La questione sottostante l’incremento dei contratti a tempo indeterminato

di Michele Farina* 

Periodicamente, ogni qualvolta l’Istat o l’Inps rendono noti i dati, per flussi o per stock, relativi ai nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato, si assiste alla querelle eminentemente di carattere politico di leggere tali risultati in chiave di successo o di fallimento di quella parte di interventi legislativi volti a incrementare l’occupazione.

Una lettura che dovrebbe essere fatta, quanto meno da tutti coloro che hanno a cuore il futuro del nostro Paese, anche in prospettiva di lunga durata e non semplicemente sino alle prossime elezioni, è invece necessario che passi attraverso la misurazione di quanti dei nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato siano effettivamente “nuovi” e quanti siano “sostituzioni” rispetto a differenti forme contrattuali.

Nello specifico, tralasciando le trasformazioni di contratti di lavoro da tempo determinato a indeterminato, che potrebbero rappresentare l’iter genuino e naturale di una situazione di crescita professionale, del datore di lavoro e dell’economia in generale, occorrerebbe valutare quanti dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato abbiano sostituito vecchi rapporti di collaborazione, a progetto, libero professionale o di associazione in partecipazione (d’ora in avanti, “sostituzioni”).

Valutazione che sarebbe utile per due tipi di analisi: una prima di breve periodo, relativa ai conti dell’Istituto di Previdenza; una seconda di lungo periodo, volta a preoccuparsi dei livelli delle future pensioni, alla commisurazione delle stesse alle esigenze dei percettori e alle eventuali conseguenze connesse ad un loro maggiore o minore peso sul welfare a carico dello Stato, causa il loro insoddisfacente livello. In ottica della valutazione dell’impatto delle “sostituzioni” sui conti dell’Inps nel breve termine, occorrerà valutare innanzi tutto il periodo 2015 – 2018. Dal 2015 in quanto esordio dello sgravio contributivo previsto dalla Legge 190 del 2014, al 2018 poiché occorre tener conto che i contratti sottoscritti a dicembre del 2015 fruiranno dell’esonero contributivo triennale e vedranno dunque la scadenza del beneficio a dicembre 2018;

Termine che rimane immutato per i contratti sottoscritti sino a dicembre 2016 a seguito della riduzione ad un biennio dell’esonero. Che le “sostituzioni”, nel periodo campionato, generino un minor gettito previdenziale complessivo è innegabile: alla contribuzione del 30,72 % del 2015 (aumentata poi di un punto percentuale per ognuno degli anni a seguire, per arrivare al 33,72% nel 2018) se ne sostituisce una inferiore al 10% per le assunzioni effettuate nel corso del 2015.

La differenza si assottiglia, ma permane comunque, per le assunzioni effettuate nel corso del 2016: le aliquote contributive, infatti, sfruttando l’esonero parziale, oscillerebbero tra il 26,58% circa e il 31,38% circa, a seconda dei settori di inquadramento e della numerosità della forza lavoro, con la maggior parte dei lavoratori interessati collocati verso il dato più basso della forchetta.

L’aspettativa del legislatore sarebbe naturalmente quella che, una volta scaduto il periodo beneficiato, il disavanzo dei flussi previdenziali si trasformi in avanzo (le aliquote piene per i lavoratori dipendenti risultano superiori a quelle della gestione separata) che dapprima copra ed in seguito ecceda le precedenti minori entrate.

Non appare tuttavia peregrina l’ipotesi che, in quelle realtà ove si è gestito con disinvoltura prima un rapporto contrattualizzato in una forma non genuina e poi, alla prima occasione di vantaggio, una trasformazione del rapporto con contratto a tempo indeterminato, con altrettanta disinvoltura possa essere gestita, una volta terminato il vantaggio, una nuova modifica dei contratti stessi verso forme economicamente più convenienti.

Ove ciò accadesse, o meglio, per tutti i rapporti ove questo accadrà, il danno per l’Istituto di Previdenza sarà duplice:

  1. avrà assistito solo alla fase calante del gettito senza poi beneficiare di quella crescente;
  1. avrà accreditato ai fini pensionistici a tutti i lavoratori nuovamente trasformati un triennio/biennio pieno senza aver incassato la corrispettiva copertura economica.

Per quanto attiene alla valutazione di lungo periodo, il fenomeno delle “sostituzioni”, e questo è tanto più vero quanto più l’ipotesi della gestione disinvolta dei rapporti verrà confermata e praticata, genererà una platea di individui con uno storico lavorativo ai fini pensionistici a macchia di leopardo tra le varie gestioni contributive.

Questo storico, connesso alle questioni di incumulabilità tra alcune gestioni e limiti alla totalizzazione, darà origine a pensioni, e pensionati, più poveri, il cui mantenimento sarà in misura maggiore a carico delle casse erariali.

In primo luogo, infatti, occorre rammentare che i contributi versati alla Gestione Separata dell’Inps, quanto meno sulla base delle norme ad oggi in vigore, non possono essere ricongiunti ad altra cassa o fondo di previdenza, in special modo al Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti.

L’anzianità contributiva alla suddetta gestione, pertanto, sarà basilare per comprendere le possibilità e la tempistica di accesso al beneficio pensionistico.

Ai fini del ragionamento che interessa, non occorre esporre tutte le combinazioni e i requisiti necessari per accedere alla pensione (vecchiaia o anzianità, età anagrafica del lavoratore o della lavoratrice).

Occorre rammentare, invece, quali siano le condizioni che, calate in una storia contributiva frammentata tra le diverse gestioni, possano penalizzare il lavoratore. In primo luogo, l’anzianità contributiva minima richiesta oggi, salvo il rimedio penalizzato, di cui a breve, è pari a 20 anni di contribuzione a condizione che l’importo della pensione risulti essere non inferiore a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale.

È facile intuire che sia proprio il requisito dell’anzianità contributiva minima a rischiare di non essere raggiunto nella fattispecie presa in considerazione.

In mancanza di questo, non si perderebbe il diritto in assoluto: con una anzianità minima di cinque anni, infatti, si potrà accedere alla pensione, ma occorrerà attendere per il triennio 2016 – 2018, i 70 anni e 7 mesi: per il biennio 2019 – 2020, sulla base dell’incremento della vita attesa, si dovrebbe attestare a 71 anni, per crescere ulteriormente in futuro. Nella speranza che il lavoratore o la lavoratrice in questione, emigrati da una gestione previdenziale all’altra nel corso della loro vita lavorativa, riescano a raggiungere l’età necessaria conservando la propria capacità lavorativa o in alternativa avendo di che mantenersi.

Rimarrebbe al lavoratore/lavoratrice la possibilità di effettuare una ricongiunzione contributiva delle altre gestioni eventualmente finanziate durante la propria vita lavorativa presso la Gestione Separata. Con il rischio di incorrere, però, in tre ostacoli.

Il primo è che l’anzianità cumulata alle altre gestioni potrebbe comunque non essere sufficiente a garantire comunque l’erogazione di una pensione.

Il secondo è che la ricongiunzione potrebbe essere effettuata solo se la Gestione Separata sarà quella deputata a erogare la pensione. Terzo ed ultimo, ma non per questo da meno, il meccanismo della ricongiunzione prevede un esborso da parte del richiedente. Trattandosi, poi, di un soggetto con scarse certezze lavorative, la valutazione inerente la scelta di effettuare la ricongiunzione potrà essere effettuata solo verso la fine della vita lavorativa, esattamente nel momento in cui l’operazione diviene più costosa perché è più vicino è il momento della liquidazione della pensione.

Ultima eventuale possibilità potrebbe essere quella della totalizzazione, rimedio particolarmente utile per chi possa vantare una anzianità rilevante alla gestione separata, ma non sufficiente per averne i requisiti.

Anche in questo caso, naturalmente, sussistono ostacoli e penalizzazioni, pur essendo una operazione gratuita.

La totalizzazione, in primo luogo, prevede esclusivamente il calcolo della pensione con il sistema contributivo: darà dunque origine a pensioni di importi più bassi rispetto a quelle calcolate con il sistema retributivo o misto.

In secondo luogo, prevede l’esclusione dei periodi di anzianità presso le diverse gestioni inferiori ai tre anni.

Con la conseguenza che, ove esistessero, detti periodi di anzianità e i relativi contributi versati verrebbero persi. Ipotesi non accademica se riferita ai lavoratori assunti esclusivamente per fruire dello sgravio parziale biennale istituito dalla legge di Stabilità per il 2016 (legge 208/2015) e poi maliziosamente ricollocati.

In conclusione di queste poche considerazioni, attesa la possibilità che il meccanismo “sostituzione” crei un calo dei flussi previdenziali nel breve periodo senza incrementi dello stesso nel medio/lungo periodo, pensionati più poveri o con accesso procrastinato pesantemente nel tempo alla pensione, la necessità di analisi del fenomeno, per perfezionare lo strumento ed adottare gli accorgimenti del caso, rappresenta un interesse al funzionamento del sistema che va oltre all’effimero successo o insuccesso politico del momento.

*ODCEC Roma

 

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