Piacere sono..lo psicologo del lavoro

di Simone Romano* 

Il taglio di questo articolo risulterà forse un po’ diverso dagli altri e il motivo è semplice: qui si parla di psicologia del lavoro, detta anche questa sconosciuta, come scienza centrale per la gestione e lo sviluppo delle risorse umane. Partiamo dall’assunto che il concetto di psicologia applicato al contesto lavorativo può avere tre interpretazioni, per la precisione (Chmiel, 2000):

  • del lavoro: quando vogliamo capire, analizzare e modificare la natura dell’attività lavorativa, posta essa in diverse condizioni di attuazione. In questo caso l’attenzione è posta sulle prescrizioni del compito e del ruolo, sulle condizioni di esecuzione, sull’ambiente tecnico, fisico e sociale, sulla persona come agente che si muove avendo dei propri obiettivi e di conseguenza interagisce, comunica e “assorbe” gli effetti lavorativi ed extra lavorativi;
  • delle organizzazioni: nel momento in cui analizziamo le persone come membri di un gruppo (o più gruppi), in che modo funzionano i team e le organizzazioni. L’attenzione qui è sulle percezioni sociali reciproche, sui meccanismi di influenza sociale, sulle relazioni tra gruppi, sui meccanismi di cooperazione, processi di decisione sociale, ecc.;
  • delle risorse umane: concerne le modalità di gestione delle persone dal loro ingresso, al delinearsi di una carriera fino alle diverse forme di separazione dal lavoro. In questo caso è sull’intero ciclo di risorse umane oggetto di analisi.

Per ripercorre “velocemente” le tappe che hanno portato il mondo del lavoro a creare quest’ambito di studio faremo un piccolo viaggio che parte nel secolo scorso. Di fronte ai fenomeni della seconda rivoluzione industriale le imprese hanno assunto forme societarie in linea con i fabbisogni di produzione che le medesime dovevano rispettare per il proprio business. Di fronte a queste necessità, teorici del calibro di Taylor iniziarono a chiedersi come e in che modo si poteva rendere più efficiente un’organizzazione; in questo modo dando vita, in maniera più o meno consapevole, ad un movimento di studiosi di organizzazione aziendale. Ci concentreremo su tre orientamenti, tra i più influenti in questo campo:

  • la teoria scientifica dell’organizzazione del lavoro: prevedeva la standardizzazione delle mansioni lavorative, da ripetere esattamente così come erano state progettate e promosse dalla direzione aziendale, per l’efficacia del processo produttivo. L’eliminazione dei tempi morti, dei movimenti dannosi e inutili per il completamento di un lavoro dovevano essere sostituti da modalità lavorative specifiche per il compito assegnato – la famosa one best way -. Merito dello studioso, tra i tanti, quello di organizzare, tramite un approccio scientifico, il lavoro all’interno del contesto aziendale, di stabilire e pianificare con cura tutte le fasi dei processi produttivi, cercando di ridurre il ripetersi di attività superflue e/o dannose. Di contro, concentrare l’attenzione sul tipo di lavoro e poco sulla persona che lo svolgeva poteva portare a sottovalutare l’importanza della soggettività del lavoratore all’interno della fabbrica, creando, talvolta, diversi malcontenti e situazioni di scarsa efficienza reale.
  • teorie motivazionali: famosi in questo campo gli studi di Mayo che misero in evidenza come la struttura formale di un’organizzazione poteva essere sostituita da un’organizzazione informale, capace di regolarsi per raggiungere gli obiettivi di produzione stabiliti. La novità, rispetto alla precedente teoria, sta nel fatto che le aspettative produttive e le aspettative sociali della vita in azienda si intrecciano. In questo modo dando vita a fenomeni di coesione e identità lavorativa, mostrando la chiara capacità dei gruppi di autoregolarsi anche senza un’eccessiva supervisione. Non vi è in queste teorie uno scollamento dal mondo di Taylor. La differenza è che si mette in luce, in maniera scientifica, la necessità di far combaciare le motivazioni delle persone con le aspettative della direzione aziendale, in modo tale che gli stili manageriali presenti in fabbrica non limitino la soggettività dell’individuo, anzi, la sprigionino in maniera funzionale agli obiettivi comuni.
  • teorie sistemiche: altra pietra miliare e, dunque, passaggio storico-scientifico importante per la ricerca nelle risorse umane è la nascita delle teorie sistemiche. Il concetto alla base è che tutti gli elementi di un sistema sono in relazione tra essi e si influenzano vicendevolmente. Definisce l’organizzazione come sottosistemi tra loro interagenti in cui il grande sistema dell’azienda rappresenta un sottosistema della realtà sociale nel quale si trova ad agire; la realtà in cui quella specifica impresa si muove, tende a modellare e da cui si nutre. In questo senso si vuole mettere in risalto come esista un’interdipendenza tra i sistemi e l’ambiente, che l’organizzazione funziona come una realtà superiore della somma delle sue singole parti. Questi presupposti diedero il la per la nascita di diverse teorie e modi di interpretare questo sistema di relazioni. Vale la pena sottolineare il contributo di Edgar Schein rispetto all’importanza della condivisione di valori e assunti che le persone appartenenti a una data organizzazione sviluppano, al fine di adattarsi al contesto in cui operano modellando i propri comportamenti sulla base dei vincoli che incontrano. La sua cultura organizzativa pone l’accento sullo sviluppo di modelli comportamentali all’interno di un’impresa, che rappresentano le risposte apprese e agite dal gruppo in un determinato ambiente in risposta ad un particolare vincolo e/o obiettivo.

Come si potrà notare la maggior parte delle teorie e dei teorici presentati sono nati, si sono affermati e hanno condotto i loro studi in contesti angloamericani, permeati dello stimolo di rendere sempre più efficienti i processi aziendali nell’ottica di massimizzare la produzione, anche attraverso la motivazione che spinge le persone a migliorare e migliorarsi. La domanda sorge spontanea a questo punto: come si è diffusa nel nostro paese e chi sono gli artefici di questo processo? La risposta un po’ tutti noi la conosciamo e fa riferimento ad un’azienda in particolare: Olivetti. Piemonte, Ivrea, lettera 25 e tanti altri successi, fili conduttori di un’esperienza unica tra gli anni ’30 e inizio anni ’60 del XX secolo, che hanno modellato il modo di intendere le risorse umane in Italia (nord e sud compreso). Per sintetizzare le tappe e i concetti fondamentali della filosofia aziendale dobbiamo fare una precisazione importante: parliamo di un periodo fortemente scosso dalle guerre mondiali e dalla necessità di ricostruire un mondo dal dopoguerra in poi. L’esperienza di Adriano Olivetti – a mio parere – ha racchiuso un po’ tutti gli elementi delle teorie sopra proposte. La sua azienda produceva macchine da scrivere e questo, naturalmente, prevedeva un approccio taylorista; i suoi dipendenti sono stati tra i primi a sperimentare condizioni lavorative migliori e più in linea con le loro necessità, migliorando l’efficienza aziendale e i risultati aziendali. Questo rappresenta un elemento degli studi della scuola di Mayo; l’Ing. Olivetti aspirava all’idea di comunità, come sistema complesso in cui la fabbrica è un elemento determinante per lo sviluppo delle identità sociali e individuali di ognuno, modello ispirato alla visione delle teorie sistemiche. Elemento distintivo è chiaramente la volontà e la capacità di sostenere tutti questi processi, provando a se stesso e agli altri che agendo secondo determinate teorie si potevano creare condizioni migliori per tutti e in particolare per l’impresa (maggiori profitti e diversi mercati). Gli sforzi che fece Olivetti si concretizzarono nel potenziamento del welfare aziendale, che integrava le precarie politiche statali, sistemi di formazione continua dei lavoratori e dei loro figli, con un’apposita accademy aziendale, il coinvolgimento instancabile dei dipendenti alla vita della fabbrica sia dal punto di vista dello sviluppo tecnico dei loro prodotti sia dal punto di vista sociale, investendo nelle relazioni che davano forma all’impresa (il famoso sensemaking). Possiamo limitarci a sottolineare la presenza di una biblioteca aziendale, asili nido per le donne dell’azienda, mobilità a prezzi rivisti per i dipendenti, case per dipendenti rispettose delle reali condizioni familiari, middle management caratterizzato da figure con background di studi letterari (dunque di stampo maggiormente umanistico). Di spicco l’iniziativa molto importante di fondare il primo ufficio di psicologia del lavoro coordinato da Cesare Musatti e allievi.

Questa breve presentazione ci porta a delineare il quadro in cui si sono definite le leve che uno psicologo del lavoro studia e applica nel momento in cui affronta un contesto organizzativo. Il ciclo delle risorse umane che presentiamo di seguito ci suggerisce gli argomenti che analizzeremo prossimamente.

* Psicologo

 

 

 

 

 

 

 

 

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