di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta*

La Corte d’Appello di Venezia, confermando la sentenza del Giudice di prime cure, respingeva l’appello proposto da un dipendente nei confronti del proprio datore di lavoro per sentirlo condannare al risarcimento dei danni patiti a seguito di un infortunio sul lavoro a lui occorso.

Nel caso di specie il dipendente, operaio attrezzista, era stato vittima di una caduta “all’indietro […] mentre controllava la chiusura dei bulloni di uno stampo con una chiave inglese”.

La Corte territoriale riteneva “insussistente una responsabilità del datore di lavoro” dal momento che non era stata “provata la nocività dell’ambiente di lavoro, posto che lo strumento di avvitamento utilizzato […] era in uso all’epoca e non presentava vizi ed era stato utilizzato correttamente, inoltre la distanza fra i banchi di lavoro era stata ritenuta sufficiente dagli ispettori”. 

Avverso tale decisione il dipendente promuoveva ricorso per cassazione denunziando, fra l’altro, una violazione dell’art. 2087 c.c. e dolendosi del fatto che “lo strumento di lavoro non era adeguato al lavoro da svolgere ossia il serraggio di bulloni da 24 mm” ciò in quanto era sempre possibile “uno scivolamento della chiave inglese dalla testa del bullone”. Il dipendente rilevava altresì che l’utilizzo di un diverso strumento, come una “chiave dinamometrica o un avvitatore”, avrebbe potuto “eliminare i fattori di rischio” e “garantire un migliore livello di protezione e sicurezza”, con conseguente sussistenza di inadempimento datoriale “in assenza dell’adozione di comportamenti specifici suggeriti dalle conoscenze sperimentali”.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 38835, pubblicata il 7 dicembre 2021, ha rigettato il ricorso del dipendente.

La  sentenza  in  commento  conferma  le argomentazioni del Collegio territoriale laddove ha escluso la nocività dell’ambiente di lavoro dal momento che (i) “lo strumento utilizzato, in quanto manuale, consentiva di dosare la forza”; (ii) “si trattava di un’operazione abituale per il dipendente che, nonostante una caduta rovinosa, aveva comunque atteso la fine del proprio turno per recarsi al Pronto Soccorso”; (iii) l’esclusione dell’operazione in questione dal Documento di valutazione dei rischi “doveva ritenersi corretta […] trattandosi di operazione manuale controllabile dal lavoratore a fronte dell’assenza di violazioni normative”.

La decisione della Corte d’appello si è dunque conformata ai principi sanciti sia dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 312/1996, con riguardo “alla esigibilità di misure che, nei diversi settori, corrispondano ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto generalmente acquisiti) sia dalla stessa Corte di Cassazione secondo cui incombe sul dipendente che lamenti di aver subito un danno alla salute, a causa dell’attività lavorativa svolta, “l’onere di provare, oltre all’esistenza del danno, anche la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra” (così, da ultimo Cass. 56/2021).

Rileva altresì la sentenza che “nel caso in cui si discorra di misure di sicurezza cosiddette «innominate» la prova liberatoria a carico del datore di lavoro risulta generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi di norma al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata) siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe”.

Tanto, a giudizio della Suprema Corte, era avvenuto nel caso di specie e pertanto, in assenza di prova della nocività degli ambienti di lavoro, gravante sul dipendente, non era stato riconosciuto quest’ultimo alcun risarcimento del danno conseguente al di lui infortunio.

* Avvocato Milano

 

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