LA MALATTIA SOCIAL DI CHI SOCIAL NON È…
*di Maurizio Centra
Sono almeno dieci anni che la parola social è entrata nel vocabolario della lingua italiana, tanto che non si può più considerare un neologismo ma un aggettivo di cui pochi si chiedono il significato, perché è noto e utilizzato nella vita di tutti i giorni. Al riguardo, l’autorevole vocabolario Treccani ha coniato la definizione: “che utilizza la rete come luogo di condivisione e scambio di informazioni ed esperienze”.
Chi mi conosce potrà stupirsi che mi accinga a parlare di un evento social e non di una delle (poche) materie sulle quali posso esprimere un parere professionale di qualche utilità, ma mi sono concesso questa libertà perché mi è accaduto un fatto che avrebbe potuto impedirmi di stare qui adesso a tediare chi sta leggendo queste righe “sulla fiducia”.
Ebbene, in un caldo lunedì di luglio 2023, mentre stavo in ufficio – come “da copione” – ho iniziato ad avvertire un forte dolore al fianco destro che progressivamente aumentava, al punto di impedirmi di respirare regolarmente. All’arrivo di mia sorella, anche lei Commercialista, mi sono fatto accompagnare nel più vicino ospedale (San Giovanni) dove, sebbene non emettessi alcun lamento (si sa che gli uomini non piangono mai!), sono stato ricoverato in codice rosso. Fortunatamente sono capitato in uno di quegli ospedali pubblici emblema della malasanità italiana, dove non saprei dire quanti accertamenti diagnostici mi abbiano fatto (ecografie, TAC, radiografie, ecc.) e in alcuni casi ripetuto, per arrivare a una diagnosi attendibile. In realtà mi hanno anche somministrato degli antidolorifici, il cui effetto però è stato quasi nullo sul dolore, che definire lancinante è un eufemismo. Dopo diverse ore di accertamenti, analisi e controlli, la diagnosi in corso di formazione oscillava tra l’infezione delle vie biliari e i calcoli alla colecisti, in entrambi i casi in fase acuta.
All’ora in cui un professionista di norma va a dormire, dopo una giornata di lavoro, io, ancora con la “divisa di ordinanza” (giacca beige, pantaloni blu e cravatta ripiegata in una tasca), sono andato a fare l’ultima visita medica prevista dal protocollo del pronto soccorso, ossia quella con lo specialista in chirurgia d’urgenza. Ormai in barella e con divieto di alzarmi, sono stato portato al cospetto di una chirurga la quale, non trovando correlazione tra i responsi degli accertamenti strumentali e le mie condizioni, ha avuto un’intuizione medica che, di fatto, mi ha salvato la vita. Per farla breve, alle tre di notte sono entrato in camera operatoria e alle sei di mattina ne sono uscito, senza la colecisti ma in buone condizioni generali.
Fin qui di social c’è ben poco, ma la premessa era necessaria per poter illustrare gli eventi seguenti.
A causa della mia natura riservata, almeno per le faccende personali, e del fatto di essere ricoverato in un reparto di chirurgia d’urgenza (per me eccellente) con accesso contingentato, ho chiesto ai miei cari di non diffondere la notizia del ricovero e, men che meno, del rischio che avevo corso. Ed è qui che scatta l’aspetto social della faccenda. In men che non si dica, la notizia ha iniziato a circolare e, con l’utilizzo degli strumenti adatti a chi, come me, social non è (es. telefono e WhatsApp) sono stato letteralmente “sommerso” da messaggi, incitazioni, auguri, dimostrazioni di affetto e disponibilità a fare qualcosa per aiutarmi sul lavoro. D’altra parte la mia agenda era piena di impegni che andavano onorati ed è stato grazie a mia sorella, alle mie collaboratrici e ad alcuni dei miei “amici colleghi” se tutto è andato per il meglio.
Con il passare dei giorni si è creata una rete informale nella quale amici, colleghi, parenti e clienti si scambiavano informazioni sulle mie condizioni di salute, tanto che ho temuto che di lì a poco qualcuno aprisse una pagina Facebook o creasse un gruppo WhatsApp, per favorire la condivisione delle notizie.
Mai avrei immaginato che un evento tanto personale come una malattia potesse determinare una partecipazione così spontanea e, nei limiti del possibile, attiva. Tant’è che dopo l’iniziale ritrosia, mi sono “concesso” alle sollecitazioni della mia rete ed ho fornito quotidianamente notizie sul decorso post operatorio. Ma il contatto digitale, si sa, ha i suoi limiti ed è così che a distanza di due settimane dall’evento, in un sabato pomeriggio caldo ma non afoso, infrangendo – per affetto – le regole ospedaliere, alcuni dei componenti della mia rete si sono presentati nel reparto dove ero ricoverato, senza alcuna certezza
di potermi incontrare. Sarà che la fortuna arride agli audaci o più semplicemente che le mie condizioni non mi imponevano di stare a letto, ma in poco tempo ci siamo ritrovati in un ampio corridoio, con finestre su entrambi i lati che garantivano una piacevole ventilazione naturale, a parlare degli argomenti più diversi e ad accogliere altri “disobbedienti” che nel frattempo arrivavano. Così Stefania, Fabio e Lorenzo, che mai si erano incontrati prima, discutevano amabilmente tra di loro e con gli altri come se lo avessero sempre fatto, chiedendo anche al mio “dirimpettaio di letto” Leonardo indiscrezioni sulla mia vita da paziente…
In quel contesto così diverso dall’usuale, eppure così simile – mutatis mutandis – a tante altre discussioni a carattere conviviale, mi sono tornate in mente, come in un flash back, alcune di quelle riunioni estive del dopo cena nei luoghi della mia infanzia, quando la socialità non conosceva ancora gli strumenti digitali e si basava sulla trasmissione orale di storie, idee e aneddoti di vita quotidiana. Come gli incontri sulla piazza nova di Bomarzo (in realtà piazza Garibaldi), dove gli habitué si portavano da casa la seggiolina pieghevole in legno, all’epoca costruita in Italia ma con legname di importazione, e dove chiunque passasse si fermava e aggiungeva i suoi racconti a quelli degli altri. Ma anche le fresche serate ad Ospitale di Cadore, dove si intrecciavano il ladino italianizzato dei residenti, il tedesco farcito di parole italiane degli altri ospiti, parole rese internazionali non solo dalla lirica e dalla letteratura, ma anche dai film e dalla pubblicità, e il nostro italiano romanizzato, in una fusione lessicale che, complice la mimica, rendeva inutile l’esperanto! Oppure le lunghe serate nella nostra casa di campagna nel frusinate, dove mio padre aveva fatto costruire un ampio pergolato in legno, sotto al quale le parole fluivano rapide e leggere, come le fresche bevande di acqua e sciroppi ai gusti di menta, orzata, amarena e tamarindo, che erano preferite a qualunque altro prodotto e ci sembravano sempre uguali eppure ogni anno diverse, come taluni racconti che si arricchivano di particolari o perdevano qualche protagonista rispetto all’anno precedente.
Si può stare bene in un corridoio d’ospedale? Non mi ero mai posto prima d’ora questa domanda, ma dal leggero sorriso sul viso di mia sorella, seduta accanto alla figlia più grande impegnata nella conversazione generale, ho dedotto che stesse pensando, come me, “il peggio è passato”, quindi si può stare bene anche in un corridoio d’ospedale ed è bello avere tante persone con cui condividere questa sensazione, con qualunque sistema social, compresi quelli di una volta!
*Odcec Roma
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