L’orario di lavoro

di Paolo Pizzuti*

Premessa

La legge definisce l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” (art. 1, comma 2, lett. a, D.Lgs. n. 66/2003).Tale nozione di orario di lavoro si presenta più ampia rispetto a quella precedente di cui al Regio Decreto Legge n. 692 del 1923 (art. 3), che definiva orario di lavoro quello “che richiede un’applicazione assidua e continuativa”; la stessa norma aggiungeva che “non sono comprese nella dizione di cui sopra quelle occupazioni che richiedono per la loro natura e nella specialità del caso, un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia”. In conseguenza dell’esclusione dal computo dell’orario di lavoro dei cosiddetti lavori discontinui, nel nostro ordinamento si era affermata una nozione di “lavoro effettivo” la cui caratteristica principale veniva individuata nella continua disponibilità richiesta al lavoratore (Cass. 2 aprile 1986, n. 2268; Cass. 19 febbraio 1983, n. 1462).

Nella nuova disciplina, invece, le attività discontinue o di semplice attesa e custodia vengono esplicitamente escluse solo dalla durata settimanale (art. 16, D.Lgs. n. 66/2003); rispetto alla definizione previgente, la nozione di orario di lavoro introdotta dal D.Lgs. n. 66/2003 è quindi più ampia, comprendendo anche quei periodi in cui il lavoratore è (a) sul luogo di lavoro, (b) a disposizione del datore di lavoro e (c) nell’esercizio delle sue attività o funzioni, anche se non stia effettivamente lavorando(2). Per tale ragione la Corte di Giustizia ha ritenuto compresi nell’orario di lavoro i periodi in cui il lavoratore è obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo indicato dal datore e a tenersi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria attività in caso di necessità (Corte di Giustizia sent. 9 settembre 2003, n. 151/02).

(2) Una conferma dell’accezione allargata della nozione di orario di lavoro è data anche dalla Circo- lare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro secondo cui “l’attuale formulazione ha una accezione certamente più ampia, così come ha chiarito la stessa Corte di Giustizia Europea, che ha ritenuto compresi nell’orario di lavoro i periodi in cui i lavoratori sono obbligati ad essere fisicamente presenti sul luogo indicato dai datori di lavoro e a tenervisi a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la loro opera in caso di necessità”; v. anche la risposta del Ministero del Lavoro nell’interpello n. 15 del 2 aprile 2010.

Del resto, l’espressione “nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” rappresenta una formula ampia che indica una precisa volontà legislativa di considerare non solo l’attività lavorativa in senso stretto, ma un concetto più esteso, che comprende operazioni funzionali alla prestazione (Cass. 8 febbraio 2012, n. 1817). Ad esempio, l’espletamento del servizio di guardia viene considerato rientrante nell’orario di lavoro, se effettuato sul luogo di lavoro, anche qualora all’interessato sia consentito riposare durante i periodi in cui non è richiesta la sua attività (Corte Giust. CE, 9 settembre 2003, Causa C-151/02; Corte Giust. CE, 3 ottobre 2000, Causa C- 241/99; Corte Giust. CE, 5 ottobre 2004, cause riunite C- 397/01 e C- 403/01; Corte Giust. CE, 11 gennaio 2007, C-437/08). In linea generale la nuova nozione di orario di lavoro fa si che nel calcolo della durata della prestazione debbano essere inclusi anche i periodi durante i quali il dipendente è soggetto ad un obbligo di permanenza sul luogo di lavoro e, anche se impegnato in attività di intensità variabile con intervalli notevolmente prolungati, è comunque tenuto a mantenersi costantemente a disposizione del datore di lavoro.

Il tempo-tuta

Come è noto, per tempo-tuta si intende il tempo impiegato dal lavoratore per indossare la divisa aziendale. Il dubbio sorge circa la possibilità di far rientrare queste attività preparatorie nell’orario di lavoro con conseguente onere retributivo da parte del datore di lavoro.

La giurisprudenza si è espressa in modo uni- forme sulla questione in esame sottolineando che per valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba esse- re retribuito è necessario fare riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, se il lavoratore può scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa, la relativa attività farà parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa e come tale non dovrà essere retribuita; mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, rientrerà nel lavo- ro effettivo e di conseguenza il tempo necessario a vestirsi sarà retribuito (Cass. 21 ottobre 2003, n. 15734).

L’elemento essenziale che permette di includere il tempo tuta nell’orario di lavoro risulta, pertanto, l’eterodirezione, cioè lo svolgimento dell’attività in ambiente di lavoro con la possibilità del datore di controllarne puntualmente il tempo ed il luogo di esecuzione (Cass.10 settembre 2010 n. 19358).

Servizi di guardia e di reperibilità

La problematica della configurabilità del servizio di guardia nell’orario di lavoro si è posta in modo puntuale con la sentenza del- la Corte di Giustizia del 9 settembre 2003 n. 151. Come detto, la Corte di Giustizia ha precisato che il servizio di guardia che il me- dico svolge in un regime di presenza fisica obbligatoria in ospedale (e quindi sul luogo ove si presta l’attività lavorativa) va considerato rientrante nell’orario di lavoro anche qualora all’interessato sia consentito riposare sullo stesso luogo di lavoro.

Un discorso a parte, invece, va fatto per quanto concerne il servizio di reperibilità. Sul punto l’orientamento dominante tende a separare il periodo di reperibilità dall’orario di lavoro, in quanto, seppur presente il requisito della “messa a disposizione” a favore del datore, mancherebbero gli altri due elementi di cui all’art. 1 del D. Lgs. n. 66 del 2003 (ovvero che il lavoratore sia sul luogo di la- voro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, requisiti che non ricorrono per il lavoratore reperibile).

L’autonomia collettiva, inoltre, tende a riconoscere ai lavoratori in regime di reperibilità non una vera e propria retribuzione, ma una semplice indennità, al fine di compensare il disagio patito dal lavoratore. Lo stesso Mini- stero del lavoro (interpello n. 13 del 2008), richiamando una consolidata giurisprudenza europea (Corte Giustizia CE 3 ottobre 2000, n. 303; Cass. 7 giugno 1995, n. 6400), ha ribadito che il servizio di mera reperibilità non rientra nell’orario di lavoro se non per il tempo in cui comporta l’effettiva prestazione lavorativa.

 

Il tempo di viaggio e trasferta

Altra questione è quella della computabilità o meno del cosiddetto tempo viaggio nell’orario di lavoro.

Al riguardo, l’art. 8 del D.lgs. n. 66/2003, disciplinando le pause, espressamente prevede che “salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all’art. 5, R.D. 1955 e successivi atti applicativi di cui all’art. 4, R.D. 1956 e successive integrazioni”. (3)

In forza di questa norma, il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro viene escluso dalla nozione di orario effettivo, anche se, come detto, lo stesso art. 8 del D. lgs. n. 66/2003 fa salve le “diverse disposizioni dei contratti collettivi”. La giurisprudenza a tal proposito ritiene che il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro rientri nell’attività lavorativa vera e propria allorché sia funzionale rispetto alla prestazione (Cass. 11 aprile 2003 n. 5775; Cass. 22  marzo 2004 n. 5701). Il principio della funzionalità sussiste nel caso in cui il lavoratore, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgere la sua prestazione di lavoro (Cass. 14 marzo 2006, n. 5496); il tempo in questione, di carattere funzionale ovvero necessario per lo svolgimento dell’attività lavorativa rientra nell’orario di lavoro e deve essere retribuito (Cass. 22 marzo 2004, n. 5701).

(3) L’elencazione dei periodi che non possono essere considerati di lavoro, contenuta dell’art. 5,R.D. n. 1955/1923, non è esaustiva: così Cass. 9 3, n. 5544.

Diversa, ovviamente, è l’ipotesi dell’invio in trasferta con percezione della relativa indennità. Il tempo impiegato giornalmente dal lavoratore per raggiungere la sede di lavoro durante il periodo della trasferta – salvo diversa previsione contrattuale – non può considerarsi impiegato nella esplicazione dell’attività lavorativa vera e propria e non si somma quindi al normale orario di lavoro; questo tempo viene di solito compensato con l’indennità di trasferta, la quale è diretta a monetizzare il disagio psicofisico e materiale dato dalla fatica degli spostamenti (Cass. 3 febbraio 2000, n. 1170; Cass. 10 aprile 2001, n. 5359; Cass. 3 febbraio 2003, n. 1555; v. anche interpello del Ministero del lavoro n. 15 del 2 aprile 2010).

* Associato di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi del Molise ed Avvocato in Roma

 

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