PER GARANTIRCI UN FUTURO PREVIDENZIALE SERENO SIAMO ANCORA IN TEMPO
PER GARANTIRCI UN FUTURO PREVIDENZIALE SERENO
SIAMO ANCORA IN TEMPO
Nell’ultimo trimestre dell’anno in Italia l’argomento della Legge di Bilancio diventa di estrema attualità, non solo nel dibattito tra politici e/o addetti ai lavori, ma anche nelle conversazioni tra comuni cittadini. Tale legge, come è noto, è prevista dall’art. 81 della costituzione (“lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio” – omissis) e la sua redazione inizia – ogni anno – con la comunicazione che il Governo deve fare al Parlamento, circa le previsioni di entrata e di uscita dell’anno successivo.
Molto più di altri provvedimenti legislativi, la Legge di Bilancio genera aspettative, speranze e riflessioni sul futuro dei cittadini, delle comunità e, più in generale, del Paese. Lo confermano le frasi ad effetto che vengono usate per illustrarne le caratteristiche o i possibili effetti, come “finanziaria di lacrime e sangue”, “assalto alla diligenza”, “equilibrio sociale trascurato”, “previsione di crescita irrealistica”, “aspettative tradite”, ecc. A ciò si aggiunga che, visti i commenti e le riflessioni scaturite dall’analisi della recente Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (NADEF), presentata alle Camere dal Governo entro il 27 settembre 2024, non sarà certo l’anno in corso a fare eccezione, tutt’altro!
Considerando, da un lato, che sempre l’art. 81 della costituzione non consente di introdurre con la Legge di Bilancio nuovi tributi e nuove spese, a differenza di quanto può accadere con la Legge di stabilità, e impone che ogni (diversa) legge che importi nuovi o maggiori oneri deve prevedere la relativa copertura finanziaria, e, dall’altro lato, che il nuovo Patto di Stabilità dell’Unione Europea ha previsto in 4 anni (estendibili a 7), il tempo a disposizione di ciascuno stato per risanare i conti pubblici e ricondurre il deficit sotto il 3% del Prodotto interno lordo (Pil) nonché il debito pubblico sotto il 60% del Pil, quando il debito pubblico del nostro Paese è più del doppio (137,3% del Pil al 31 dicembre 2023) e nel mese di luglio 2024 ha sfiorato i 2.950 miliardi, è facile prevedere che quest’anno il compito del Governo per far “quadrare i conti” sarà piuttosto arduo.
La riduzione del rapporto tra il debito pubblico (numeratore) e Prodotto interno lordo (denominatore) è più agevole se il contenimento delle spese non essenziali è associato a un aumento del Pil, ma questa ipotesi non sembra potersi verificare in Italia nel breve/medio periodo, infatti, la crescita attesa del Pil è dell’1% nel 2024 e dell’1,1% nel 2025 (fonte Istat, giugno 2024). Quindi, la riduzione del debito pubblico prevista dal nuovo Patto di Stabilità dell’Unione Europea, che è un obiettivo positivo per il Paese, basti pensare solo alla conseguente riduzione degli interessi passivi, dipenderà in modo considerevole dalla riduzione delle spese, incluse quelle destinate alla previdenza e all’assistenza dei lavoratori, per non parlare della sanità.
In questo contesto non c’è da stupirsi se al Ministero del lavoro e della previdenza sociale è “riapparsa” l’ipotesi di imporre il trasferimento, anche parziale, ai fondi di previdenza complementare del trattamento di fine rapporto (TFR), regolato dall’art. 2120 del codice civile, alle imprese che occupano fino a 50 dipendenti, mentre oltre tale soglia dimensionale l’obbligo già esiste dal 2007, per il 100% del TFR maturato annualmente.
Poiché in gran parte delle imprese di minori dimensioni non sono attive forme di previdenza complementare, l’eventuale obbligo di trasferimento del TFR ne determinerebbe, almeno per i primi anni, il versamento al Fondo di tesoreria dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps), come avviene – in forma piuttosto diffusa – anche nelle imprese di più grandi dimensioni. Questa soluzione, quindi, consentirebbe una riduzione dei trasferimenti – per cassa – di risorse dal bilancio dello stato a quello dell’Inps, per la copertura dei disavanzi di alcune delle sue gestioni. Deduzione che trova conferma nel XXIII Rapporto annuale Inps (settembre 2024), dalla lettura del quale si apprende che l’8% delle pensioni dell’Istituto è di tipo assistenziale e che l’età media di uscita dal lavoro è stata di 64,2 anni nel 2023, contro il requisito anagrafico di 67 anni per la pensione di vecchiaia; requisito che solo dal 2027 sarà adeguato agli incrementi della speranza di vita.
Sebbene dal 1° gennaio 2012 in Italia sia stato introdotto il metodo contributivo di calcolo delle pensioni e, nel contempo, siano state abolite le pensioni di anzianità, ancora oggi, anche a causa di provvedimenti straordinari (es. quota 100/103), tra i lavoratori stenta a diffondersi la consapevolezza della necessità di costituire una copertura previdenziale integrativa di quella obbligatoria, per garantirsi un trattamento pensionistico non troppo inferiore al livello retributivo raggiunto prima del pensionamento. Per questo, al di là dei possibili vantaggi per i conti pubblici, l’estensione dell’obbligo di trasferimento (totale o parziale) del TFR ai fondi di previdenza complementare può costituire una soluzione per diffondere la cultura previdenziale e far capire ai lavoratori che con la sola pensione obbligatoria il loro tenore di vita è destinato a cambiare in peggio una volta “collocati a riposo”.
Senza contare che nei casi di carriere lavorative discontinue, di cambiamenti di regimi previdenziali nel corso degli anni, ad esempio da lavoro dipendente ad autonomo e viceversa, come pure di attività svolte all’estero, c’è il rischio concreto che il trattamento contributivo assicurato dalla gestione obbligatoria non sia in grado di raggiungere il livello economico minimo per un’esistenza libera e dignitosa, con la necessità per lo stato di istituire, in futuro, sistemi di assistenza che finirebbero per ridurre sensibilmente gli effetti della riforma previdenziale del 2012 (legge 12 novembre 2011, n. 183).
D’altronde, l’Italia è uno dei paesi occidentali con la più alta età media della popolazione e, negli ultimi venti anni, il più basso tasso di crescita dell’economia, come dimostra l’andamento del prodotto interno lordo. L’aumento dell’età media è dovuto in massima parte alla riduzione delle nascite e all’innalzamento dell’aspettativa di vita che, assieme, costituiscono vere e proprie “mine” del sistema di previdenza pubblica. Le modifiche introdotte negli ultimi anni hanno comportato che le pensioni calcolate integralmente con il sistema contributivo sono più basse di quelle calcolate con il previgente sistema retributivo, in rapporto all’ultima retribuzione percepita (c.d. tasso di sostituzione). Con il mutamento del sistema di calcolo dei trattamenti pensionistici, il legislatore ha previsto una serie di istituti volti non a sostituire ma a integrare il sistema pensionistico pubblico, dei quali i fondi di previdenza complementare sono il “perno centrale”. Il primo intervento significativo in materia di previdenza complementare è stato il decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124 “Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’art. 3, comma 1, lettera v), della legge 23 ottobre 1992, n. 421”, cui ha fatto seguito la legge 8 agosto 1995, n. 335 “Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare”, anche se la “riforma delle riforme” si è realizzata con il decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252 “Disciplina delle forme pensionistiche complementari”, che ha avuto il merito di accorpare in un unico testo normativo tutta la disciplina della previdenza complementare, compresi gli aspetti fiscali, al fine di trasformare questa nel “secondo pilastro” del nostro sistema previdenziale.
L’articolo 2 del decreto legislativo n. 252/2005, individua i soggetti che possono aderire, in modo individuale o collettivo, alle forme pensionistiche complementari, ossia i lavoratori dipendenti (pubblici o privati), i lavoratori autonomi, i liberi professionisti e i soci di cooperativa. I fondi pensione previsti dal nostro ordinamento ai quali tali soggetti possono aderire sono:
- fondi pensione negoziali, la cui adesione avviene su base collettiva e trovano istituzione per effetto di contratti e accordi collettivi, anche aziendali, nonché di accordi fra soli lavoratori che, in realtà, sono i meno diffusi;
- fondi pensione aperti, la cui adesione può avvenire su base individuale o collettiva e trovano anch’essi istituzione per effetto di contratti e accordi collettivi, anche aziendali, nonché di accordi fra soli lavoratori ovvero di regolamenti di enti ed aziende, qualora i rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali;
- fondi pensione istituiti dalle Regioni, cui possono aderire i lavoratori dipendenti che svolgono attività lavorativa nel territorio della Regione istitutrice del fondo;
- fondi pensione individuali, la cui adesione avviene su base unicamente individuale e trovano attuazione mediante contratti di assicurazione sulla vita con finalità previdenziale (PIP);
- fondi pensione preesistenti, ovvero fondi pensione già in vigore alla data del 15 novembre
Il finanziamento del sistema di previdenza complementare per i lavoratori dipendenti, che costituiscono la parte preponderante degli aderenti, avviene (ex art. 8 del decreto legislativo n. 252/2005) con quote integrali del trattamento di fine rapporto (TFR) e/o con contributi a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro, la cui entità minima e massima è – di norma – stabilita dai contratti e dagli accordi collettivi, anche aziendali. Gli accordi fra soli lavoratori determinano, invece, il livello minimo della contribuzione a carico degli stessi.
Allo scopo di incentivare l’adesione a forme di previdenza complementare, il decreto legislativo n. 252/2005 prevede agevolazioni tributarie per il lavoratore (aderente) nonché l’obbligo, per i datori di lavoro del settore privato che abbiano alle proprie dipendenze almeno 50 addetti, di versare il TFR dei lavoratori in forza ai fondi pensione, come accennato in precedenza. Per consentire al lavoratore di decidere in modo consapevole la destinazione del TFR, laddove sia già obbligatoria, la normativa vigente consente – entro sei mesi dall’assunzione – di scegliere se farlo a un fondo di previdenza complementare o lasciarlo in azienda, sapendo che nel caso in cui decida di lasciarlo in azienda il TFR è versato ad un apposito fondo dell’Inps, denominato Fondo di tesoreria (citato in precedenza).
Per garantire un futuro previdenziale sereno ai lavoratori italiani, in particolare a quelli nati nel periodo del c.d. boom economico (1959-1963) nel quale il livello delle nascite ha raggiunto il massimo assoluto, i soli interventi in materia di previdenza complementare, potrebbero non essere sufficienti, a causa dell’attuale andamento demografico, illustrato plasticamente da alcuni fatti ben noti, come la “fuga dei cervelli” (emigrazione dei giovani laureati), la riduzione costante della natalità (sei neonati e 11 decessi per 1.000 abitanti), che risulta più sensibile nelle aree interne del mezzogiorno (circa il 5 per mille in meno sull’anno precedente), l’aumento della speranza di vita alla nascita, che ha raggiunto gli 83,1 anni, e l’aumento del popolazione residente straniera, pari a 5 milioni e 308 mila persone al 1° gennaio 2024 (fonte Istat, marzo 2024).
Proprio l’impiego di lavoratori stranieri residenti, congiuntamente ad una politica economica che favorisca la crescita, prevalentemente mediante iniziative di ricerca, sviluppo e innovazione (pubbliche e private), coordinate con quelle degli altri paesi dell’Unione Europea, può costituire l’ulteriore leva per accelerare l’aumento del Pil ed evitare all’Italia il declino che – diversamente – potrebbe essere inevitabile.
Visto che uno dei vantaggi della globalizzazione è quello di poter “attrarre” dall’estero le risorse umane migliori, cosa che già accade, ad esempio, con gli ingegneri indiani nel settore dell’informatica, con una politica migratoria funzionale agli obiettivi di crescita economica si potrebbe non solo “rimpiazzare” i lavoratori che andranno in pensione nei prossimi anni, ma anche accrescere il livello qualitativo delle attività più evolute in settori strategici per il Paese. Nel contempo, con risorse umane di diversa professionalità, si potrebbero anche “riempire” i crescenti vuoti di organico in attività tradizionali, come le costruzioni, i trasporti, il turismo, i pubblici esercizi e i servizi domestici, solo per fare degli esempi.
Ricordando che il sistema della previdenza si basa su previsioni di lungo periodo, prevalentemente attuariali, si ritiene che nel nostro Paese sia possibile – con pochi interventi – migliorarne i livelli di “copertura”, con vantaggi sia per i lavoratori sia per lo stato.
La Redazione
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