È RESPONSABILE DI STRAINING IL DATORE DI LAVORO CHE NON SI ADOPERI PER RISOLVERE LE CONFLITTUALITÀ TRA LAVORATORI (Cass., sez. lav., 04.01.2025 n. 123)
di Bernardina Calafiori e Alessandro Montagna*
La Suprema Corte di cassazione, con la pronunzia n.123 resa in data 6 novembre 2024 e pubblicata in data 4 gennaio 2025, è intervenuta sulla vexata quaestio dei limiti di responsabilità del datore di lavoro in materia di tutela delle condizioni di lavoro e, segnatamente, di salvaguardia dell’integrità fisica e della personalità morale dei prestatori di lavoro.
Il caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte traeva origine dal ricorso di una dipendente che, in via di estrema sintesi, lamentava l’inerzia del datore di lavoro nell’assunzione di iniziative funzionali a neutralizzare il forte clima di conflittualità che caratterizzava le relazioni professionali tra dipendenti e colleghi all’interno dell’ufficio, così addebitando al datore di lavoro stesso la compromissione della propria salute psichica, tanto da richiederne la condanna al risarcimento del danno biologico per l’effetto patito.
La Suprema Corte ha, dunque, colto tale occasione per richiamare alcuni principi enunciati in passato in ordine alla differenza tra la fattispecie dello “straining” e la fattispecie del “mobbing”, statuendo, in linea con la recente giurisprudenza di legittimità, che:
- la fattispecie del “mobbing” si configura allorquando siano presenti sia l’elemento obiettivo, costituito da una serie continua di comportamenti pregiudizievoli per la persona all’interno del rapporto di lavoro, sia l’elemento soggettivo dell’intenzione persecutoria nei confronti della vittima, indipendentemente dalla legittimità intrinseca di ciascun comportamento (Cass. 21 maggio 2018, 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684 e Cass. 7 giugno 2024 n. 15957):
- la fattispecie dello “straining” ricorre allorquando il datore di lavoro ponga in essere comportamenti stressogeni deliberatamente attuati nei confronti di un dipendente, anche in assenza di una pluralità di azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164 e Cass., sez. lav., 7 giugno 2024 n. 15957).
Ciò premesso, la Suprema Corte ha opportunamente rilevato che l’assenza degli indici espressivi di una condotta mobbizzante del datore di lavoro non può automaticamente condurre all’esclusione di una condotta ascrivibile a “straining” di quest’ultimo, posto che le due ipotesi – come detto poc’anzi – sono strutturalmente diverse.
Di qui, dunque, la decisione in commento, secondo cui, pur in assenza dei presupposti necessari a configurare un caso di “mobbing”, ben può configurarsi una responsabilità da “straining” in capo al datore di lavoro per il caso di elevata conflittualità tra dipendenti assoggettati al suo potere direttivo e/o disciplinare:
- sia nel caso in cui “… il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori …”
- sia nel caso in cui il datore di lavoro “… ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprire gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi …”.
A fondamento di tale sua decisione, la Suprema Corte ha, dunque, enunciato il principio in base al quale, ai sensi dell’art. 2087 c.c. “…. la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno di un ufficio impone al datore di lavoro di adottare misure opportune per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, incluso il ricorso al potere disciplinare ….”.
Di qui, dunque, la necessità che il datore di lavoro, al fine di evitare di incorrere in responsabilità risarcitorie, intervenga, se del caso anche disciplinarmente, per mettere in atto azioni correttive tese a neutralizzare l’eccessiva conflittualità tra dipendenti ed il ripristino di un ambiente di lavoro sereno.