24 della L. 223/1991 con riferimento “all’erroneo calcolo dell’arco di 120 giorni entro il quale sarebbero avvenuti non già licenziamenti ma solo delle dichiarazioni di intenzione a licenziare ex art. 7 L. n. 604/66”.

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, accoglie il ricorso della società e rileva come “l’espressione «intenda licenziare» di cui all’art. 24 L. 223/1991 è una chiara manifestazione della volontà di recesso, pur necessariamente ancorata al fatto che i licenziamenti non possono essere intimati se non successivamente all’iter procedimentale di legge”.

Diversa, secondo la sentenza, è invece “l’espressione «devedichiararel’intenzionediprocedereallicenziamento per motivo oggettivo» ai sensi del novellato art. 7 L. 604/66 che è invece imposta al fine di intraprendere la nuova procedura di compensazione (o conciliazione) dinanzi alla DTL, e non può ritenersi di per sé un licenziamento.

La Corte rileva la coerenza di tale impostazione con il diritto comunitario (e in particolare con la disposizione di cui all’art. 1, paragrafo 1, primo comma, lett. a della Direttiva 98/59/CE) secondo cui rientra nella “nozione di «licenziamento» il fatto che un datore di lavoro proceda, unilateralmente ed a svantaggio del lavoratore, ad una modifica sostanziale degli elementi essenziali del contratto di lavoro per ragioni non inerenti alla persona del lavoratore stesso, da cui consegua la cessazione del contratto di lavoro”.

Secondo la Suprema Corte, inoltre, si tratta altresì di una interpretazione conforme alla Giurisprudenza della Corte di Giustizia (cfr. CGCE 11/11/2015 in causa C-422/2014) che comporta “un superamento della precedente giurisprudenza in merito all’art. 24 L. 223/1991” nel senso che “nel numero minimo di cinque licenziamenti, ivi considerato come sufficiente ad integrare l’ipotesi di licenziamento collettivo, non possono includersi altre differenti ipotesi risolutorie del rapporto di lavoro, ancorché riferibili all’iniziativa del datore di lavoro.

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio (studiolegale@daverioflorio.com)

 

 

 

 

 

 

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