di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

 

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronunzia n. 26760 resa in data 12 settembre 2024, ma pubblicata soltanto in data 15 ottobre 2024, ha inteso confermare alcuni principi in tema di responsabilità solidale ex art. 29 del D. Lgs. 276/03 dell’imprenditore committente per i trattamenti retributivi e/o i contributi previdenziali dovuti dagli appaltatori e/o dai subappaltatori a favore dei dipendenti impiegati nell’esecuzione dei servizi oggetto del contratto di appalto.

Secondo le precisazioni della Suprema Corte, invero, la “…solidarietà si estende solo ai crediti maturati durante il periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, esonerando il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti di ciascuna società appaltatrice…” e la “ratio legis” dell’art. 29 del D. Lgs 276703 consiste in ciò: nel “…garantire il pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali, incentivando la selezione di imprenditori affidabili e evitando che i lavoratori siano penalizzati dai meccanismi di decentramento contrattuale”.

Nell’affermare i citati principi, infatti, la Suprema Corte ha chiarito, dunque, che la logica della solidarietà tra l’appaltatore, eventuali subappaltatori ed il committente, nonché il dato testuale della norma, che fa riferimento al periodo di esecuzione del relativo contratto, inducono a ritenere che:

– da un lato, la solidarietà sussista solo per i crediti maturati con riguardo al periodo del rapporto lavorativo coinvolto dall’appalto stesso, con esclusione di quelli sorti in altri periodi, non potendosi gravare il committente di debiti facenti capo ad altri e diversi pregressi committenti e da questi ultimi non saldati;

– da un altro lato, l’art. 29 cit. esonera il lavoratore dall’onere di provare l’entità dei debiti gravanti su ciascuna società appaltatrice convenuta in giudizio quale coobbligata, così realizzandosi una oggettiva facilitazione per il dipendente sul piano probatorio, in tutto e per tutto coerente con la ratio legis sopra indicata.

In sintesi, alla luce del consolidato orientamento invalso presso la Suprema Corte, può dirsi che la previsione di un vincolo di solidarietà tra committente, appaltatore ed eventuali subappaltatori è realizzata “…secondo un modulo legislativo che intende rafforzare l’adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell’imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore, il rischio economico di dovere rispondere in prima persona delle eventuali omissioni di tale imprenditore…”.

La norma di riferimento (art. 29 del D. Lgs. 276/03), in altre parole, è volta a incentivare un utilizzo più virtuoso dei contratti di appalto, inducendo il committente (e il sub committente) ad individuare imprenditori affidabili, per evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione si risolvano in un danno a carico del lavoratore.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

(studiolegale@daverioflorio.com)

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

 

Una lavoratrice, assunta a tempo parziale verticale (50%), impugnava il licenziamento intimatole dal datore di lavoro per aver superato il periodo di comporto previsto dal ccnl applicato al rapporto di lavoro.

In particolare, al rapporto di lavoro era applicato il CCNL Commercio-Confcommercio che prevede una specifica disposizione in adempimento della delega prevista dall’art. 7 comma 2 del d.lgs. n. 81/2015 secondo cui: “I contratti collettivi possono modulare la durata… del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia ed infortunio in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro”.

L’art. 87 del ccnl citato prevede infatti che. per i lavoratori con contratto a tempo parziale “verticale” o “misto”, il periodo di conservazione del posto in caso di malattia sia pari ad “un periodo massimo non superiore alla metà delle giornate lavorative concordate fra le parti in un anno solare”.

Nel caso di specie era dunque pacifico che il periodo di comporto fosse pari a 78,5 giorni in un anno, in quanto la lavoratrice era impiegata con un contratto di lavoro part-time verticale per 3 giorni a settimana.

Ciò che, tuttavia, risultava controverso nel giudizio era il criterio con cui computare le giornate di assenza per malattia ai fini della maturazione del predetto periodo di comporto:

– secondo la lavoratrice, avrebbero dovuto essere computati i soli giorni nei quali la stessa sarebbe stata tenuta a garantire la propria prestazione lavorativa (tre giorni a settimana), con la conseguenza che il periodo massimo di comporto non sarebbe stato superato;

– secondo il datore di lavoro, invece, avrebbero dovuto essere computati tutti i giorni solari coperti da certificato medico di malattia, ivi compresi quelli nei quali il dipendente non aveva alcun obbligo contrattuale, sicché la lavoratrice avrebbe accumulato 113 giorni di assenza per malattia, così superando il periodo di comporto.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma rigettavano l’impugnazione della lavoratrice ritenendo corretta la ricostruzione offerta dal datore di lavoro.

La lavoratrice, pertanto, proponeva ricorso innanzi alla Corte di Cassazione lamentando, appunto, l’erroneità della anzidetta modalità di calcolo confermata dai giudici di merito.

Chiamata a pronunciarsi sulla vicenda, anche la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità della ricostruzione datoriale, nel senso di includere nel periodo di comporto dei lavoratori con contratto part-time verticale anche le giornate non lavorative per cui comunque risultava uno stato di malattia certificato.

Con la sentenza n. 26634 del 14 ottobre 2024 la Corte di Cassazione chiarisce definitivamente che anche nel lavoro part-time verticale le assenze per malattia devono essere calcolate includendo “oltre ai giorni festivi, anche quelli di fatto non lavorati, che cadano durante il periodo di malattia indicato dal certificato medico, posto che, in difetto di prova contraria (che è onere del lavoratore fornire), “opera una presunzione di continuità in quei giorni dell’episodio morboso addotto dal lavoratore quale causa dell’assenza dal lavoro e del mancato adempimento della prestazione dovuta”.

Detta presunzione, ricorda altresì la Cassazione, può essere superata “solo dalla dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa”.

La Corte di Cassazione ha fornito una guida fondamentale per la gestione delle assenze di malattia per tale specifica fattispecie, confermando che il “riproporzionamento” (laddove previsto dalla contrattazione collettiva) opera solo con riferimento alla determinazione del periodo di comporto, mentre le assenze devono essere calcolate, così come per i lavoratori a tempo pieno, tenendo conto anche dei giorni contrattualmente non lavorativi se coperti da certificato medico.

Dipendente in malattia e attività secondarie: quali oneri probatori in capo al datore di lavoro? (Cass., sez. lav., 5.9.2024 n. 23858)

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

 

Con la sentenza n. 23858 resa in data 2 luglio 2024 e pubblicata in data 5 settembre 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato una questione molto delicata in ordine agli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro che intenda licenziare un suo dipendente in malattia, dopo avere scoperto che costui, in costanza di malattia, svolgeva attività secondarie e parallele.

Sul punto, la Suprema Corte ha, infatti, enunciato il principio di diritto in base al quale “nel licenziamento disciplinare, se un dipendente svolge un’altra attività durante un’assenza per malattia, il datore di lavoro deve dimostrare che la malattia è simulata o che l’attività potrebbe pregiudicare il ritorno al lavoro. Il dipendente può svolgere attività secondarie, purché compatibili con la malattia e con buona fede”.

A supporto di tale principio, la Suprema Corte – dopo avere opportunamente ricordato che la nozione di malattia rilevante a fini della sospensione della prestazione lavorativa ricomprende le situazioni nelle quali l’infermità determini, per intrinseca gravità o per incidenza sulle mansioni normalmente svolte dal dipendente, una concreta ed attuale, seppur provvisoria, incapacità al lavoro dello stesso – ha, nondimeno, puntualizzato che lo stato di malattia non è, di per sé, incompatibile con lo svolgimento di altre diverse attività parallele e secondarie.

Pertanto, a detta del Supremo Collegio, non può dirsi legittimo un licenziamento motivato unicamente sulla circostanza che il dipendente in malattia svolga altre e diverse attività, posto che, ai fini della fondatezza del recesso datoriale, il datore di lavoro è tenuto ad assolvere a rigorosi oneri probatori – secondo quanto dispone l’art. 5 della L. 604 del 15 luglio 1966 – che prevedono, più precisamente: (i) la dimostrazione della fittizietà dello stato di malattia; (ii) la dimostrazione che lo svolgimento di altre e diverse attività sia idonea a pregiudicare e/o a ritardare la completa guarigione, ove mai lo stato di malattia sia reale, e, dunque, il ritorno in servizio.

Trattasi di una pronunzia importante, in quanto, in linea con altra e precedente pronunzia della stessa Suprema Corte (Cass., sez. lav., 13.3.2018 n. 6047), sancisce un equo contemperamento tra il diritto del dipendente a non vedere pregiudicato il diritto ad una piena espressione delle sue attitudini e inclinazioni, anche sul piano extra lavorativa, ed il diritto del datore di lavoro di pretendere una condotta seria e diligente del dipendente anche durante il periodo di sospensione – quale, ad esempio, quello derivante da malattia – del rapporto di lavoro.

 

#malattia #datoredilavoro #cortedicassazione #lavoratori

 

Un recente caso di reintegrazione di una lavoratrice licenziata per motivi legati al concreto utilizzo dei permessi ex Legge 104/1992. Cassazione, sez. lav., ordinanza del 9 settembre 2024, n. 24130.

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Un datore di lavoro intimava il licenziamento per giusta causa ad una propria lavoratrice a motivo dell’utilizzo improprio dei permessi ex Legge 104/1992 richiesti al fine di prestare assistenza alla di lei madre disabile.

Alla lavoratrice, in particolare, veniva contestato:

– in relazione a due giorni di permesso, di aver prestato assistenza per un periodo di tempo minore (per sole tre ore e mezza ovvero cinque ore), rispetto all’intera giornata lavorativa di permesso richiesta, svolgendo per le restanti ore varie commissioni, come l’acquisto di capi d’abbigliamento al mercato;

– per ulteriori due giorni di permesso, di non aver prestato alcuna assistenza, essendo rimasta presso la propria abitazione.

La lavoratrice impugnava il licenziamento a lei intimato, che, all’esito dei giudizi di merito, veniva dichiarato illegittimo con condanna del datore di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice e al risarcimento del danno in applicazione dell’art. 18 S.L.

In particolare, la Corte d’Appello di Napoli, così come il Tribunale di primo grado, ritenevano non sussistente la prova circa l’utilizzo improprio da parte della lavoratrice dei permessi ex Legge 104/1992.

Avverso tale decisione, il datore di lavoro proponeva ricorso per cassazione.

Con l’ordinanza qui in commento (n. 24130 del 9 settembre 2024), la Corte di Cassazione, pur ribadendo che “può costituire” giusta causa di licenziamento, l’utilizzo da parte del lavoratore dei permessi ex Legge 104/1992 per “attività diverse dall’assistenza al familiare disabile”, ha ritenuto immune da censure la decisione della Corte di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento.

A tale proposito, la Cassazione ha innanzitutto precisato che i cd. “ permessi 104” sono funzionali a garantire esigenze di assistenza “in forme non specificate”.

D’altra parte, ricorda ancora la Cassazione, gli stessi permessi sono “giornalieri” e non vengono concessi “su base oraria o cronometrica”.

Tenuto conto di ciò, ad avviso della Cassazione, la Corte di merito avrebbe correttamente ritenuto che l’attività svolta durante il tragitto per l’acquisto di beni potesse considerarsi come “marginale” e che comunque ben avrebbe potuto essere finalizzata a soddisfare le esigenze dell’assistita (posto che, come detto, l’assistenza può esplicarsi in attività “non specificate”).

Del pari, proseguono i Giudici di legittimità, la Corte di merito avrebbe altresì correttamente ritenuto che non potesse escludersi che anche per i giorni di permesso fruiti presso la propria abitazione la lavoratrice fosse dedita all’assistenza della madre.

Di qui, dunque, il rigetto del ricorso datoriale.

L’ordinanza si inserisce fra le numerose pronunce di legittimità sul tema in oggetto (molte delle quali richiamate dalla stessa ordinanza in commento), che richiede di essere attentamente valutato caso per caso, alla luce dei precedenti anzidetti e dei principi ivi affermati. Ciò a maggior ragione a fronte del rischio di reintegrazione che incombe sul datore di lavoro nell’ipotesi di “insussistenza del fatto contestato”, come nel caso esaminato.

 

#licenziamento #lavorosubordinato #permessi #legge104 #cortedicassazione #reintegrazione

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

Con la sentenza n. 18125 del 23 aprile 2024, depositata in cancelleria il 3 luglio u.s., la Suprema Corte di Cassazione è tornata ad analizzare una questione molto importante e delicata per le imprese che occupino più di quindici dipendenti (compresi i dirigenti) e che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Una giornalista professionista, deducendo di aver stipulato con una società concessionaria di emittenti televisive plurimi contratti di lavoro autonomo in un arco temporale di quasi dodici anni, ricorreva giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

Con la decisione n. 12487 del 23 gennaio 2024, depositata in cancelleria in data 8 maggio 2024, la Corte di Cassazione ha affrontato e risolto un interessante caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di un dipendente di una nota Banca d’affari italiana, nel quale è stata chiamata a stabilire se – in presenza di una clausola del contratto collettivo che indichi, quale “arco temporale esterno” nel quale computare il numero massimo di assenze consentite, il termine di n. 24 mesi, senza ulteriori aggiunte o precisazioni – il suddetto periodo debba essere computato secondo il calendario comune o meno. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per  aver postato su Facebook affermazioni di carattere diffamatorio nei confronti della società datrice di lavoro.

Il licenziamento veniva impugnato dal lavoratore avanti il Giudice del lavoro. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

In una sua recente decisione, resa con Ordinanza 2761 del 6 dicembre 2023, depositata in data 30 gennaio 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il caso relativo alla legittimità o non del licenziamento per giusta causa di una dipendente che, sebbene fisicamente assente dal luogo di lavoro, tuttavia aveva dato prova di avere “impegnato” l’orario di lavoro nell’assolvimento dell’attività cui era tenuta, in modalità “da remoto”.

Il caso, più precisamente, aveva per protagonista una dipendente di una Società cooperativa che aveva ricevuto in appalto da altre Società committenti l’obbligo di provvedere ai servizi di pulizia nei cantieri e, pur investita del ruolo di coordinatrice dei dipendenti impegnati nello svolgimento dei citati servizi, era, tuttavia, spesso assente dal luogo di lavoro. L’istruttoria celebrata nei pregressi gradi aveva messo in luce che ella aveva, comunque, assolto – come detto, “da remoto” – al suo obbligo di controllo degli altri dipendenti cui era istituzionalmente preposta:

  • sia richiedendo e ricevendo l’autorizzazione all’accesso alla sim aziendale per potere operare “da remoto”, grazie alla rete della società;
  • sia richiedendo e ottenendo dai colleghi presenti in loco la documentazione (c.d. “fogli presenza” dei dipendenti addetti ai cantieri, per l’esecuzione dei servizi in appalto) funzionale alla verifica del rispetto dei turni di lavoro dei dipendenti assoggettati alla sua sorveglianza.

Sul piano più strettamente giuridico, la questione riguardava, dunque, la configurabilità o non di una giusta causa di recesso datoriale, che la Società datrice di lavoro aveva ritenuto di individuare nella pretesa violazione dell’orario di servizio da parte della dipendente.

Questi essendo i fatti rilevanti, la Suprema Corte, con la decisione sopra indicata, per certo applicabile anche a casi simili a quello in esame, stante la portata più generale del principio di diritto espresso nell’Ordinanza in commento, ha ritenuto che nel caso di specie l’addebito elevato a carico della dipendente non fosse fondato, non potendosi configurare, per il sol fatto che la stessa fosse sovente assente, fisicamente, dal luogo di lavoro, né un inadempimento alla sua obbligazione di lavoro né una violazione dell’orario di lavoro contrattualmente pattuito con la Società sua datrice di lavoro.

A valere di tale conclusione, la Suprema Corte, in particolare, ha evidenziato che il recesso datoriale per giusta causa della Società avrebbe potuto essere ritenuto legittimo soltanto a condizione che, alternativamente, la datrice di lavoro:

  • avesse contestato e dimostrato in giudizio l’inadempimento all’obbligazione di lavoro della sua dipendente, ovvero il mancato raggiungimento dell’apporto di risultato da parte di quest’ultima: ad esempio allegando e provando che nessuna delle mansioni proprie del suo ruolo di coordinatrice fosse suscettibile di essere svolta “da remoto”;
  • avesse allegato e dimostrato che la dipendente impiegava il tempo “dedicato” all’orario di lavoro ad altre attività, estranee alle mansioni cui era contrattualmente adibita, così evidenziando, in re ipsa, una forma di inadempimento qualificato imputabile a quest’ultima e, per l’effetto, la ricorrenza dei presupposti per la giusta causa di recesso.

L’Ordinanza in questione è, dunque, rilevante anche al di là del perimetro di applicazione del singolo caso specifico che ne ha occasionato l’emissione in quanto mette in luce l’importanza di una attenta formulazione della contestazione disciplinare, con puntuale indicazione degli addebiti, nonché la imprescindibilità di un rigoroso assolvimento degli oneri allegatori e probatori a carico del datore di lavoro in fattispecie analoghe a quella in commento, a pena della declaratoria di illegittimità del recesso datoriale.

*Avvocati Studio Legale Daverio & Florio

 

 

di Bernardina Calafiori e Eleonora Ilario*

Un lavoratore impugnava giudizialmente ilmlicenziamento per giusta causa comminatogli a seguito di due ordini di addebiti, cui si aggiungeva la recidiva. In particolare, al lavoratore veniva, in primo luogo, contestato di aver avuto un acceso diverbio con una collega, di cui era superiore gerarchico, a seguito del quale il lavoratore aveva strattonato la dipendente, impedendole anche di allontanarsi dal luogo della discussione. Continua a leggere

di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*

In una sua recentissima decisione (Cass., sez. lav., 9.01.2024 n. 701) la Suprema Corte ha dato importanti indicazioni ai fini dei limiti applicativi del c.d. “principio di automaticità” delle prestazioni previdenziali di cui all’art. 2116, comma I°, c.c.

Come noto, la suddetta disposizione prevede testualmente che “le prestazioni indicate nell’art 2114 c.c. (norma che, a sua volta, rinvia alle leggi speciali ai fini della regolamentazione dei casi e delle forme di previdenza e di assistenza obbligatorie e delle modalità di contribuzione e delle relative prestazioni: n.d.r.) sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali”. Continua a leggere