PARITÀ DI GENERE, QUESTA SCONOSCIUTA!

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di Roberta Jacobone*

Da molto tempo ormai si sente e si legge ovunque di “parità di genere”, una espressione che l’infallibile Treccani definisce “parità: rapporto di uguaglianza o equivalenza tra due o più cose” e “genere: un insieme, un raggruppamento ideale di cose o persone che hanno caratteristiche simili”. Nel nostro quotidiano la parità di genere si considera rispettata quando iniziative, opportunità, lavori, proposte ed occasioni sono rivolte indistintamente a chiunque, prescindendo da sesso, religione, etnia, status sociale. Diversamente si verrebbero a creare delle discriminazioni, a volte generate in modo inconsapevole, altre volte in modo più subdolo ma intenzionale. La disparità di genere più diffusa (o meglio, quella più conosciuta) è sicuramente quella femminile sui luoghi di lavoro, caratterizzata dalla minore partecipazione di donne rispetto agli uomini, da retribuzioni più basse, carriere professionali più lente, premi e gratificazioni meno frequenti. Anche il tasso di occupazione nel mercato del lavoro rivela una differenza significativa di genere e la percentuale più alta è sempre a favore degli uomini.

Negli ultimi anni si sono fatti alcuni sforzi per colmare questo “gender gap”: già nel lontano 2006 con l’introduzione del codice delle pari opportunità, nel 2011 con la normativa sulle quote di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate, nel 2012 con la legge sugli equilibri negli enti locali e consigli regionali e nel 2017 anche nelle liste elettorali. Credo tuttavia che sia importante andare oltre le leggi vigenti per arrivare a ciò che fa davvero la differenza: la cultura sociale. Una cultura che fortunatamente sta evolvendo ma non così velocemente come ci si potrebbe aspettare nel 21° secolo.

Una cultura arretrata e conservativa che in alcune realtà, lavorative ma non solo, è ancora ben radicata.

Ed ecco che termini come “mobbing” e “bullismo” (nei quali rientrano tutti i comportamenti persecutori e vessatori nei confronti di un lavoratore o lavoratrice, da parte del datore di lavoro o dei colleghi, con l’unica finalità di emarginarlo ed estrometterlo dall’ambiente di lavoro) sono ancora molto attuali.

E quando si parla di genere femminile purtroppo è ancora frequente che questi atteggiamenti sfocino in vere e proprie molestie, deleterie per l’integrità psico- fisica di chi le subisce, che si trova violata nella sua dignità e costretta a lavorare in un ambiente ostile e intimidatorio. In questi casi, un datore di lavoro attento ha il potere e il dovere di ripristinare l’equilibrio e ricreare un ambiente di lavoro sereno e vivibile per tutti i suoi dipendenti. Ma un datore di lavoro distratto o, peggio, disinteressato come potrebbe reagire davanti ad una denuncia del genere? Davanti ad una sua dipendente che lamenta avances da parte del collega più qualificato o del cliente più prestigioso? Non ho la risposta in tasca ed è troppo facile dire che l’imprenditore sceglierebbe di non perdere né il lavoratore qualificato né il suo miglior cliente. Purtroppo accade. Come accade ancora di scontrarsi con l’immagine stereotipata della donna- mamma-casalinga, giudicata in base alle ore che lavora e non dagli obiettivi che raggiunge o dall’efficienza della sua produttività.

E’ scontato ritagliare questi esempi sull’immagine femminile ma la (dis)parità di genere la si misura ogni volta che, per qualsiasi motivo, qualcuno viene lasciato indietro, messo da parte, non valorizzato, ostacolato a favore di altri che invece ne traggono beneficio. Nelle aziende e negli uffici accade spesso perché è il luogo dove i dipendenti (di solito variegati e ben assortiti!) passano la maggior parte della loro giornata, con altre persone non scelte da loro e con le quali si deve, volente o nolente, interagire nel perseguimento di interessi comuni. Non è raro che si creino divergenze caratteriali che possono tramutarsi in qualcosa di ingestibile e degenerare in atteggiamenti conflittuali. Quindi se esistono ancora tante disparità, cosa sta migliorando? In quale direzione stiamo andando? L’Italia si sta dando da fare per attuare le direttive Europee in materia, l’ultima proprio lo scorso 9 marzo con l’approvazione del Decreto che recepisce in via definitiva la direttiva europea 2019/1937 sul Whistleblowing, introducendo precise tutele per le persone che segnalano violazioni di disposizioni normative e/o condotte illecite (compreso il mobbing o il bullismo) di cui siano venute a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato. Il Decreto elenca espressamente le ritorsioni, nell’ambito del rapporto di lavoro, che i segnalatori non devono subire, fissando pesanti sanzioni ai datori di lavoro che applichino azioni ritorsive e/o ostacolino la segnalazione dell’illecito. Ci sono sviluppi anche in merito alla rendicontazione societaria di sostenibilità, con la nuova DIRETTIVA (UE) 2022/2464 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 14 dicembre 2022 (che modifica il regolamento (UE) n. 537/2014, la direttiva 2004/109/CE, la direttiva 2006/43/CE e la direttiva 2013/34/UE per quanto riguarda la rendicontazione societaria di sostenibilità – CSRD) che imporrà alle grandi imprese una rendicontazione aggiuntiva sul tema. Tra i principi di sostenibilità, troviamo l’ambiente di lavoro e le condizioni ivi esistenti, l’uguaglianza, la non discriminazione, la diversità, l’inclusione e il resto dei diritti umani. Il bilancio delle imprese non si limiterà più a numeri e tabelle ma descriverà i modi con cui le questioni di sostenibilità influiscono sull’andamento di impresa, sui suoi risultati e sulla sua situazione. E chi non starà al passo, rischierà di essere abbandonato dai clienti più attenti a questi temi. Nella stessa direzione va la neonata certificazione della parità di genere, introdotta dalla legge 5 novembre 2021, n. 162 (Modifiche al codice di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, e altre disposizioni in materia di pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo.) e finalizzata al raggiungimento di specifici parametri, che, se soddisfatti dall’azienda, garantiranno a quest’ultima dei meccanismi premiali.

L’importante è che tutta questa sensibilizzazione non rimanga solo sulla carta, imbrigliata nelle regole fissate dai decreti e lontana dalla pratica attuazione nella realtà. Creare un ambiente di lavoro stimolante, sereno, solidale e soprattutto equo costa tempo, fatica ed energie, ma rende un’impresa migliore, più produttiva e più competitiva. Che lo sia è un legittimo diritto di tutti i lavoratori, così come lo è avere un datore di lavoro che si interessi a loro e alle dinamiche che si creano.

*Odcec Crema

 

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