IL SALARIO MINIMO “GIURISPRUDENZIALE”
IL SALARIO MINIMO “GIURISPRUDENZIALE”
di Andrea Sella*
Il salario minimo stabilito per legge ha visto un acceso dibattito politico nell’estate e nell’autunno del 2023. Quest’estate sembra più di moda la discussione sullo “ius scholae”. Resta il fatto che la Direttiva che aveva dato lo spunto per la trattazione dell’argomento, la DIR. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, è stata inserita nella Legge 21 febbraio 2024, n. 15 che conferisce la Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee 2022-2023. Il provvedimento è entrato in vigore il 10 marzo 2024 ed entro dodici mesi dovrebbe essere recepita la Direttiva. Quindi non è escluso che l’argomento ritorni di stretta attualità politica.
Oggetto del presente contributo non è però l’approccio normativo.
In proposito, ci si limita ad evidenziare che la Direttiva non obbliga in modo esclusivo gli Stati ad istituire un salario minimo legale, inteso come un minimo comune a tutti i lavoratori, prevedendo, in alternativa, la garanzia dell’adeguatezza dei salari minimi tramite la contrattazione collettiva, obbligando comunque gli Stati membri ad adottare misure per rafforzarla con particolare riferimento ai livelli retributivi. Solo qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva in un Paese risulti inferiore all’80%, è richiesta l’adozione di un piano dettagliato di misure, elaborate in consultazione o concordate con le parti sociali, dirette a elevare progressivamente il suddetto tasso. Non viene neppure imposta l’attribuzione di una generalizzata efficacia dei contratti collettivi.
In Italia, la copertura sindacale degli accordi è, se non corrispondente alla totalità dei settori, molto prossima al 100%, quindi la previsione di un salario minimo legale sarebbe una scelta politica e non una imposizione sovranazionale.
Nel nostro Paese, in realtà, la discussione sul salario minimo o, più correttamente, adeguato non si è mai sopita nella giurisprudenza giuslavoristica che, in occasione dell’emanazione della citata Direttiva, ha avuto nuovo slancio e nuovi spunti argomentativi.
Non è possibile trascurare il fatto che il fondamento della retribuzione “adeguata”, nella nostra civiltà giuridica deriva dalla Costituzione che all’art. 36 prevede il diritto “in ogni caso” ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Ovviamente, tutti i principi vanno declinati nel concreto e la giurisprudenza ha avuto molte occasioni di pronunciarsi.
La prima domanda che ci si pone è quale contratto collettivo prendere a riferimento e quindi adottare.
La risposta è di solito abbastanza scontata, ovvero quello stipulato per un determinato settore, dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Si pone però il problema di capire quali siano, perché la risposta non è in realtà così scontata.
Recentemente, anche l’art. 51, d.lgs. 81/2015 ha stabilito che «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché quelli stipulati dalle loro RSA, ovvero dalla RSU».
E’ noto il problema dei c.d. contratti collettivi “pirata” o dei sindacati detti di comodo o “gialli”.
Un tentativo di arginare il problema è stato fatto con gli accordi interconfederali del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e con il c.d. T.U. sulla rappresentanza sindacale del 2014 e successive integrazioni, i quali hanno in sintesi:
- a) introdotto la misurazione della rappresentatività per allargare la partecipazione negoziale;
- b) assunto come cardine del sistema a tutti i livelli il principio di maggioranza;
- c) adottato lo strumento del controllo “popolare” a livello interconfederale, di categoria e aziendale;
- d) aperto il sistema ad una maggiore aziendalizzazione, prima affidata alla contrattazione di produttività, estendendola alla contrattazione in deroga e ammettendo l’efficacia di contratti anche separati (rappresentatività espressa attraverso le R.S.A.).
Perno del nuovo sistema è la misurazione della rappresentatività sindacale “ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria” (T.U., parte prima, punto 1) affidata all’Inps (per la rilevazione del numero delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori). Spetta ad un comitato di composizione triangolare (un rappresentante del Ministero del lavoro che è anche presidente, due di Confindustria, e poi “tutte le OO.SS. che raggiungano la soglia del 5% di rappresentanza sulla base dell’ultimo dato della rappresentanza certificato”) proclamare il risultato annuale della misurazione e certificazione della rappresentanza “per ogni singolo contratto nazionale censito”. La soglia di rappresentatività per l’ammissione al tavolo delle trattative nazionali è fissata al 5%.
Nella prassi giurisprudenziale, a quanto consta, tale meccanismo non ha trovato grande applicazione con riferimento alla verifica della rappresentatività delle Organizzazioni Sindacali da considerare maggiormente rappresentative in funzione della adeguatezza dei livelli retributivi previsti nei rispettivi contratti collettivi.
La giurisprudenza tradizionalmente ha declinato l’art. 36 Cost., evidenziando la necessità di cercare parametri di riferimento che per lo più sono stati individuati nella contrattazione collettiva nazionale di categoria ma anche territoriale o aziendale, ritenuta, in via presuntiva, indice di proporzionalità e sufficienza del trattamento retributivo.
In ipotesi di rapporti non tutelati da uno specifico contratto collettivo, il giudice può utilizzare la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell’attività svolta dal datore di lavoro o, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe.
Ma anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro applichi un contratto proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta, il giudice può richiamare la disciplina di un contratto collettivo diverso e quindi anche quello di categoria non applicandolo direttamente, ma prendendolo a riferimento per la determinazione della retribuzione costituzionalmente adeguata.
Vi sono poi altri parametri che possono essere considerati quali le caratteristiche in concreto dell’attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi.
Pertanto il giudice gode di una certa discrezionalità nella scelta dei canoni da considerare, purchè motivi adeguatamente i criteri seguiti.
È evidente quindi che anche la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi costituzionali.
Ne discende anche che è onere del lavoratore allegare il tipo di lavoro svolto, la paga ricevuta nonché le motivazioni che ritengono inadeguato il trattamento praticato nei suoi confronti in raffronto con la contrattazione collettiva applicata.
Piuttosto numerose sono le decisioni sul tema, con riguardo al lavoro in cooperativa, in applicazione del riferimento normativo previsto dall’art. 3,1° comma, della legge 142/2001, dove è previsto un espresso rinvio ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.
Anche in tali casi la giurisprudenza ha ribadito il proprio ruolo nell’interpretazione dei canoni costituzionali rispetto al salario previsto dalla normativa di riferimento sopra richiamata.
Il dibattito sul salario minimo, almeno dal punto di vista giurisprudenziale ha avuto recenti riscontri con riferimento al settore della vigilanza e del portierato che in certi punti si sovrappongono, ma con differenti livelli retributivi e con diversi contratti collettivi astrattamente applicabili.
La giurisprudenza di merito sul punto si è dimostrata piuttosto restrittiva.
Per tali motivi, vasta eco hanno ricevuto le Sentenze della Cassazione n. 27711 del 2 ottobre 2023, n. 27713 e n. 27769/2023[1].
Tali Sentenze hanno avuto modo di ribadire tra l’altro che il giudice:
- può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, eventualmente mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale;
- quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato, può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271 del 10/06/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice;
- può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art. 2070 c.c., e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (sentenza Cass. n. 7157 /2003, Sezioni unite n. 2665/1997);
- fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017, Cass. 2758/2006, Cass. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).
- il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 1987/2791, Cass. n. 1985/2193, Cass. n. 24449/2016).
Più volte i giudici hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. nn. 14211/2001, 5519/2004, 27591/2005, 24092/2009, 3918/1982).
Inoltre, come già rilevato nella sentenza n. 24449/2016, a seguito del mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita, è stato ritenuto legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’art. 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”.
La novità delle recenti sentenze della Cassazione sopra richiamate sta nel riferimento esplicito al considerato n. 28 della direttiva UE 2022/2041, secondo il quale «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali», rendendo più moderno il concetto di vita libera e dignitosa, ricomprendendo non solo la mera sussistenza ma anche la realizzazione di una vita sociale altrettanto degna ed adeguata.
Resta sullo sfondo l’aspetto delle allegazioni dei motivi in fatto da porre a base della decisione che il lavoratore ha l’onere di esporre. Tuttavia, con riferimento a tale onere ed in generale a quello probatorio i citati arresti giurisprudenziali hanno chiarito che, “in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento. Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002)….omissis…” “Inoltre, la violazione dell’art. 36 Cost., è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979, sul punto anche Cass. n. 1255 del 1976 e n. 2380 del 1972)”.
Su solco della recente giurisprudenza della Cassazione, si ritiene di dover segnalare la Sentenza della Corte di Appello di Torino del 6 giugno 2024 n. 237 che ha avuto modo di valorizzare la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni quale parametro di adeguatezza della retribuzione, raffrontando due diversi CCNL per quanto in settori affini.
Il caso riguarda un lavoratore a cui era applicabile il CCNL ANISA, relativo tra l’altro agli addetti alla sicurezza antincendio sulle autostrade, in rapporto al CCNL ANGAF relativo all’analogo servizio delle c.d. Guardie ai Fuochi, in pratica il servizio antincendio in porti, autostrade, luoghi privati, ecc.
Occorre premettere che il CCNL ANGAF è stato adeguato nel 2019 con un aumento della retribuzione pari alla svalutazione monetaria rispetto alla precedente tornata, mentre il CCNL ANISA è stato rinnovato solo nel 2022 per un importo decisamente inferiore e non prevedeva alcun sistema di indennizzo della c.d. vacanza contrattuale in attesa dei futuri rinnovi, che nel caso specifico mancavano dal 2011.
La Corte d’Appello ha quindi fatto espressa e piena applicazione dei principi richiamati dalla citata giurisprudenza della Cassazione del 2023, prescindendo da parametri rigidi e teorici quali la soglia di povertà dell’Istat, ma ha dato particolare rilievo al tempo intercorso tra le tornate di rinnovo contrattuale e alla mancanza di adeguamento delle retribuzioni rispetto all’aumentato costo della vita.
Che tale soluzione non fosse scontata è reso evidente dal fatto che il Tribunale in primo grado aveva respinto la domanda, rifacendosi ad una impostazione concettuale più tradizionale ma certamente più rigida.
Si può pertanto affermare che, forse sulla spinta della Direttiva citata, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora che di merito, abbia voluto rimarcare e legittimare il proprio ruolo di “regolatore” dell’adeguatezza della retribuzione rispetto ai canoni costituzionali, forse volendo chiarire che un vero e proprio salario minimo di fonte legale non è così necessario e, se vi sarà, probabilmente la giurisprudenza rivendicherà anche in futuro la propria funzione interpretativa in chiave costituzionalmente orientata della normativa qualora introdotta.
*Avvocato in Biella
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[1] Vedasi, tra gli altri, “Il Lavoro nella Giurisprudenza 11/2023 con nota di Milena d’Oriano – La Cassazione sul salario minimo costituzionale: squarciato il velo sul lavoro “povero”, pagg. 1032 ss.