Rassegna di Giurisprudenza

di Bernardina Calafiori* e Alessandro Daverio*

RESPONSABILITÀ DELL’INPS PER ERRONEE COMUNICAZIONI AI FINI DELLA MATURAZIONE DEI REQUISITI PER LA PENSIONE DI ANZIANITÀ 

Cass. civ. sez. lav. 17 settembre 2019, n. 23114 

Pensione di anzianità – requisiti contributivi – certificazione INPS – erroneità – concorso colposo dell’interessato – sussistenza – responsabilità dell’Ente 

L’INPS risponde delle erronee comunicazioni della posizione contributiva rese all’assicurato, a seguito di specifica domanda di quest’ultimo, a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 1218, c.c., potendo tuttavia il giudice limitare il risarcimento dovuto nell’ipotesi in cui l’assicurato medesimo – non essendosi attivato per interrompere il processo produttivo dell’evento dannoso, così rassegnando le proprie dimissioni malgrado l’evidente erroneità, riscontrabile sulla base dell’ordinaria diligenza, dei dati contributivi a lui comunicati – abbia concorso al verificarsi del predetto evento, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c.

Un dipendente richiedeva all’Inps la certificazione dei contributi utili al fine della maturazione dei requisiti per l’ottenimento della pensione di anzianità.

Sulla base della documentazione in questione, effettivamente rilasciata dall’Inps al lavoratore, questi rassegnava le dimissioni dal rapporto di lavoro in essere e faceva richiesta allo stesso Istituto di erogazione del trattamento pensionistico.

Successivamente l’Inps comunicava al lavoratore che a seguito di controlli effettuati una parte dei contributi erano stati erroneamente attributi al dipendente e dovevano essere in realtà attribuiti al fratello gemello di questi. Ciò comportava quindi la decorrenza del trattamento pensionistico da un momento successivo a quello fissato nella certificazione e la conseguente restituzione di quanto percepito dal dipendente nel periodo contestato.

Il lavoratore adiva quindi il Tribunale di Bergamo onde richiedere la condanna dell’Inps al risarcimento del danno causato dalla errata comunicazione della propria situazione contributiva al momento delle dimissioni.

Il Tribunale e la Corte d’Appello riconoscevano la responsabilità contrattuale dell’Inps e lo condannavano al risarcimento del danno quantificato nei ratei di pensione che lo stesso Istituto aveva indicato come indebitamente riscossi nonché nelle retribuzioni nette perdute dal momento della cessazione del trattamento pensionistico e fino alla “nuova” decorrenza dello stesso trattamento.

Quindi l’Inps presentava ricorso per Cassazione sostenendo che non vi sarebbe nesso di causalità tra la comunicazione inviata al pensionando e il danno da questi subito, ed inoltre che il lavoratore avrebbe potuto – utilizzando l’ordinaria diligenza – evitare l’ingenerarsi del danno medesimo.

Secondo questa prospettazione il comportamento– o meglio l’omesso controllo – del pensionando sulla certificazione ricevuta costituirebbe non un concorso colposo nella causazione del danno, ex art. 1227, comma 1, c.c. bensì un fattore esclusivo di produzione del danno, portando così all’esclusione della responsabilità dell’ente previdenziale.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che il mancato controllo dell’assicurato circa i dati contributivi comunicatigli dall’Inps costituisca un fatto colposo che concorre a cagionare il danno e pertanto pur sussistendo la responsabilità dell’Ente il risarcimento conseguente debba essere in qualche misura ridotto.

Dice infatti la Corte:

«L’assicurato ha tuttavia l’obbligo di intervenire per interrompere il processo che determina l’evento produttivo di danno quando l’erroneità dei dati forniti dall’istituto sia riscontrabile sulla base dell’ordinaria diligenza, esercitabile nell’ambito dei dati che rientrano nella sua normale sfera di conoscibilità. Qualora egli non si attivi in tal senso e rassegni comunque le proprie dimissioni presentando domanda di pensione malgrado l’evidente erroneità dei dati contributivi a lui comunicati, concorre al verificarsi dell’evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, con la conseguente possibilità per il giudice di limitare il risarcimento dovuto».

Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il danno patito dal pensionando non sia stato causato esclusivamente dal proprio omesso intervento. Infatti, a carico dell’Ente Previdenziale sussiste un vero e proprio obbligo informativo in favore del soggetto pensionando. Detto obbligo è contenuto nell’art. 54 della 9 marzo 1989, n. 88.

 

La Corte fa discendere da questa norma un legittimo affidamento del pensionando in ordine “all’esattezza dei dati fornitigli dalla pubblica amministrazione”. L’affidamento in questione – configurando quindi la responsabilità dell’ente comunque – non determina il venire meno della necessità di un controllo dell’interessato davanti ad errori facilmente individuabili, e ha determinato nella specie una riduzione quantitativa del risarcimento in favore del pensionato (nella specie pari al 30 % delle retribuzioni perdute).

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di Bernardina Calafiori* e Simone Brusa* 

SENTENZA TRIBUNALE DI FIRENZE, 26 SETTEMBRE 2019,

  1. 794: UNA (PERICOLOSA) PRONUNCIA IN MATERIA DI CONTRATTO A TERMINE 

Massima: è nulla una successione di contratti a termine conclusi per soddisfare esigenze stabili e durevoli nonostante il datore di lavoro abbia rispettato i limiti di durata previsti dal d.lgs. n. 81 del 2015. 

Si premette che la sentenza in esame, si riferisce ad un caso di successione di contratti a tempo determinato a cui si applicava la normativa vigente prima delle modifiche introdotte dal c.d. “Decreto Dignità” (e quindi al d.lgs. n. 81 del 2015 senza le modifiche introdotte dal Decreto-legge n. 87 del 2018 convertito con modificazioni dalla Legge n. 96/2018).

In particolare, il caso riguardava un dipendente Poste Italiane assunto con un primo contratto a termine a decorrere dall’11 febbraio 2015 con iniziale scadenza al 30 giugno 2015; il contratto veniva poi prorogato per 5 volte per una durata complessiva di 16 mesi (ultima scadenza 30 giugno 2016). Il numero delle proroghe era quindi rispettoso del limite di cinque previsto dall’art. 21 del d.lgs. 81 del 2015 (nel testo al tempo vigente, oggi il numero di proroghe è ridotto a quattro).

Successivamente, con il medesimo dipendente, l’azienda stipulava un nuovo contratto a termine (rinnovo) dal 12 ottobre 2016 al 31 gennaio 2017 (raggiungendo quindi una durata complessiva di 20 mesi: 16 + 4). Anche tale rinnovo contrattuale era/sembrava rispettoso del dato normativo al tempo vigente in quanto l’art. 21 non prevedeva di per sé limiti ai rinnovi (salvo non superare la durata massima di 36 mesi; oggi invece, in caso di rinnovo, è sempre necessaria la c.d. “causale”).

Il dipendente adiva il Tribunale chiedendo che venisse dichiarata la nullità della successione di contratti a tempo determinato con conseguente conversione in un contratto a tempo indeterminato.

Il Tribunale, nonostante venisse riconosciuto il rispetto dei limiti formali previsti dalla normativa specifica in materia di contratto a tempo determinato (che al tempo erano, in sintesi: massimo 5 proroghe, massimo 36 mesi, senza alcuna indicazione di causale/ motivazione), riteneva sorprendentemente fondata la dedotta nullità della successione di contratti a termine per il solo motivo che essi erano stati “stipulati per soddisfare esigenze stabili e durevoli”.

Nell’interpretazione del Tribunale fiorentino la fonte normativa di tale argomentazione sarebbe da rinvenire nei principi comunitari e, in particolare, nell’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015 (che permane identico tutt’oggi) laddove prevede che: “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”.

La sentenza è da considerare certamente – e probabilmente eccessivamente – “creativa” ma suggerisce, in mancanza di indirizzi giurisprudenziali chiari, la massima cautela nell’utilizzo del contratto a tempo determinato, in particolare e soprattutto dopo le rigide restrizioni introdotte dal Decreto-Legge n. 81/2018 (c.d. Decreto Dignità).

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio

 

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