Rassegna di giurisprudenza

Licenziamento per abuso dei permessi previsti dall’art.33 della Legge N. 104/1992.

di Bernardina Calafiori e Simone Brusa* 

Corte di Cassazione, 26 ottobre 2020 n. 23434 – presidente Raimondi – Relatore Boghetich 

Massima: i permessi concessi ai dipendenti al fine di assistere il familiare disabile devono essere utilizzati a tale scopo e non per mere di riposo ma l’assistenza può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualunque genere, purché nell’interesse del familiare assistito. 

Ancora una volta la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alla legittimità del licenziamento di una dipendente per abuso dei permessi previsti dall’art. 33 della legge n. 104/1992.

Nel caso di specie si trattava di una dipendente che richiedeva ed utilizzava i permessi al fine di assistere il padre disabile, ai sensi del terzo comma dell’art. 33.

L’agenzia investigativa (incaricata dal datore di lavoro) evidenziava che (i) “la dipendente nelle giornate del 27, 28 e 29 ottobre 2016 si era recata presso l’abitazione del padre, affetto da morbo di Alzheimer, per un numero di ore ben oltre quelle del suo orario di lavoro” e (ii) che in data 27 ottobre 2016 (sempre giornata oggetto di permessi) la stessa si era recata ad un “incontro di formazione/ informazione sul malato neurologico del pomeriggio del 27 ottobre presso un centro universitario”.

La Società licenziava quindi la dipendente sostenendo che i comportamenti predetti costituissero un abuso nell’utilizzo dei suddetti permessi.

La Corte d’appello di Trento aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento. La Società adiva allora la Corte di Cassazione lamentando l’erroneità della sentenza impugnata in quanto la natura dei permessi ex art. 33 non avrebbe consentito alla dipendente di “riposarsi, andare a fare la spesa per la sua famiglia, portare a spasso il cane, partecipare ad incontri/conferenze aventi ad oggetto la malattia che ha colpito il disabile”. 

La Corte di Cassazione ha invece confermato la sentenza della Corte d’Appello affermando che “l’assistenza può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualunque genere, purché nell’interesse del familiare assistito”.

Sulla scorta di tale principio la Suprema Corte ha affermato che, nel caso di specie, la corte distrettuale aveva correttamente “accertato che la lavoratrice, alla quale erano stati concessi tre giorni consecutivi di permesso, aveva utilizzato un numero di ore ben oltre quelle del suo orario di lavoro all’assistenza e all’accudimento del padre e, che se anche non si riteneva di includere nel concetto di assistenza in senso lato l’incontro di formazione/informazione sul malato neurologico frequentato nel pomeriggio del giorno 27 ottobre, in ogni caso non poteva ritenersi provato che la dipendente avesse utilizzato i permessi per svolgere solo o prevalentemente attività nel proprio interesse”.

Il risultato di tale accertamento è stato che la Suprema Corte ha escluso “che si fosse verificato un utilizzo dei permessi in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per l’assistenza, avendo accertato – in ogni caso – la prestazione di effettiva e prevalente assistenza a favore del padre disabile”, confermando pertanto l’illegittimità del licenziamento.

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Legittimo il licenziamento disciplinare del dipendente per utilizzo abusivo dell’auto aziendale

di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta* 

Un dipendente di una fondazione veniva licenziato, all’esito di regolare procedimento disciplinare, per un utilizzo abusivo dell’auto aziendale.

In particolare, il datore di lavoro contestava al dipendente:

  • di avere abusivamente ottenuto e utilizzato, durante le ferie, una autovettura aziendale da un concessionario “partner della Fondazione”, dopo averla ritirata a nome del proprio sovrintendente;
  • di aver utilizzato l’autovettura per tutto il periodo di ferie e di averla restituita in ritardo rispetto al termine pattuito e solo su sollecito del concessionario;
  • di aver omesso di segnalare, tramite l’apposita modulistica, il sinistro a lui occorso durante l’utilizzo, causato peraltro da una di lui colpa.

Il dipendente impugnava il licenziamento a lui intimato all’esito del citato procedimento disciplinare.

Prima il Tribunale e poi la Corte d’appello di Milano respingevano il ricorso del dipendente che, da ultimo, ricorreva per cassazione.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 24601 del 4 novembre 2020 ha rigettato il ricorso del dipendente.

La Suprema Corte rileva come nella pronuncia della Corte territoriale ben si sottolinea come il comportamento del dipendente “sia idoneo ad integrare un’insanabile frattura del vincolo fiduciario, dovendosi avere riguardo al disposto della norma di cui all’art. 2104 c.c. che, nel prescrivere (al secondo comma) che il prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questi dai quali gerarchicamente dipende, obbliga il prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”.

L’ordinanza fa propri i costanti arresti della Suprema Corte laddove ha statuito che “il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore d’opera rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione della parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (ex plurimis, Cass. 25608/2014)”. 

A giudizio della Suprema Corte, il Collegio d’appello si è attenuto ai suddetti principi e ha tratto le proprie conseguenze logico- giuridiche in termini di proporzionalità fra fatto commesso e sanzione irrogata anche “in considerazione della condotta palesemente violativa del prescritto obbligo di fedeltà, è stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte del dipendente”.

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Il concetto di “etero-organizzazione” nella distinzione tra avoro autonomo e subordinato

di Bernardina Calafiori e Alessandro Daverio* 

Cass. Civ. Sez. Lav. 3 novembre 2020, n. 24391 

Lavoro autonomo – subordinato – distinzione – Etero Organizzazione

– indici di subordinazione – rilevanza – attività con autonomia decisionale – potere direttivo – subordinazione – sussistenza

«Ai fini dell’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro viene in rilievo il criterio della etero- organizzazione, cioè l’inserimento del lavoratore nella organizzazione del committente che assume rilevanza ai fini della qualificazione in particolar modo quando la tipologia intellettuale e sostanzialmente creativa del contenuto dell’attività espletata dal collaboratore e l’ampiezza della sua autonomia decisionale comportano necessariamente un’attenuazione del potere direttivo in capo al committente». 

La Corte di Cassazione affronta nuovamente la distinzione tra lavoro subordinato e autonomo.

Nella sentenza in commento il caso è tuttavia peculiare e degno di rilievo.

Un professionista riceveva un incarico di collaborazione autonoma da parte di una Società operante nel settore vitivinicolo. L’incarico aveva ad oggetto ed era formalizzato in tema di «servizi di marketing strategico e operativo e per l’organizzazione dell’ufficio marketing», ed era stato qualificato espressamente di “consulenza libero- professionale” dalle parti.

La Società recedeva prima della scadenza dall’incarico.

Il collaboratore impugnava giudizialmente l’atto di recesso, chiedendo contestualmente la qualificazione del rapporto di lavoro quale subordinato e, in particolare, con qualifica dirigenziale e del recesso quale licenziamento illegittimo.

La Società resisteva in giudizio. Il Tribunale in primo grado respingeva le richieste del collaboratore. La Corte d’Appello di Palermo, tuttavia, accoglieva le domande e qualificando il rapporto come subordinato e dirigenziale riconosceva che il recesso della Società era da considerarsi quale licenziamento e lo giudicava privo di giusta causa condannando così la Società, tra l’altro, anche al pagamento della c.d. “indennità supplementare”.

La Società ricorreva avanti la Corte di Cassazione, rivendicando la natura genuinamente autonoma del rapporto intercorso tra le parti.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, rigettava il ricorso e confermava la sentenza di appello riconoscendo la corretta qualificazione del rapporto.

La stessa Corte ha valorizzato le conclusioni raggiunte della Corte d’Appello riconoscendone la congruità.

In particolare, l’incarico della cui natura si discuteva:

  • comportava l’utilizzo di “competenze altamente qualificate” nella materia;
  • aveva un contenuto di natura “intellettuale e sostanzialmente creativa”;
  • era caratterizzato da una ampia autonomia decisionale.

Questi elementi inducevano la Corte a ritenere che, per accertare la natura subordinata o meno del rapporto intercorso, non fosse necessario accertare tanto la soggezione del collaboratore al potere direttivo della Società (che, proprio per gli elementi richiamati, sarebbe stata sfumata) quanto la sola etero organizzazione, cioè l’inserimento stabile del collaboratore nella struttura economico-produttiva del committente.

Afferma a tal proposito la Corte: «tanto induceva a privilegiare, nella verifica della natura subordinata o meno del rapporto, quale fattore con valore sintomatico preponderante, l’elemento dell’inserimento dell’attività del B. nella organizzazione imprenditoriale della società, per il perseguimento degli obiettivi aziendali senza assunzione di rischio connesso all’effettivo raggiungimento di risultato».

È significativo – e forse uno degli aspetti di rilevanza della pronuncia – uno degli indici in base ai quali la Corte ha riconosciuto l’esistenza e la prova dell’inserimento nella organizzazione Societaria. Si tratta della circostanza per la quale il collaboratore stesso non era soggetto al potere direttivo della Società ma – su incarico dell’Azienda – esercitava lo stesso potere direttivo nei confronti di altri dipendenti dell’Azienda.

 

Dice la Corte: «in questo ordine di idee la Corte di merito ha valorizzato il ruolo, non di sola direzione funzionale ma anche gerarchica, assunto dal B. nei confronti del personale dipendente dalla società, ruolo che ha ritenuto ontologicamente incompatibile con un rapporto libero professionale, configurandosi lo stesso quale espressione di una catena gerarchica nella quale risultava necessariamente inserito il soggetto  sovraordinato il quale, a sua volta, proprio in ragione del potere di direzione e controllo attribuitogli nei confronti dei dipendenti della società, non può ritenersi sganciato da ogni rapporto di dipendenza gerarchica con quest’ultima».

In aggiunta la Corte aveva riconosciuto l’esistenza di ulteriori “sintomi” del medesimo criterio della etero organizzazione tra i quali, ad esempio, l’utilizzo di strumenti aziendali, la presenza quotidiana presso la sede aziendale (circa alcuni degli indici richiamati quali il “rimborso delle spese di trasferta” non sembra tuttavia così decisivo, anzi parrebbe essere un elemento “neutro”), ritenendo comunque così provata la natura subordinata del rapporto.

L’orientamento consolidato della Corte di Cassazione richiede che, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato, sia data prova rigorosa della soggezione del collaboratore al potere direttivo del committente, che è il tratto tipico e distintivo del lavoro subordinato (art. 2094 c.c.). Il ricorso a diversi indici di carattere sussidiario, tra cui anche la circostanza dell’inserimento stabile nella organizzazione del committente è solo eventuale e appunto indiziario. Nella sentenza in commento pare invece che, rispetto a questo principio di buon senso, si sia dato eccessivo rilievo ad uno solo degli indici sussidiari.

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio

 

 

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