di Bernardina Calafi ori e Eleonora Ilario*

Le conclusioni ispettive accertavano che l’azienda oggetto di esame risultava priva di un’effettiva organizzazione imprenditoriale. Nella specie, la società distaccante non risultava avere una struttura amministrativa propria (nessun ufficio, né spese per utenze o materiali di consumo), non possedeva automezzi propri (che erano invece forniti dalla distaccataria) e risultava iscritta all’albo degli autotrasportatori solo dopo aver aderito al contratto di rete e dopo aver già inviato i lavoratori in distacco.

Questi elementi portavano gli Ispettori a ritenere che la distaccante fosse una mera somministratrice di lavoratori che venivano, appunto, assunti e immediatamente distaccati presso altre imprese (tanto che su 265 dipendenti, ben 250 erano distaccati presso altre imprese della rete).

Investito della questione, il Tribunale di Perugia ha ritenuto immuni da censure le conclusioni a cui erano giunte le autorità ispettive.

In particolare, con la sentenza qui in commento, il Tribunale ha rilevato che ai fini della validità di un contratto di rete – nell’ambito del quale può ritenersi valida e operativa la presunzione circa l’interesse al distacco – non è sufficiente il rispetto dei meri requisiti formali dello stesso (forma scritta, comunicazione al registro delle imprese etc);  è necessario, in particolare, che le imprese che costituiscono la rete svolgano una effettiva attività economica e abbiano un’organizzazione coerente con essa.

Nel caso di specie, mancando tale requisito, il Tribunale ha ritenuto invalido il contratto di rete, confermando la conseguente riqualificazione del distacco come somministrazione illecita di manodopera ad opera degli Organi Ispettivi.

La pronuncia qui in commento, pur trattando un caso “limite”, è certamente rilevante perché conferma, anche in relazione alla fattispecie del contratto di rete, l’importanza della scelta dei partner commerciali.

D’altra parte, a tale proposito, il Tribunale di Perugia ha altresì affermato che:

«…l’imprenditore che si avvalga, anche nell’ambito di un contratto di rete, di lavoratori distaccati da altro imprenditore non può, secondo diligenza, disinteressarsi completamente di quale sia la natura del soggetto distaccante dovendo, in mancanza di una previa verifica, rispondere delle conseguenze della sua condotta omissiva laddove, come nel caso di specie, il soggetto distaccante risulti, ex post, un mero simulacro di impresa funzionale ad un congegno interpositorio vietato».

Nella specie, come visto, le conseguenze sono importanti; infatti, proprio perché mancava un valido contratto di rete (in forza del quale erano stati distaccati i lavoratori), è stato ritenuto che la fattispecie complessivamente integrasse una somministrazione illecita di manodopera.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

(studiolegale@daverioflorio.com)

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

Con la pronunzia in commento (Cass., sez. lav., n. 2066 del 24.10.2024, depositata il 29.01.2025), la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato una fondamentale questione di diritto in tema di regolarità del procedimento disciplinare, sia pure con riferimento ad una specifica fattispecie disciplinata dal CCNL Metalmeccanica e aziende industriali.

Al fine di comprendere la ratio decidendi della pronunzia in esame, appare utile rammentare, in via preliminare, che ai sensi dell’art. 7, comma V°, della Legge n. 300 del 20.05.1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) “i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale non possono essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa”.

Il termine di cinque giorni è – come noto – fondamentalmente diretto ad assicurare al dipendente, che sia destinatario di una lettera di contestazione disciplinare, un congruo “spatium deliberandi” per rendere le sue giustificazioni scritte. Quid iuris, tuttavia, nel caso in cui il dipendente invii al suo datore di lavoro le sue giustificazioni entro il citato termine, ma le stesse pervengano al destinatario dopo lo spirare del limite di cinque giorni?

A tale quesito risponde la decisione in commento, resa in un caso assoggettato alla disciplina del CCNL Metalmeccanica aziende industriali, il cui art. 8 recita, per quanto qui rileva, che “… il datore di lavoro non potrà adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa. Salvo che per il richiamo verbale, la contestazione dovrà essere effettuata per iscritto ed i provvedimenti disciplinari non potranno essere comminati prima che siano trascorsi 5 giorni, nel corso dei quali il lavoratore potrà presentare le sue giustificazioni.”.

Orbene, la Suprema Corte dà anzitutto atto di una precedente decisione (Cass., Sez. Lav., 9.5.2012, n. 7096) secondo cui l’art. 7, comma 5, L. n. 300/1970 disporrebbe che le eventuali difese del lavoratore devono pervenire al datore di lavoro entro il termine di cinque giorni, con la conseguenza che – secondo detto arresto giurisprudenziale – tale limite temporale non potrebbe dirsi rispettato, quando, pur avendo il lavoratore inviato le proprie difese prima del suo decorso, la ricezione di esse avvenga in data successiva.

Rispetto a tale precedente giudiziale, la Corte di Cassazione, con la pronunzia in commento, prende le distanze, sia pure con specifico riferimento alla previsione collettiva che viene nella specie presa in considerazione.

A supporto di tale sua decisione, la Suprema Corte ha osservato che il tenore letterale dell’art. 8, sopra riportato, non contiene nessuno specifico riferimento alla ricezione da parte del datore del lavoro delle giustificazioni del lavoratore e/o della sua richiesta di essere sentito a propria difesa, né al momento in cui le stesse debbano pervenire al datore di lavoro.

Pertanto, a dire della Suprema Corte, la necessità di fare riferimento alla documentata data di invio di giustificazioni o richieste, da parte del lavoratore, piuttosto che alla data di ricezione delle stesse, deve ritenersi preferibile sulla base di una interpretazione teleologica di tale disposizione collettiva, atteso che la relativa ratio ispiratrice consiste in ciò: nella tutela del diritto di difesa del lavoratore incolpato e che, in quanto tale, appare poco conciliabile con interpretazioni tese a rendere più gravoso l’esercizio.

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Un gruppo di lavoratori impiegati in un appalto avente ad oggetto le attività di “trasporto” e gestione di prodotti postali proponeva ricorso avanti al Tribunale di Catanzaro sostenendo l’illegittimità dell’appalto e così il loro diritto a vedersi costituito il rapporto di lavoro direttamente con la committente.

In particolare, i lavoratori ricorrenti affermavano che, sebbene vi fossero stati frequenti cambi di appalto, l’attività lavorativa era rimasta invariata poiché organizzata autonomamente e direttamente dalla committente.

Tra gli elementi a supporto della eterorganizzazione dell’attività lavorativa da parte della committente venivano valorizzati, in particolare, la presenza di:

  • un modello di servizio unilateralmente predisposto dalla committente ove venivano fornite puntuali indicazioni circa gli orari, i percorsi e le modalità del servizio;
  • una clausola di gradimento inserita nel contratto di appalto che consentiva alla committente di richiedere la sostituzione immediata del lavoratore ritenuto “scorretto, incapace o che avesse tenuto un comportamento fraudolento o posto in essere azioni tali da creare turbamento al servizio o danni alla committente”.

La società committente si costituiva in giudizio sostenendo la genuinità dell’appalto e contestando quanto rappresentato circa il controllo diretto sui lavoratori.

Investito così della questione, il Tribunale di Catanzaro, con la sentenza qui in commento (sentenza n. 1028/2024), ha dichiarato l’illegittimità dei contratti di appalto e, per l’effetto, riconosciuto l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra i ricorrenti e la committente.

A motivo di tale decisione il Tribunale ha, in primo luogo, esaminato il modello di servizio adottato dalla committente ritenendolo “espressione dell’eteroorganizzazione della prestazione lavorativa” attese le modalità di gestione dell’appalto ivi contemplate che lasciavano poco spazio all’autonomia delle singole società appaltatrici.

Anche la clausola di gradimento inserita nei contratti di appalto è stata ritenuta ad avviso del Tribunale incompatibile con l’autonomia che dovrebbe caratterizzare un appalto genuino. Essa, infatti, consentiva in concreto un illegittimo esercizio del potere disciplinare sui dipendenti dell’appaltatore da parte della committente e poiché imponeva “la sostituzione immediata” del dipendente ritenuto inidoneo, si risolveva, in ultima analisi, in una forma surrettizia di “licenziamento” del lavoratore su richiesta del committente.

La pronuncia qui in commento è senz’altro d’interesse in quanto, nel ribadire che ogni contratto di appalto deve rispettare l’autonomia del rapporto tra committente e appaltatore, sottolinea la necessità di prestare la massima attenzione non solo alla gestione corretta dei contratti di appalto, ma anche, e soprattutto, all’utilizzo di clausole contrattuali che – specie, se formulate come
nel caso specifico – siano idonee a limitare già ab origine questa autonomia così inficiando la genuinità dell’appalto.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

La Suprema Corte di cassazione, con la pronunzia n.123 resa in data 6 novembre 2024 e pubblicata in data 4 gennaio 2025, è intervenuta sulla vexata quaestio dei limiti di responsabilità del datore di lavoro in materia di tutela delle condizioni di lavoro e, segnatamente, di salvaguardia dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro.

Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dal ricorso di una dipendente che, in via di estrema sintesi, lamentava l’inerzia del datore di lavoro nell’assunzione di iniziative funzionali a neutralizzare il forte clima di conflittualità che caratterizzava le relazioni professionali tra dipendenti e colleghi all’interno dell’ufficio, così addebitando al datore di lavoro stesso la compromissione della propria salute psichica, tanto da richiederne la condanna al risarcimento del danno biologico per l’effetto patito.

La Suprema Corte ha, dunque, colto tale occasione per richiamare alcuni principi enunciati in passato in ordine alla differenza tra la fattispecie dello “straining” e la fattispecie del “mobbing”, statuendo, in linea con la recente giurisprudenza di legittimità, che:

  • la fattispecie del “mobbing” si configura allorquando siano presenti sia l’elemento obiettivo, costituito da una serie continua di comportamenti pregiudizievoli per la persona all’interno del rapporto di lavoro, sia l’elemento soggettivo dell’intenzione persecutoria nei confronti della vittima, indipendentemente dalla legittimità intrinseca di ciascun comportamento (Cass. 21 maggio 2018, 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684 e Cass. 7 giugno 2024 n. 15957):
  • la fattispecie dello “straining” ricorre allorquando il datore di lavoro ponga in essere comportamenti stressogeni deliberatamente attuati nei confronti di un dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164 e Cass., sez. lav., 7 giugno 2024 n. 15957).

Ciò premesso, la Suprema Corte ha opportunamente rilevato che l’assenza degli indici espressivi di una condotta mobbizzante del datore di lavoro non può automaticamente condurre all’esclusione di una condotta ascrivibile a “straining” di quest’ultimo, posto che le due ipotesi – come detto poc’anzi – sono strutturalmente diverse.

 

Di qui, dunque, la decisione in commento, secondo cui, pur in assenza dei presupposti necessari a configurare un caso di “mobbing”, ben può configurarsi una responsabilità da “straining” in capo al datore di lavoro per il caso di elevata conflittualità tra dipendenti assoggettati al suo potere direttivo e/o disciplinare:

  • sia nel caso in cui “… il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori …
  • sia nel caso in cui il datore di lavoro “… ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi ”.

A fondamento di tale sua decisione, la Suprema Corte ha, dunque, enunciato il principio in base al quale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. “…. la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno di un ufficio impone al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, incluso il ricorso al potere disciplinare ….”.

Di qui, dunque, la necessità che il datore di lavoro, al fine di evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie, intervenga, se del caso anche disciplinarmente, per mettere in atto azioni correttive tese a neutralizzare l’eccessiva conflittualità tra dipendenti ed il ripristino di un ambiente di lavoro sereno.

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

 

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronunzia n. 26760 resa in data 12 settembre 2024, ma pubblicata soltanto in data 15 ottobre 2024, ha inteso confermare alcuni principi in tema di responsabilità solidale ex art. 29 del D. Lgs. 276/03 dell’imprenditore committente per i trattamenti retributivi e/o i contributi previdenziali dovuti dagli appaltatori e/o dai subappaltatori a favore dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dei servizi oggetto del contratto di appalto.

Secondo le precisazioni della Suprema Corte, invero, la “…solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, esonerando il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice…” e la “ratio legis” dell’art. 29 del D. Lgs 276703 consiste in ciò: nel “…garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili e evitando che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale”.

Nell’affermare i citati principi, infatti, la Suprema Corte ha chiarito, dunque, che la logica della solidarietà tra l’appaltatore, eventuali subappaltatori ed il committente, nonché il dato testuale della norma, che fa riferimento al periodo di esecuzione del relativo contratto, inducono a ritenere che:

– da un lato, la solidarietà sussista solo per i crediti maturati con riguardo al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, con esclusione di quelli sorti in altri periodi, non potendosi gravare il committente di debiti facenti capo ad altri e diversi pregressi committenti e da questi ultimi non saldati;

– da un altro lato, l’art. 29 cit. esonera il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti gravanti su ciascuna società appaltatrice convenuta in giudizio quale coobbligata, così realizzandosi una oggettiva facilitazione per il dipendente sul piano probatorio, in tutto e per tutto coerente con la ratio legis sopra indicata.

In sintesi, alla luce del consolidato orientamento invalso presso la Suprema Corte, può dirsi che la previsione di un vincolo di solidarietà tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori è realizzata “…secondo un modulo legislativo che intende rafforzare l’adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell’imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore, il rischio economico di dovere rispondere in prima persona delle eventuali omissioni di tale imprenditore…”.

La norma di riferimento (art. 29 del D. Lgs. 276/03), in altre parole, è volta a incentivare un utilizzo più virtuoso dei contratti di appalto, inducendo il committente (e il sub committente) ad individuare imprenditori affidabili, per evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione si risolvano in un danno a carico del lavoratore.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

(studiolegale@daverioflorio.com)

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

 

Una lavoratrice, assunta a tempo parziale verticale (50%), impugnava il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per aver superato il periodo di comporto previsto dal ccnl applicato al rapporto di lavoro.

In particolare, al rapporto di lavoro era applicato il CCNL Commercio-Confcommercio che prevede una specifica disposizione in adempimento della delega prevista dall’art. 7 comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 secondo cui: “I contratti collettivi possono modulare la durata… del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro”.

L’art. 87 del ccnl citato prevede infatti che. per i lavoratori con contratto a tempo parziale “verticale” o “misto”, il periodo di conservazione del posto in caso di malattia sia pari ad “un periodo massimo non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare”.

Nel caso di specie era dunque pacifico che il periodo di comporto fosse pari a 78,5 giorni in un anno, in quanto la lavoratrice era impiegata con un contratto di lavoro part-time verticale per 3 giorni a settimana.

Ciò che, tuttavia, risultava controverso nel giudizio era il criterio con cui computare le giornate di assenza per malattia ai fini della maturazione del predetto periodo di comporto:

– secondo la lavoratrice, avrebbero dovuto essere computati i soli giorni nei quali la stessa sarebbe stata tenuta a garantire la propria prestazione lavorativa (tre giorni a settimana), con la conseguenza che il periodo massimo di comporto non sarebbe stato superato;

– secondo il datore di lavoro, invece, avrebbero dovuto essere computati tutti i giorni solari coperti da certificato medico di malattia, ivi compresi quelli nei quali il dipendente non aveva alcun obbligo contrattuale, sicché la lavoratrice avrebbe accumulato 113 giorni di assenza per malattia, così superando il periodo di comporto.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma rigettavano l’impugnazione della lavoratrice ritenendo corretta la ricostruzione offerta dal datore di lavoro.

La lavoratrice, pertanto, proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione lamentando, appunto, l’erroneità della anzidetta modalità di calcolo confermata dai giudici di merito.

Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, anche la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della ricostruzione datoriale, nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori con contratto part-time verticale anche le giornate non lavorative per cui comunque risultava uno stato di malattia certificato.

Con la sentenza n. 26634 del 14 ottobre 2024 la Corte di Cassazione chiarisce definitivamente che anche nel lavoro part-time verticale le assenze per malattia devono essere calcolate includendo “oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, posto che, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), “opera una presunzione di continuità in quei giorni dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta”.

Detta presunzione, ricorda altresì la Cassazione, può essere superata “solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa”.

La Corte di Cassazione ha fornito una guida fondamentale per la gestione delle assenze di malattia per tale specifica fattispecie, confermando che il “riproporzionamento” (laddove previsto dalla contrattazione collettiva) opera solo con riferimento alla determinazione del periodo di comporto, mentre le assenze devono essere calcolate, così come per i lavoratori a tempo pieno, tenendo conto anche dei giorni contrattualmente non lavorativi se coperti da certificato medico.

Dipendente in malattia e attività secondarie: quali oneri probatori in capo al datore di lavoro? (Cass., sez. lav., 5.9.2024 n. 23858)

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

 

Con la sentenza n. 23858 resa in data 2 luglio 2024 e pubblicata in data 5 settembre 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato una questione molto delicata in ordine agli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro che intenda licenziare un suo dipendente in malattia, dopo avere scoperto che costui, in costanza di malattia, svolgeva attività secondarie e parallele.

Sul punto, la Suprema Corte ha, infatti, enunciato il principio di diritto in base al quale “nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un’altra attività durante un’assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l’attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede”.

A supporto di tale principio, la Suprema Corte – dopo avere opportunamente ricordato che la nozione di malattia rilevante a fini della sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, seppur provvisoria, incapacità al lavoro dello stesso – ha, nondimeno, puntualizzato che lo stato di malattia non è, di per sé, incompatibile con lo svolgimento di altre diverse attività parallele e secondarie.

Pertanto, a detta del Supremo Collegio, non può dirsi legittimo un licenziamento motivato unicamente sulla circostanza che il dipendente in malattia svolga altre e diverse attività, posto che, ai fini della fondatezza del recesso datoriale, il datore di lavoro è tenuto ad assolvere a rigorosi oneri probatori – secondo quanto dispone l’art. 5 della L. 604 del 15 luglio 1966 – che prevedono, più precisamente: (i) la dimostrazione della fittizietà dello stato di malattia; (ii) la dimostrazione che lo svolgimento di altre e diverse attività sia idonea a pregiudicare e/o a ritardare la completa guarigione, ove mai lo stato di malattia sia reale, e, dunque, il ritorno in servizio.

Trattasi di una pronunzia importante, in quanto, in linea con altra e precedente pronunzia della stessa Suprema Corte (Cass., sez. lav., 13.3.2018 n. 6047), sancisce un equo contemperamento tra il diritto del dipendente a non vedere pregiudicato il diritto ad una piena espressione delle sue attitudini e inclinazioni, anche sul piano extra lavorativa, ed il diritto del datore di lavoro di pretendere una condotta seria e diligente del dipendente anche durante il periodo di sospensione – quale, ad esempio, quello derivante da malattia – del rapporto di lavoro.

 

#malattia #datoredilavoro #cortedicassazione #lavoratori

 

Un recente caso di reintegrazione di una lavoratrice licenziata per motivi legati al concreto utilizzo dei permessi ex Legge 104/1992. Cassazione, sez. lav., ordinanza del 9 settembre 2024, n. 24130.

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Un datore di lavoro intimava il licenziamento per giusta causa ad una propria lavoratrice a motivo dell’utilizzo improprio dei permessi ex Legge 104/1992 richiesti al fine di prestare assistenza alla di lei madre disabile.

Alla lavoratrice, in particolare, veniva contestato:

– in relazione a due giorni di permesso, di aver prestato assistenza per un periodo di tempo minore (per sole tre ore e mezza ovvero cinque ore), rispetto all’intera giornata lavorativa di permesso richiesta, svolgendo per le restanti ore varie commissioni, come l’acquisto di capi d’abbigliamento al mercato;

– per ulteriori due giorni di permesso, di non aver prestato alcuna assistenza, essendo rimasta presso la propria abitazione.

La lavoratrice impugnava il licenziamento a lei intimato, che, all’esito dei giudizi di merito, veniva dichiarato illegittimo con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento del danno in applicazione dell’art. 18 S.L.

In particolare, la Corte d’Appello di Napoli, così come il Tribunale di primo grado, ritenevano non sussistente la prova circa l’utilizzo improprio da parte della lavoratrice dei permessi ex Legge 104/1992.

Avverso tale decisione, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione.

Con l’ordinanza qui in commento (n. 24130 del 9 settembre 2024), la Corte di Cassazione, pur ribadendo che “può costituire” giusta causa di licenziamento, l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex Legge 104/1992 per “attività diverse dall’assistenza al familiare disabile”, ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento.

A tale proposito, la Cassazione ha innanzitutto precisato che i cd. “ permessi 104” sono funzionali a garantire esigenze di assistenza “in forme non specificate”.

D’altra parte, ricorda ancora la Cassazione, gli stessi permessi sono “giornalieri” e non vengono concessi “su base oraria o cronometrica”.

Tenuto conto di ciò, ad avviso della Cassazione, la Corte di merito avrebbe correttamente ritenuto che l’attività svolta durante il tragitto per l’acquisto di beni potesse considerarsi come “marginale” e che comunque ben avrebbe potuto essere finalizzata a soddisfare le esigenze dell’assistita (posto che, come detto, l’assistenza può esplicarsi in attività “non specificate”).

Del pari, proseguono i Giudici di legittimità, la Corte di merito avrebbe altresì correttamente ritenuto che non potesse escludersi che anche per i giorni di permesso fruiti presso la propria abitazione la lavoratrice fosse dedita all’assistenza della madre.

Di qui, dunque, il rigetto del ricorso datoriale.

L’ordinanza si inserisce fra le numerose pronunce di legittimità sul tema in oggetto (molte delle quali richiamate dalla stessa ordinanza in commento), che richiede di essere attentamente valutato caso per caso, alla luce dei precedenti anzidetti e dei principi ivi affermati. Ciò a maggior ragione a fronte del rischio di reintegrazione che incombe sul datore di lavoro nell’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato”, come nel caso esaminato.

 

#licenziamento #lavorosubordinato #permessi #legge104 #cortedicassazione #reintegrazione

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

Con la sentenza n. 18125 del 23 aprile 2024, depositata in cancelleria il 3 luglio u.s., la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad analizzare una questione molto importante e delicata per le imprese che occupino più di quindici dipendenti (compresi i dirigenti) e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Una giornalista professionista, deducendo di aver stipulato con una società concessionaria di emittenti televisive plurimi contratti di lavoro autonomo in un arco temporale di quasi dodici anni, ricorreva giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

Con la decisione n. 12487 del 23 gennaio 2024, depositata in cancelleria in data 8 maggio 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato e risolto un interessante caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di un dipendente di una nota Banca d’affari italiana, nel quale è stata chiamata a stabilire se – in presenza di una clausola del contratto collettivo che indichi, quale “arco temporale esterno” nel quale computare il numero massimo di assenze consentite, il termine di n. 24 mesi, senza ulteriori aggiunte o precisazioni – il suddetto periodo debba essere computato secondo il calendario comune o meno. Continua a leggere