di Marino Gabellini*

In sede di conversione del Dl 16 settembre 2024, n. 131, la Legge 14 novembre 2024, n. 166, con l’introduzione dell’articolo 16-ter, è stato modificato, con effetto dal 1° gennaio 2025, il trattamento del prestito o distacco di personale ai fini IVA. La norma ha abrogato il comma 35, dell’articolo 8, della Legge n. 67 del 1988, che così disponeva: “35. Non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo.”

Di fatto, il Legislatore è intervenuto per adeguare la normativa italiana alla Direttiva IVA europea, tenendo conto di quanto stabilito con sentenza dell’11 marzo 2020, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la quale, intervenendo in una specifica causa, ha sancito che il distacco di personale costituisce una operazione rilevante ai fini Iva quando sussiste un “nesso diretto tra le due prestazioni”, ovvero tra il servizio reso e il corrispettivo ricevuto, e ricorre “l’onerosità della prestazione” essendo “irrilevante, a tale riguardo, l’importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell’ambito della fornitura della sua prestazione”. Per espressa previsione normativa, l’assoggettamento ad IVA, riguarda esclusivamente i distacchi di personale stipulati per la prima volta a decorrere dal 2025 o rinnovati sempre a decorrere dal 1° gennaio del corrente anno.

In tal modo, sono state fatte salve tutte le fattispecie pregresse (fino al 31/12/2024).

È bene  sottolineare  che la  norma riguarda esclusivamente i prestiti o i distacchi del personale regolati dall’articolo 30 del D. Lgs. n. 276 del 2003, così identificati: “L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.”

Il distacco deve quindi essere giustificato da un interesse proprio del distaccante, anche di carattere non economico, consistente in una motivazione imprenditoriale di ordine tecnico, produttivo, organizzativo, commerciale oppure, secondo alcuni orientamenti, anche di ordine morale o solidale.  Lo stesso, deve inoltre rispondere al requisito della temporalità del rapporto, facendo venir meno la sua liceità in presenza di condizioni che fanno presumere ad una condizione di permanenza nel tempo del rapporto stesso.

Fatta tale precisazione, ne consegue che la nuova norma IVA non interessa altri istituti giuridici quali il comando del personale nei Patronati, ovvero i distacchi sindacali previsti dallo Statuto dei lavoratori, ovvero ancora le indennità e i compensi percepiti dai prestatori di lavoro dipendente che, per clausola contrattuale, devono essere riversati al datore di lavoro.

Anche se può rappresentare una precisazione superflua, la nuova norma non interessa neppure l’istituto della somministrazione del lavoro (eseguita in conformità alla legge) che, rappresentando una attività d’impresa, era già (e resta) assoggettata ad IVA per l’intero importo dovuto (e non solo la differenza tra il puro costo ed il margine di intermediazione).

Laddove il distacco sia operato da una impresa o società, a favore di altra impresa o società, non vi è dubbio sul fatto che l’operazione rientri tra le prestazioni effettuate in esercizio d’impresa e, pertanto, sia necessario l’assoggettamento ad IVA (nella misura ordinaria del 22%). Normalmente, nel rapporto fra soggetti in esercizio di impresa arti o professioni, la corresponsione dell’IVA non rappresenta un costo (ma solo un onere finanziario), data l’ordinaria possibilità di detrazione dell’IVA addebitata dal prestatore: ciò non vale, ovviamente, laddove il soggetto avente causa (ossia, colui che deve procedere a corrispondere il rimborso del costo del personale distaccato) non abbia possibilità, esercitando operazioni esenti o non rilevanti ai fini IVA (come, ad es: istituti di credito, intermediari finanziari, assicurazioni, intermediari

finanziari, assicurazioni, intermediari assicurativi, medici, ecc.), di detrarre parzialmente o totalmente l’IVA pagata ai propri fornitori.

Nel caso in cui il distacco sia operato da un Ente Non Commerciale (ENC), quale ad. es. una associazione, fondazione, o altra struttura non societaria, non esercitante in modo prevalente una attività commerciale, il rimborso del puro costo (del personale distaccato) a favore dell’ente, anche se effettuato da società o altro soggetto esercente attività d’impresa, potrebbe non essere assoggettato ad IVA e non ricadere, quindi, nella nuova normativa.

Per principio generale, infatti, affinché una data operazione sia rilevante alla normativa IVA, devono sussistere, contemporaneamente (oltre al requisito della territorialità che, in questo contesto, non viene preso in considerazione) il requisito oggettivo ed il requisito soggettivo. Sul primo, requisito oggettivo, occorre considerare se l’operazione di prestito o distacco di personale riguarda dipendenti addetti all’esercizio delle attività istituzionali dell’ente, ovvero se l’operazione riguarda dipendenti addetti all’esercizio delle eventuali attività commerciali esercitate, in modo non prevalente, dall’ente: nel primo caso, l’operazione manca del nesso diretto fra le due prestazioni (prestazione consistente nel servizio reso e controprestazione consistente nel pagamento dell’importo dovuto), vale a dire che manca del c.d. “rapporto sinallagmatico”; viceversa, nel secondo caso, ossia quando l’operazione riguarda dipendenti addetti all’esercizio di attività commerciali, si ritiene esistente il rapporto sinallagmatico e, pertanto, l’operazione, indipendentemente dal fatto che sia corrisposto il solo rimborso del costo effettivo del personale prestato o distaccato, con la nuova normativa, assume rilevanza IVA.

Quanto al requisito soggettivo, occorre ricordare che l’apertura della partita IVA da parte dell’ENC che dovesse svolgere, in via non prevalente rispetto a quella istituzionale, anche un’attività commerciale, sorge solo nel momento in cui l’operazione (cessione di beni o prestazione di servizi) ha natura commerciale ai sensi dell’art. 2195, C.C., o lo sia in forza di altre disposizioni di legge (ad es. le attività svolte dai Centri di Assistenza Fiscale) ed è svolta in modo “abituale”, ossia in modo ripetitivo nel tempo e/o con una specifica organizzazione a ciò dedicata. Ne consegue che, qualora l’operazione di prestito o distacco dovesse essere svolta solo in modo sporadico e senza alcuna specifica organizzazione in tal senso, il solo esercizio di tale attività non farebbe scattare, in capo all’ENC l’obbligo di apertura della partita IVA.

*ODCEC Rimini 

di Paolo Soro*

Di seguito, le risposte ai quesiti su fattispecie “dubbie” afferenti sia al vecchio che al nuovo regime impatriati.
1) Ulteriore quinquennio agevolabile: chi esercita l’opzione a pagamento e chi accede gratuitamente?
L’Agenzia ha precisato che risultano esclusi dalla possibilità di esercitare l’eventuale opzione:
– Gli sportivi professionisti
– Coloro che si sono trasferiti in Italia a partire dal 30 aprile 2019
– I cittadini italiani, rientrati entro il 29 aprile 2019, non iscritti all’AIRE
– I cittadini extra-comunitari
Preliminarmente, con riferimento ai cittadini extra-UE, si ritiene che il parere espresso dall’Agenzia non sia condivisibile e possa essere legittimamente contestato, poiché, laddove è presente una convenzione bilaterale valida che prevede il diritto di non discriminazione, essendo tale fonte normativa prevalente su quella domestica, si deve necessariamente applicare la prima e non la seconda.
Invero, come noto, in base alla gerarchia delle leggi, la norma internazionale convenzionale prevale sempre sulle leggi dello Stato (Costituzione, art. 117; DPR 600/1973, art. 75). Orbene, il modello
convenzionale OCSE per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e prevenire le evasioni fiscali, stabilisce:
– Art. 1: Il presente Accordo si applica alle persone che sono residenti di uno o di entrambi gli Stati
contraenti.
– Art. 2: Il presente Accordo si applica alle imposte sul reddito prelevate per conto di ciascuno degli Stati contraenti, o delle sue suddivisioni politiche o amministrative o dei suoi enti locali, qualunque sia il sistema di prelevamento.
Sono considerate imposte sul reddito tutte le imposte prelevate sul reddito complessivo o su elementi del reddito, comprese le imposte sull’ammontare complessivo degli stipendi o dei salari corrisposti dalle imprese. Le imposte attuali cui si applica l’Accordo sono in particolare, per quanto concerne l’Italia: l’imposta sul reddito delle persone fisiche…
Il presente Accordo si applicherà anche alle imposte di natura identica o sostanzialmente analoga che verranno istituite dopo la data della firma dell’Accordo, in aggiunta o in sostituzione delle imposte attuali.

– ART. 24 (NON DISCRIMINAZIONE): I nazionali di uno Stato contraente, non sono assoggettati nell’altro Stato contraente ad alcuna imposizione e obbligo a essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle imposte previste dall’articolo 2 del
presente Accordo.

In definitiva, l’art. 24 della Convenzione vieta che siano negati ai lavoratori di cittadinanza
– nella specie – extra-UE, gli stessi vantaggi fiscali concessi agli altri lavoratori italiani. Il citato divieto di non discriminazione è inoltre coerente con quanto previsto, sul piano fiscale e costituzionale dall’Ordinamento dello Stato italiano. Alla luce di quanto precede, dunque, si ritiene non condivisibile e privo di valenza normativa il parere espresso in proposito dall’Agenzia delle entrate.
Con riferimento, poi, ai periodi d’imposta interessati, si rammenta quanto segue:
Fino al 29 aprile 2019 = Opzione: 10% (con un figlio minorenne / immobile) 5% (con 3 figli minorenni)
– Dal 30 aprile 2019 = Richiesta ordinaria gratuita
Prospetto esemplificativo:

Giova ricordare che, se la residenza fiscale è stata acquisita tra il 30/04/2019 e il 02/07/2019, il primo
periodo d’imposta italiano è comunque il 2019 e il quinquennio iniziale scade il 31/12/2023.
Si ricorda altresì che l’opzione a pagamento va esercitata tassativamente a partire dal 1° gennaio ed entro il 30 giugno del primo periodo d’imposta relativo all’ulteriore quinquennio, a condizione che sussistano i requisiti; e che, a detto ultimo proposito, l’acquisto dell’immobile deve essere completamente definito entro diciotto mesi dalla data di effettuazione del versamento (opzione).

2) Su quale reddito occorre calcolare la percentuale 5%/10% da versare?
La norma parla:
“…Dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia OGGETTO DELL’AGEVOLAZIONE”; non fa riferimento ai “redditi agevolati”.
Pertanto, l’imposta sostitutiva (10% / 5%) va calcolata sul reddito prodotto al lordo della quota di esenzione stabilita dal regime; non al netto.

3) Immobile: è possibile entrarne in possesso a seguito di donazione?
No, la norma dice che l’unità immobiliare può essere acquistata direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal convivente o dai figli, anche in comproprietà. L’uso del termine “acquistare”, a parere dell’Agenzia delle entrate, porta a escludere che l’immobile possa essere ricevuto in donazione o sia stato ereditato.
Ovviamente, nulla vieta di vendere tale immobile e acquistarne un altro, ovvero, mantenere quello ricevuto a titolo gratuito e acquistarne un altro a titolo oneroso.
Analogamente, l’impatriato potrebbe essere già proprietario di altro immobile nel territorio dello Stato, ma, per avere le agevolazioni concernenti l’ulteriore quinquennio dovrà acquistare a titolo oneroso un’altra unità immobiliare di tipo residenziale nel periodo richiesto, eventualmente anche previa cessione dell’immobile precedentemente acquistato e non valido agli effetti del soddisfacimento dei requisiti richiesti dalla legge. A tal proposito, limitarsi solo a procedere a una ristrutturazione straordinaria (anche particolarmente radicale, con variazione catastale) dell’immobile precedentemente acquisito, non appare sufficiente.

4) Immobile: si può venderlo prima della scadenza dell’ulteriore quinquennio?
Sì, ma si perdono le agevolazioni a partire dal periodo d’imposta in cui è stato venduto, salvo che l’immobile non sia stato venduto per acquistarne un altro in sostituzione che presenti gli stessi requisiti. Restano salve le agevolazioni precedentemente applicate nei periodi d’imposta nei quali l’immobile esisteva.
5) Immobile: co-intestazione al 50% a due diversi impatriati; si rispettano i requisiti per chiedere l’agevolazione legata all’ulteriore quinquennio da parte di entrambi?
Sì, l’unità immobiliare può essere acquistata direttamente dal lavoratore oppure dal coniuge, dal
convivente o dai figli, anche in comproprietà. Risulta, pertanto, irrilevante che il comproprietario sia
anch’esso un impatriato, tenuto conto che nessuna preclusione è indicata dalla norma, né, tanto meno, può essere da questa dedotta. Ovviamente, entrambi i coniugi dovranno risultare residenti all’anagrafe del Comune in cui è situato l’immobile (e, dunque, anche nel medesimo stato di famiglia), nonché entrambi pieni proprietari dell’immobile (ossia, il rispettivo 50% deve essere detenuto a titolo di proprietà – non usufrutto o altro).

6) Immobile: il requisito della “comproprietà” vale anche per conviventi dello stesso sesso? Quali documenti occorrono nel caso?
Sì, la norma parla di “convivente” senza escludere le persone dello stesso sesso. Quanto ai documenti,
occorrono quei certificati di regola rilasciati dal Comune che attestano appunto la convivenza di fatto nell’immobile acquistato in comproprietà (purché piena proprietà) da parte di entrambi i soggetti.
In genere, si tratta della dichiarazione per la costituzione di una convivenza di fatto, che può essere effettuata da due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, coabitanti e iscritte sul medesimo stato di famiglia, nonché ovviamente entrambe residenti presso il Comune al quale viene presentata la dichiarazione.

7) Immobile: posso tenere la nuda proprietà e dare l’usufrutto a mia moglie?
No. L’immobile può essere acquistato in comproprietà col coniuge, ma il diritto acquisito deve comunque essere quello della piena proprietà (è irrilevante che i diritti siano stati “spartiti” con il coniuge convivente). Il requisito relativo alla proprietà dell’unità immobiliare non risulta soddisfatto se l’acquisto riguarda la sola nuda proprietà o il solo diritto di usufrutto; anche la mera sottoscrizione di un preliminare di compravendita non è sufficiente.

8) È possibile accedere al regime impatriati per lavoratori in smart working di società estera?
Sì! Rileva il luogo materiale dove viene fisicamente svolta l’attività lavorativa e non la cittadinanza
di datore e/o lavoratore. Piuttosto, attenzione ai lavoratori (cittadini stranieri) che prestano attività in Italia per oltre 183 giorni, tenuto conto della nuova normativa relativa alla residenza fiscale, che prevede anche il requisito della sola presenza fisica, al fine di accertare la residenza fiscale in Italia.

9) In caso di seconda o ulteriore assunzione, a quali datori di lavoro va presentata la domanda di agevolazione prevista dal regime impatriati?
La richiesta è presentata sempre e solo all’attuale datore di lavoro, anche in caso di seconda o ulteriore assunzione, rispetto a quella per cui il lavoratore è rientrato.

10) Nel caso in cui il dipendente presenti la domanda in corso d’anno, ma le agevolazioni spettino per tutto il periodo d’imposta a partire dal 1° gennaio, cosa succede?
Il datore di lavoro deve applicare il beneficio dal periodo di paga successivo alla richiesta e, in sede di conguaglio, dalla data dell’assunzione. Se il programma non consente di conguagliare a fine anno il differente imponibile sul quale sono state inizialmente applicate le ritenute, il lavoratore impatriato può comunque auto-calcolare le ritenute nella misura corretta, indicando nella propria dichiarazione annuale, per la parte non calcolata correttamente, i redditi percepiti già nella misura ridotta (ossia, al netto dell’esenzione prevista dalla legge). A tal fine, le istruzioni di accompagnamento al modello redditi persone fisiche prevedono dei codici specifici da indicare nell’apposita casella “Casi particolari”.
Lo stesso comportamento può essere adottato pure nel caso in cui il datore di lavoro non abbia
dato positivo riscontro alla domanda presentata dal dipendente e abbia deciso di calcolare le ritenute anche sulla parte esente del reddito.
Da notare che la norma in realtà non prevede specifiche sanzioni in capo a tale datore di lavoro.

11) Come cambia la percentuale di esenzione prevista per l’ulteriore quinquennio, nel caso in cui venga richiesta dai lavoratori del Mezzogiorno?
Non cambia. Con la vecchia normativa, l’esenzione relativa al quinquennio iniziale è pari al 90% per i
lavoratori del Mezzogiorno e al 70% per gli altri.
Nel caso in cui spetti l’agevolazione per l’ulteriore quinquennio a seguito di immobile acquistato o figlio minorenne a carico, la quota di esenzione è comunque pari al 50% per tutti. Nel caso in cui spetti l’agevolazione per l’ulteriore quinquennio a seguito di tre figli minorenni a carico, la quota di esenzione è pari al 90% per tutti.
Si ricorda che:
– Con riguardo all’immobile, i lavoratori devono diventare proprietari di almeno un’unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al
trasferimento
– Con riguardo al/ai figlio/i, il requisito deve essere verificato alla data in cui si esercita l’opzione/richiesta
Viceversa, con la nuova normativa, il reddito esente è pari (per tutti) al 50% e diventa pari (per tutti) al 60% se si ha almeno un figlio minorenne a carico residente (o comunque a partire dal momento in cui si presenta tale requisito nel corso del quinquennio). L’ulteriore periodo eventuale di esenzione è di tre anni ed è pari (per tutti) al 50%, ma solo, limitatamente ai soggetti che trasferiscono la propria residenza
anagrafica nell’anno 2024, nel caso in cui siano divenuti proprietari (da intendersi come piena
proprietà del 100%), entro la data del 31 dicembre 2023 e, comunque, nei dodici mesi precedenti
al trasferimento, di un’unità immobiliare di tipo residenziale adibita ad abitazione principale in Italia.

12) Qual è il reddito imponibile agli effetti Inps?
Al momento, resta ancora un problema costituzionale di ingiustificata disparità: nessun valido documento di prassi è stato emanato al riguardo.
In particolare, per quel che concerne il reddito d’impresa del vecchio regime (pacificamente applicabile anche al lavoro autonomo sia del vecchio che del nuovo regime), la circolare INPS numero 102 del 12/06/2003 (successivamente sempre richiamata e confermata), precisa che:
I contributi previdenziali sono calcolati sulla totalità dei redditi di impresa dichiarati ai fini IRPEF, prodotti nello stesso anno al quale il contributo si riferisce. In ordine alla concreta individuazione dell’ammontare del reddito di impresa da assoggettare all’imposizione dei contributi previdenziali si fa
presente che deve essere preso in considerazione il totale dei redditi di impresa, così come dichiarato ai
fini delle imposte sui redditi.

Da quanto qui evidenziato, ne consegue dunque che gli impatriati, i quali producono redditi di lavoro autonomo e di impresa, beneficiano altresì di un obbligo contributivo in misura (ridotta) direttamente proporzionale al reddito effettivamente dichiarato, oltre ovviamente alle minori imposte da pagare.
Tale situazione, peraltro, non si verifica in maniera analoga nelle fattispecie concernenti gli impatriati che percepiscono redditi di lavoro dipendente e assimilato. Tenuto infatti conto di come è strutturata la busta paga, in assenza di specifiche diverse indicazioni diramate dall’INPS, le conseguenze pratiche sono che:
• Il reddito imponibile ai fini tributari (ritenute) è pari alla sola quota parte stabilita dal Regime
• L’imponibile ai fini previdenziali (contributi) è il reddito complessivo “al lordo” dall’esenzione
reddituale prevista dal Regime

Ma, attenzione, quanto visto sopra per l’INPS non si applica necessariamente ai professionisti che hanno una specifica cassa di previdenza come Avvocati, Commercialisti, Notai, Medici, etc. Per ogni cassa esiste un regolamento specifico e le regole possono cambiare dall’una all’altra. Si consiglia pertanto di consultare il regolamento della propria cassa di appartenenza.
Esempio, le istruzioni di compilazione diramate dalla CNPADC, riportano:
Per “Reddito netto professionale” si intende quello definito dal vigente art. 53, comma 1, del D.P.R.
917/86, relativo all’esercizio dell’attività di Dottore.

Ciò significa che noi iscritti alla CNPADC, se interessati dall’applicazione del regime, dovremo indicare il reddito prodotto al lordo dell’eventuale esenzione stabilita per gli impatriati.

13) Quale regime speciale di favore si può/deve applicare nel caso si svolga contemporaneamente attività di ricerca come dipendente e attività di lavoro autonomo?
L’Agenzia delle entrate risponde che i diversi regimi agevolativi previsti per i contribuenti che rientrano
in Italia sono fruibili contemporaneamente dallo stesso soggetto, relativamente al medesimo periodo d’imposta, nel rispetto di tutti i requisiti previsti dalle relative disposizioni. Pertanto, ad esempio, un contribuente che al rientro in Italia svolge un’attività di ricerca ed esercita anche un’attività di lavoro autonomo potrà, nel rispetto di ogni altra condizione prevista dalla normativa, applicare l’articolo 44 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 (rientro dei cervelli), ai redditi prodotti in Italia per l’attività di ricerca; e l’articolo 5 del decreto legislativo 27 dicembre 2023, n. 209 (impatriati), al reddito di lavoro autonomo prodotto in Italia.

14) La nuova normativa richiede il possesso dei requisiti di elevata qualificazione o specializzazione. Quali sono e cosa s’intende in pratica?
Secondo l’Agenzia delle entrate, sono «altamente qualificati/specializzati» i lavoratori alternativamente in possesso:
– Del titolo di istruzione superiore di livello terziario rilasciato dall’autorità competente nel Paese dove è stato conseguito che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale o di una qualificazione professionale di livello post secondario di durata almeno triennale o corrispondente almeno al livello 6 del Quadro nazionale delle qualificazioni;
– Dei requisiti previsti dal decreto legislativo 6 novembre 2007, n. 206, limitatamente all’esercizio di professioni regolamentate;
– Di una qualifica professionale superiore attestata da almeno cinque anni di esperienza professionale di livello paragonabile ai titoli d’istruzione superiori di livello terziario, pertinenti alla professione o al settore specificato nel contratto di lavoro o nell’offerta vincolante;
– Di una qualifica professionale superiore attestata da almeno tre anni di esperienza professionale pertinente acquisita nei sette anni precedenti la presentazione della domanda di Carta blu UE, per quanto riguarda dirigenti e specialisti nel settore delle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione.

15) È vero che è cambiata la norma relativamente all’obbligo del “collegamento funzionale” tra la data dell’impatrio e quella dell’inizio del lavoro?
In realtà, la norma non è cambiata (nulla di specifico era previsto prima e nulla è previsto ora), ma è – abbastanza inspiegabilmente, ma piacevolmente – cambiata l’interpretazione diramata negli ultimi documenti di prassi dall’Agenzia delle entrate, seppure con riferimento solo ai nuovi impatriati (altra cosa bizzarra). Nello specifico, con l’interpello 66/2025, l’Agenzia delle entrate ha precisato che:
Ai fini dell’applicazione del nuovo regime, non è più necessario verificare la sussistenza di un collegamento ‘’funzionale’’ tra il trasferimento della residenza fiscale in Italia e l’inizio di un’attività
lavorativa dalla quale derivi un reddito agevolabile, prodotto in Italia, diversamente da quanto chiarito con riferimento al previgente ‘’regime speciale per lavoratori impatriati’’.

Non è necessario, dunque, che al rientro in Italia sussistano i requisiti previsti dalla norma, potendo
gli stessi maturare anche successivamente.

In tal caso, il contribuente potrà applicare il nuovo regime al ricorrere dei predetti requisiti per i residui periodi d’imposta di fruizione dell’agevolazione, che si applica per ciascun periodo d’imposta in cui i requisiti sussistono.

Non capiamo in base a quale norma di legge sia giustificato questo cambio di rotta, ma ne prendiamo atto tutti, molto favorevolmente.

16) È possibile cambiare regime di favore all’interno del quinquennio, esempio: da forfettario a impatriato?

Secondo quanto indicato in precedenza dall’Agenzia delle entrate, perlomeno, con riferimento alla vecchia normativa, il contribuente che rientra in Italia e sceglie un regime, non potrà più cambiare tale scelta.

Tale interpretazione, francamente, lascia basiti, sia perché è assolutamente consentito dalla normativa (e ci mancherebbe pure altro) variare, salvo eventuale periodo di opzione bloccato (si ricorda che il regime forfettario è tale per natura), la scelta del regime contabile/ fiscale; sia perché ciò appare nettamente in contrasto con quanto inizialmente affermato dalla stessa Agenzia delle entrate la quale aveva ampiamente chiarito che:

Un lavoratore autonomo che ha trasferito la residenza fiscale in Italia nel periodo d’imposta 2017, se non ha dato evidenza dell’agevolazione nella relativa dichiarazione dei redditi e in quella concernente il periodo di imposta successivo (2018), i cui termini sono scaduti, non può fruire dell’agevolazione per dette annualità.

Diversamente, con riferimento ai periodi d’imposta dal 2019 al 2021, può fruire dell’agevolazione dandone evidenza nelle relative dichiarazioni dei redditi.

In sostanza, perderà quella/e annualità specifiche che sono carenti degli adempimenti richiesti, ma non gli è vietato di sfruttare quelle eventuali annualità restanti all’interno del quinquennio.

Detto ciò, magari così come è inspiegabilmente cambiata l’interpretazione relativa al c.d. “collegamento funzionale”, per analogia, con la nuova normativa cambierà pure l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate collegata alla specifica fattispecie in esame. Invero, se teniamo conto di quanto affermato prima, sembrerebbe parimenti da rivedere anche il divieto prima espresso dall’Agenzia delle entrate sul cambio regime nel quinquennio:

Il contribuente potrà applicare il nuovo regime al ricorrere dei predetti requisiti per i residui periodi d’imposta di fruizione dell’agevolazione, che si applica per ciascun periodo d’imposta in cui i requisiti sussistono.

Però, al momento, non si hanno elementi tali da poterlo affermare con certezza.

17) Sono mutate le regole per i contribuenti che impatriano al termine di distacco all’estero?

 Sì! Con il vecchio regime, non spetta il beneficio fiscale nell’ipotesi di distacco all’estero con successivo rientro, in presenza del medesimo contratto e presso il medesimo datore di lavoro (vincolo del c.d. “rientro in continuità di contratto”).

Viceversa, la novella normativa stabilisce delle regole completamente diverse in proposito, limitandosi solo a vietare le fattispecie che non rientrano nei nuovi parametri minimi di permanenza all’estero; che non sono più gli ordinari tre periodi d’imposta, ma che diventano:

  • Sei periodi d’imposta, se il lavoratore non è stato in precedenza impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo

Sette periodi d’imposta, se il lavoratore, prima del suo trasferimento all’estero, è stato impiegato in Italia in favore dello stesso soggetto oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo.

18) Usufruendo del regime speciale per docenti e ricercatori, qual è la porzione di reddito da tenere conto al fine di poter essere considerati fiscalmente a carico del proprio coniuge?

Anche in questo caso, stranamente ma piacevolmente, l’Agenzia delle entrate risponde che:

La norma non prevede che la quota esclusa dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo vada aggiunta, ai fini della verifica del limite reddituale indicato dall’art. 12 del TUIR, al reddito complessivo.

Pertanto, in assenza di una specifica disposizione, la quota di reddito esente da imposizione, non concorrendo alla formazione della base imponibile, non rileva ai fini della determinazione del reddito complessivo del familiare.

Ciò premesso, qualora il reddito complessivo determinato come sopra indicato e assunto al netto della quota esente da imposizione, sia non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili, si potrà essere considerati fiscalmente a carico del proprio coniuge, con conseguente riconoscimento in capo a quest’ultimo delle detrazioni di cui all’articolo 12, del TUIR, anche se il reddito complessivo totale senza esenzione è maggiore.

19) Vi sono limitazioni nel nuovo regime impatriati relativamente ai cittadini stranieri che impatriano in Italia o a quelli italiani che non hanno mai avuto residenza fiscale italiana?

No, in linea di massima, possono accedere al regime (previa verifica degli altri ordinari requisiti) sia i cittadini italiani che quelli stranieri; nonché, più in generale, anche coloro che non hanno mai avuto in precedenza la residenza fiscale in Italia.

20) L’art. 16, co. 3-bis, d.lgs. 147/2015, aggiunto dal Decreto Legge del 30/04/2019 n. 34, conv. Legge 28 giugno 2019 n. 58, prevedeva che: Le disposizioni del presente articolo si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta anche nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento. Successivamente, con le modifiche apportate dalla Finanziaria, il decreto crescita ha previsto l’aggiunta: “…Ovvero ne diviene proprietario entro diciotto mesi dalla data di esercizio dell’opzione.” Qual è esattamente il termine ultimo da prendere in considerazione per l’eventuale acquisizione dell’immobile, onde poter usufruire dell’ulteriore quinquennio di agevolazioni?

Attenzione a non fare confusione; in realtà si tratta di due disposizioni completamente differenti: una relativa al termine – per così dire – “iniziale”, e una attinente a quello “finale”.

Nello specifico, il Decreto Crescita è stato oggetto di modifiche in sede di approvazione della Legge Finanziaria (Legge 30 dicembre 2020 n. 178, art. 50, co. 1). Detta normativa, senza apportare alcuna variazione al comma 3-bis, art. 16 (così come aggiunto in precedenza), ha previsto, tra gli altri, il comma 2-bis che ha stabilito le disposizioni da seguire in caso di opzione per l’ulteriore quinquennio da parte dei soggetti meglio individuati nel precedente QUESITO 1.

Orbene, i “diciotto mesi” concernono il caso relativo all’eventuale esercizio dell’opzione per l’ulteriore quinquennio e sono stabiliti dalla Finanziaria con riferimento ai soggetti che intendano versare l’imposta sostitutiva (10% / 5%), entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione. Pertanto, in tali fattispecie, il termine ultimo possibile entro cui i contribuenti in questione devono essere diventati proprietari dell’immobile diviene il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello di conclusione del primo periodo di fruizione dell’agevolazione.

In definitiva, abbiamo:

Comma 2-bis aggiunto dalla Finanziaria:

“I soggetti, diversi da quelli indicati nel comma 2, che siano stati iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero o che siano cittadini di Stati membri dell’Unione europea, che hanno già trasferito la residenza prima dell’anno 2020 e che alla data del 31 dicembre 2019 risultano beneficiari del regime previsto dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, possono optare per l’applicazione delle disposizioni di cui al comma 1, lettera c), del presente articolo, previo versamento di:

a) un importo pari al 10% dei redditi di lavoro dipendente e di lavoro autonomo prodotti in Italia oggetto dell’agevolazione di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147, relativi al periodo d’imposta precedente a quello di esercizio dell’opzione, se il soggetto al momento dell’esercizio dell’opzione ha almeno un figlio minorenne, anche in affido preadottivo, o è diventato proprietario di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia, successivamente al trasferimento in Italia o nei dodici mesi precedenti al trasferimento, OVVERO NE DIVIENE PROPRIETARIO ENTRO DICIOTTO MESI DALLA DATA DI ESERCIZIO DELL’OPZIONE DI CUI AL PRESENTE COMMA, pena la restituzione del beneficio addizionale fruito senza l’applicazione di sanzioni…” .

Comma 3-bis introdotto col Decreto Crescita:

“Le disposizioni del presente articolo si applicano per ulteriori cinque periodi di imposta nel caso in cui i lavoratori diventino proprietari di almeno un unità immobiliare di tipo residenziale in Italia,
successivamente al trasferimento in Italia O NEI DODICI MESI PRECEDENTI AL TRASFERIMENTO”.

*ODCEC Roma

di Luisella Fontanella*

Nella redazione del contratto individuale di lavoro spesso si dimentica l’importanza del patto di prova
relegandolo a semplice parametro numerico: giorni.
Anche la recente Legge 13 dicembre 2024 n. 203 “Collegato Lavoro” entrata in vigore il 12 gennaio 2025,
cercando di risolvere la casistica nel rapporto di lavoro a termine, si è limitato ad indicare un’asettica modalità di calcolo aritmetico in relazione alla durata della prestazione appiattendo livelli, qualifiche e mansioni.
La durata è certamente un aspetto importante in quanto posticipa nel tempo il momento in cui il rapporto di lavoro esce dall’area “non protetta” del recesso libero, sia per il datore di lavoro che per il lavoratore, ed entra nell’area “protetta” del recesso giustificato, passaggio che implica la difficoltà di licenziare un dipendente che non abbia violato alcun obbligo, nemmeno di diligenza, nel caso in cui l’azienda voglia avvalersi del diritto di risolvere il rapporto di lavoro senza fornire alcuna motivazione e senza obbligo di dare un preavviso.
Non si deve, però, dimenticare che si tratta di un istituto, opzionale e non obbligatorio, che assolve
a una funzione molto importante: consentire all‘imprenditore e al prestatore di fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova.

Recesso durante il periodo di prova
Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o
d’indennità. Se però la prova è stabilita per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può
esercitarsi prima della scadenza del termine salvo dimissioni per giusta causa.
Il recesso avviene senza obbligo di preavviso e motivazione.
Se il lavoratore si dimette, non è obbligato a seguire la procedura telematica è consigliata la forma scritta (sebbene siano ammesse anche le dimissioni in forma orale), ma in nessun caso vi è l’obbligo di
comunicazione telematica.
Il datore di lavoro dovrà firmare la lettera, consegnarla al lavoratore per poi comunicare entro cinque giorni la cessazione del rapporto al Centro per l’impiego, attraverso il Modello Unificato UniLav.
Per quanto riguarda la tempestività del recesso da parte del datore di lavoro, rileva la data di spedizione
della lettera raccomandata e non la data in cui viene ricevuta.
La comunicazione del licenziamento si ritiene assolta, in assenza della previsione di modalità specifiche, con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua
materialità (Cassazione 23061/2007 – 29753/2017) anche a mezzo email (es. comunicato dal lavoratore
all’atto dell’assunzione).
I diritti come ferie, TFR e mensilità aggiuntive vengono regolarmente maturati.
Per garantire che il periodo di prova sia valido, è essenziale che:
• Sia formalizzato in epoca precedente o contestualmente all’assunzione per iscritto nel
contratto di lavoro,
• Sia chiaramente definita l’indicazione della durata della prova, che non potrà eccedere la misura        indicata dalla contrattazione collettiva e comunque quella prevista per legge,
Le mansioni siano dettagliatamente specificate nel contratto.
• L’oggetto deve essere possibile, lecito e determinato o determinabile
In assenza di queste formalità, il periodo di prova potrebbe essere considerato nullo o inefficace, con
possibili ripercussioni sul rapporto di lavoro.

Il divieto del periodo di prova
Il rinnovo di un contratto di lavoro, per lo svolgimento delle stesse mansioni, non può essere soggetto ad un nuovo periodo di prova.
Non può essere reiterato il periodo di prova qualora vi sia stato:
• un precedente rapporto a termine con le stesse mansioni
• un precedente rapporto in somministrazione con le stesse mansioni
• un precedente rapporto di collaborazione che abbia previsto attività analoghe
La reiterazione è ammessa:
• per mansioni diverse
• qualora sia decorso un apprezzabile lasso di tempo rispetto al contratto precedente (Cassazione – sentenza n. 8237/ 2015)
• qualora tra un rapporto e l’altro siano mutati, nel frattempo, taluni fattori (Cassazione – sentenza
8237/2015 e ordinanza 28252/2018) esempio: il contesto sociale e lavorativo, le capacità professionali, le abitudini di vita, le condizioni di salute del lavoratore, ovvero l’organizzazione aziendale
La ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro col medesimo datore e per le stesse mansioni è legittima ove sia dimostrata l’esigenza datoriale di verifica ulteriore del comportamento del lavoratore rilevante ai fini dell’adempimento della prestazione, in relazione a mutamenti che possano essere intervenuti per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute (Cassazione n. 22809/2019)

Recesso durante il periodo di prova – Nullità
La nullità del patto di prova può essere richiesta in presenza di difformità rispetto agli elementi previsti
dalla legge e dalla giurisprudenza, come la corretta specifica delle mansioni e la congruità della valutazione delle capacità professionali del lavoratore.
• Motivi estranei alla valutazione professionale del lavoratore:
• Durata inadeguata del periodo di prova
• Mansioni diverse da quelle concordate
• Mansioni non specificate nel contratto

In caso di licenziamento avvenuto durante il periodo di prova, incombe sul lavoratore, ai sensi dell’articolo 2697 c.c., di dimostrare il positivo superamento del periodo di prova o che il recesso sia stato determinato da altra reale motivazione.
Il patto di prova ha infatti natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dall’onere di provarne la giustificazione, quindi l’onere della prova rimane in capo al lavoratore. (Cassazione – ordinanza
n. 23927/2020)
Nel caso in cui il recesso dal contratto di lavoro avvenga senza un valido patto di prova, la sanzione prevista è quella della tutela indennitaria.
Il lavoratore ha diritto a un’indennità, ma non può essere reintegrato nel posto di lavoro, in quanto il recesso non rientra nelle fattispecie previste dall’articolo 3, comma 2, del D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti (Cassazione, sentenza 20239/2023).

Tassazione dell’indennità
Si tratta di licenziamento illegittimo senza la reintegra sul posto di lavoro e pertanto viene risarcito il lucro cessante. In considerazione di ciò gli importi vengono tassati come il Tfr, tramite trattenuta alla fonte operata direttamente dall’azienda, in quanto il rapporto di lavoro è cessato. Trattandosi di indennità risarcitoria collegata alla cessazione del rapporto di lavoro si esclude la contribuzione previdenziale ed assistenziale

La durata
Viene fissata dai Ccnl in relazione all’inquadramento contrattuale
• La legge prevede una durata massima: non superiore a 6 mesi (art. 7, D. Lgs. 27 giugno 2022, n. 104 Attuazione della direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea – Decreto Trasparenza)
• Può essere prevista una durata minima – in questo caso il diritto di recesso non può esercitarsi prima
della fine del periodo
• Può essere prevista una riduzione del periodo di prova qualora il lavoratore abbia svolto le stesse mansioni presso altri datori di lavoro
• Può essere prevista una proroga, qualora sia giustificata e sempre nel limite dei 6 mesi
Solo nel contratto di prossimità è possibile uno sforamento dei 6 mesi

La durata nel contratto a termine
Il Collegato Lavoro ha modificato quanto previsto all’art.7 del Decreto Trasparenza, andando a precisare
le modalità di calcolo del periodo di prova qualora le parti decidano di inserire tale istituto in un contratto individuale a termine: un giorno di effettiva prestazione per ogni 15 giorni di calendario a
partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso, la durata del periodo di prova nei
rapporti fino a sei mesi può andare da un minimo di due giorni ad un massimo di quindici giorni, mentre
nei rapporti superiori a sei mesi e inferiori a dodici mesi, il periodo di prova non potrà andare oltre i trenta giorni.
Tale conteggio non deve essere fatto qualora la contrattazione collettiva sia intervenuta, prevedendo una condizione di miglior favore.
Il problema che si pone è che il legislatore non dice per chi deve essere di miglior favore.
Potrebbe essere sottinteso che debba esserlo per il lavoratore. Quindi, qualora la contrattazione collettiva, di qualsiasi livello (nazionale, territoriale o aziendale) sia intervenuta sulla materia ed abbia previsto una disposizione più favorevole per il lavoratore, non si applica la formula legale.
Vero è che un minor periodo di prova è favorevole al lavoratore in quanto entra nel periodo protetto in
tempi più rapidi, ma tale modalità potrebbe, invero, causare del contenzioso in quanto, qualora l’azienda
decida di risolvere il rapporto durante o al termine del periodo di prova, il lavoratore potrebbe ricorrere
contro tale decisione evidenziando la scarsa durata del periodo che non gli ha permesso di dimostrare
compiutamente le capacità lavorative in relazione alla complessità delle mansioni svolte.

*ODCEC Torino

di Marco D’Orsogna Bucci*

Molte conferme e qualche novità in materia di fringe benefit nella recente Legge di Bilancio 2025. Un primo segnale interessante che si coglie è la conferma di interventi introdotti negli anni precedenti, ma questa volta con un respiro di stabilità più ampio, nella maggior parte dei casi la periodicità è triennale. Ciò permette di pianificare politiche di welfare aziendale, ma soprattutto di considerare il welfare all’interno di accordi di secondo livello, di norma ultrannuali.
Seguendo l’ordine di redazione della norma, all’art.1 comma 48 della L. 207/2024 troviamo una disposizione volta alla riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi, prevedendo l’aumento della partecipazione alla formazione del reddito della concessione di mezzi (auto e moto) in uso promiscuo.
Viene innalzata al 50% della percorrenza convenzionale di 15.000 km la quota di imponibilità del fringe
benefit. L’innalzamento della quota di imponibilità genera, nei casi scontati di superamento delle soglie
di esenzione dei fringe benefit, un maggior costo per le imprese, un netto in busta inferiore per il lavoratore, ma anche un maggior imponibile previdenziale e una più alta base di calcolo per il Trattamento di Fine Rapporto. In parallelo a tale innalzamento, in un’ottica di favorire l’uso di mezzi meno inquinanti nelle flotte aziendali, viene ridotta al 10% e al 20% la quota di imponibilità del medesimo fringe benefit per i veicoli rispettivamente a trazione elettrica e ibridi plug-in.
La lettera a) dell’art. 1 comma 48 della L. 207/2024 condiziona l’applicazione delle nuove quote di
imponibilità a due requisiti sostanziali dei mezzi concessi (che devono coesistere):
– devono essere di nuova immatricolazione;
– devono essere assegnati con contratti stipulati a decorrere dal 1^ Gennaio 2025.
L’auto concessa in uso promiscuo nel corso del 2024 o anni precedenti, quindi, continuerà a generare
una quota di imponibilità sulla base della normativa preesistente alla L. 207/2024.
Si passa, quindi, da un coefficiente fiscale stabilito in base alle emissioni di CO2 dichiarate dalle case
automobilistiche ad un sistema basato sul tipo di alimentazione. Ricordiamo, infatti, che la norma in
vigore fino al 31.12.2024 e che continua a produrre effetti nella maggioranza delle assegnazioni in essere,
prevedeva la quota di imponibilità del fringe benefit come segue:
– 25% della percorrenza convenzionale di 15.000 km per veicoli con emissioni fino a 60 g/km;
– 30% della percorrenza convenzionale di 15.000 km per veicoli con emissioni tra 61 g/km e fino a 160 g/km;
– 50% della percorrenza convenzionale di 15.000 km per veicoli con emissioni tra 161 g/km e fino a 190 g/km;
– 60% della percorrenza convenzionale di 15.000 km per veicoli con emissioni oltre 190 g/km.
L’applicazione parallela dei coefficienti legati all’emissione di CO2 e dei coefficienti introdotti dall’art. 1 comma 48 della L. 207/2024 viene confermata anche dalla presenza della doppia tabella nelle Tariffe ACI pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale del 30.12.2024.
Bisogna tuttavia annotare vari tentativi di “affossamento”. In più occasioni, come ad esempio in sede di approvazione della legge di conversione del milleproroghe, di recente con il cosiddetto “decreto bollette”, in nome della generale crisi dell’automotive si sono succeduti tentativi di ritardare l’entrata in vigore delle nuove regole attraverso emendamenti, poi però caduti nel vuoto.
I valori fiscali delle auto assegnate in uso promiscuo, rientrando nei fringe benefit, potranno beneficiare
della stabilizzazione delle medesime soglie di esenzione 2024, confermate per il triennio 2024- 2025-2026. Facciamo riferimento, in questo caso, a quanto disposto all’art. 1 commi 390-391 della
Legge di Bilancio, laddove si conferma fino al 2027 l’innalzamento della soglia di esenzione dei fringe
benefit ex art. 51 comma 3 del TUIR da euro 258,23 ad euro 1.000,00, con previsione di ulteriore quota di esenzione di euro 1.000,00, arrivando così alla soglia di euro 2.000,00 per i lavoratori con figli fiscalmente a carico.
Ricordiamo, tuttavia, che tali soglie di esenzione non operano come franchigia fissa, di conseguenza il
superamento su base annua delle stesse comporta l’assoggettamento a tassazione e contribuzione di tutto l’ammontare del fringe benefit. Viene altresì confermata, sempre per un triennio, la previsione all’interno della famiglia dei fringe benefit delle somme erogate o rimborsate per il pagamento delle utenze domestiche, intese quali oneri per il servizio idrico integrato, energia elettrica e gas naturale, delle spese per la locazione dell’abitazione principale e per gli interessi sul mutuo sempre relativamente all’abitazione principale.
Non si comprende il motivo, invece, di subordinare l’attuazione del comma 390 con una preventiva informativa alle rappresentanze sindacali unitarie laddove presenti. Incomprensibile passaggio obbligato per la fruizione di un beneficio che, ricordiamo, può anche non essere di natura collettiva.
Passando dalle conferme alle novità troviamo la disposizione dei commi 386-389, sempre del medesimo art. 1 della L. 207/2024, con cui si introduce una interessante esenzione fiscale per somme corrisposte ai neoassunti in relazione a spese inerenti i fabbricati. Il campo di applicazione è ristretto alle nuove assunzioni decorrenti nel 2025, il regime è transitorio per i primi due anni di rapporto di lavoro.
L’esenzione dalle imposte sui redditi (non è estesa anche alla contribuzione previdenziale) si applica sulle
somme erogate dal datore di lavoro ai dipendenti a rimborso o sostegno delle spese di locazione e
manutenzione di fabbricati presi in locazione dagli stessi lavoratori. Ulteriori requisiti restringono il campo di applicazione della norma:
– l’assunzione (che deve avvenire nel periodo 01.01.25-31.12.25) deve avere quale luogo di lavoro un comune distante oltre 100 km dalla precedente residenza del lavoratore;
– il lavoratore dovrà trasferire la propria residenza nel comune sede di lavoro, rilasciando al datore apposita dichiarazione ai sensi del DPR 445/2000 al fine di attestare la residenza nei 6 mesi precedenti l’assunzione;
– il beneficiario dell’esenzione in questione deve aver percepito nell’anno precedente l’assunzione nel nuovo comune di lavoro un reddito da lavoro dipendente non superiore ad euro 35.000.
Per concludere, la L. 207/2024 ha senza dubbio il merito di interrompere l’introduzione di misure di
breve periodo in ambito fringe benefit, sempre fin qui giustificate da eventi di carattere straordinario ed
esogeno, tuttavia senza avere il coraggio necessario di introdurle a titolo definitivo.
Ricordiamo ad esempio che la soglia ordinaria di esenzione fiscale e contributiva dei fringe benefit, pari
ad euro 258,23 fu introdotta nel 1986 (allora 500.000 lire) quando lo stipendio medio di un lavoratore in
Italia era di circa 1.200.000 lire.

*ODCEC Lanciano

di Vincenzo Ferrante*

1. Il disegno di legge e il provvedimento alla fine approvato.
La legge n. 203 del 13 dicembre 2024 trova origine nel d.d.l. 1532, presentato alla Camera con il titolo di “collegato” lavoro ed è stata approvata, dopo le iniziali consultazioni con le parti sociali, in tempi rapidissimi, dopo però una lunga pausa che, ad un certo punto, è sembrata registrare una vera e propria
empasse. Non è un caso che, alla fine, alcune delle norme più importanti siano state stralciate e che il
titolo poi attribuito al provvedimento sia piuttosto anonimo (“Disposizioni in materia di lavoro”).
Infatti, la Legge si sarebbe dovuta aprire con una previsione che, ove fosse stata approvata, avrebbe
riscosso il sicuro consenso delle organizzazioni sindacali, poiché nell’ambito del lavoro agricolo sarebbero state messe in comune una serie di informazioni che le autorità di vigilanza già ricevono in
forza di previsioni in vigore, in materia di previdenza, ovvero ai fini del calcolo dei redditi fondiari o della
determinazione della misura spettante degli aiuti europei.
In questo modo si prevedeva di creare un “sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura”,
quale “strumento di condivisione delle informazioni tra le amministrazioni statali e le regioni, anche ai
fini del contrasto del lavoro sommerso in generale (si deve segnalare che la norma, in forma diversa, ha
comunque trovato spazio nella legge 20 dicembre 2024, n. 199).
Al momento dell’approvazione finale è venuto meno anche l’ art. 16 del disegno di legge, che, ai fini dell’accertamento dei crediti contributivi INPS, autorizzava l’utilizzo “di elementi tratti anche dalla consultazione di banche di dati dell’Istituto medesimo o di altre pubbliche amministrazioni” nonché la “comparazione dei relativi dati”, al fine di far emergere “basi imponibili non dichiarate o la fruizione di benefìci contributivi, esenzioni o agevolazioni … in tutto o in parte non dovuti”, prevedendo poi una ordinata sequenza di atti, diretti ad instaurare un confronto con l’impresa debitrice, salvo stabilire, ove gli “inviti” rimanessero senza pratico effetto, la “notifica un avviso di addebito», entro “il 31 dicembre dell’anno successivo alla formazione dell’avviso di accertamento”.
Le 34 norme che rimangono, hanno introdotto, in ogni caso, novità praticamente riguardo ogni aspetto della disciplina del rapporto di lavoro e della previdenza INPS ed INAIL, anche se spesso si tratta di modifiche che si muovono sul piano dell’organizzazione del Ministero, venendosi a collocare in un’area più vicina alla Prassi che alla Norma di Legge, tanto che in alcuni casi, come per il disposto dell’art.2, si provvede direttamente a modificare una norma regolamentare, seppur emanata con D.P.R..
Tralasciando, quindi, tutte le altre pur importanti disposizioni (ma si veda il paragrafo 5), qui di seguito
ci si concentrerà su quelle che più direttamente si rivolgono alla quotidiana gestione del rapporto di
lavoro, cioé sulle novità introdotte in tema di ricorso al lavoro somministrato (art. 10), di periodo di prova nei rapporti a termine (art.13) e di dimissioni tacite del lavoratore (art. 19).

2. Abrogazione delle limitazioni in tema di lavoro somministrato a tempo indeterminato.
La Legge 203/2024, con l’art. 10, interviene sulla disciplina delle soglie di ammissibilità del lavoro
somministrato, in particolare modificando le soglie entro le quali, questo è ammesso a mente del D.Lgs.
81/2015. La formulazione della norma risultante dalle novità introdotte nel 2024 è quanto mai infelice,
poiché non si è voluto, né riscrivere il comma oggetto di intervento normativo, né cancellare il principio
generale, che si continua ad enunziare in esordio ad esso, preferendo introdurre nel corpo delle previsioni un’eccezione, che finisce per rovesciare la regola che apre l’enunziato normativo.
Infatti, anche dopo le modifiche ora introdotte, l’art. 31, comma 1 del citato D.Lgs.81/2015, esordisce affermando che «il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore» al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto di fornitura. Si tratta di una norma in certa misura priva di una precisa ratio, posto che, a tacer d’altro, non sussiste analogo limite qualora si dovesse fare ricorso a forme di appalto.
A questo primo limite, al comma 2 dello stesso art. 31, se ne affianca un altro: vengono infatti equiparati
i lavoratori assunti a termine ai somministrati a tempo determinato, prevedendo un limite percentuale del 30% da riferirsi ai lavoratori in forza in pianta stabile presso l’impresa utilizzatrice. In relazione a quest’ultima regola, per effetto di vari provvedimenti di legge successivi al 2015, si sono registrate varie eccezioni alla regola ora enunziata, che riguardano gli apprendisti, i lavoratori collocati “in mobilità” ai sensi dell’art. 8 L. 223/1991, i soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali ed i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, secondo quanto stabilito dalla normativa.
Il legislatore del 2024, integrando l’elenco delle eccezioni, aggiunge ora che la regola d’esordio non vige altresì per quanti siano stati “assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Appare evidente come la mancata riscrittura della norma dia così luogo ad un vero e proprio cortocircuito logico, posto che in caso di lavoratori somministrati a tempo determinato, ma assunti dall’agenzia di somministrazione a tempo indeterminato, tale fattispecie sia “in ogni caso esente da limiti quantitativi”, in piena contraddizione con l’enunziato che apre la norma e che recita che “il numero dei lavoratori [in staff leasing], non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore”.
A tali nuove previsioni si collega il venir meno dei limiti già introdotti per la medesima ipotesi (cosicché
sono abrogati i periodi quinto e sesto del comma 1, che peraltro avrebbero comunque perduto di efficacia
sotto la data del 30.6.2015 e che anticipavano la regola ora generalizzata).
La norma si completa con l’introduzione di un’ulteriore eccezione e cioè del mancato operare dei limiti di durata in tema di lavoro a termine (art. 19 D.Lgs 81/2015) in caso di assunzioni “di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4 e 99 dell’articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione Europea, del 17 giugno 2014, come individuati con il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali previsto dall’art. 31, comma 2, del presente decreto» (art. 34 D.Lgs. 81/2015, come modificato dall’art. 10 L. 203/2024).
La norma non dice molto di più ed amplissimo, quindi, è il rinvio alla fonte secondaria, che dovrà farsi carico di spiegare in che modo un trattamento deteriore così esteso possa risultare compatibile con il principio di parità di trattamento previsto per i lavoratori a termine, anche sulla scorta delle risalenti pronunzie della Corte di Giustizia che ebbero modo in passato di valutare la legittimità di formule analoghe. esprimendosi nel senso che il principio di parità deve prevalere, onde evitare aree di minor tutela non adeguatamente giustificata.

3. Le modifiche sulla clausola di prova nei contratti a termine.
Si tratta di una delle norme che ha attirato fin dai lavori parlamentari l’attenzione dei commentatori.
L’antefatto è noto e può così riassumersi: all’atto del recepimento della direttiva in tema di “trasparenza”, è stato introdotto un limite massimo per la durata della prova non solo per il lavoro a tempo indeterminato (come già la legge 604/66, nell’ambito della disciplina del recesso), ma anche per i contratti a termine.
Nella formulazione dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. 27 giugno 2022, n. 104, non è però ravvisabile la possibilità di applicare il principio del c.d. pro rata, apparendo la norma inidonea a produrre un comando univoco.
Il legislatore del 2024 volendo sanare questo difetto afferma ora che: “fatte salve le disposizioni più
favorevoli previste dalla Contrattazione Collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno
di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario, a partire dalla data di inizio del rapporto
di lavoro”.
Nella Norma è poi aggiunta una “sibillina” previsione, in forza della quale “in ogni caso la durata del
periodo di prova non può essere… superiore a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”, dimostrando così di avere un grado di familiarità con le scienze esatte non inferiore a quello dimostrato dal legislatore del 2022, posto che la proporzione enunziata conduce ad una durata di 26 giorni per un contratto di durata annuale, di modo che il termine di 30 rischia di apparire fuori contesto.
In disparte dall’ovvia considerazione che il legislatore potrebbe formulare le disposizioni di legge in maniera meno equivoca, nella prospettiva di dare alle parole un senso compiuto, si può giungere forse ad una soluzione condivisa, sulla scorta del ragionamento che segue.
Il comma 2 dell’art. 7 del Decreto c.d. “trasparenza”, n. 104/2022, prevede attualmente che: “il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.
Va da sé che, come anticipato, si tratta di un enunziato linguistico contrario alle regole della matematica, poiché la previsione è priva di un termine di paragone utile ad operare la proporzione, atteso che non si può fare alcun confronto fra una durata a termine e una a tempo indeterminato (l’infinito, infatti, si sottrae a calcoli siffatti); dunque, la contraddizione fra le varie proposizioni normative è evidente.
Anche in questo caso, allora, si dovrà supporre, perché le parole utilizzate dal legislatore abbiano un senso, che si sia voluto, al pari che nell’articolo precedente, riscrivere una norma, ma evitando di abrogare la precedente (con risultati di massima confusione, come appare evidente).
La norma, quale risultante dalla modifica ora introdotta, dunque, dovrebbe leggersi nel senso che segue (a tal fine basta aggiungere “due punti” dopo la parola “superiore”): la proporzione di cui all’enunziato di esordio si instaura fra la durata della prestazione lavorativa e il tasso “di conversione” ora introdotto dal legislatore (un giorno di lavoro effettivo di prova ogni 15 di calendario) e prima assente; “in ogni caso [e dunque, a correzione della misura che discende dalla proporzione di cui ora si è detto] la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore [:] a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi [prima ipotesi], e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi [seconda ipotesi]”.
Perché la norma abbia senso, si deve intendere che solo questi ultimi limiti abbiano carattere di Norma
indisponibile (al pari di quanto previsto dall’art. 10 della legge n. 604/66), mentre il principio di proporzionalità sembrerebbe operare solo in via dispositiva, di modo che spetta senz’altro alla contrattazione collettiva e, in assenza di questa, all’autonomia individuale, determinare in concreto la durata del periodo di prova, nel rispetto però di un intervallo che va da 2 sino ad un massimo di 15 (ovvero di 30) giorni, secondo la durata del contratto a termine.
Resta ovviamente non regolata l’ipotesi di un contratto di durata superiore a dodici mesi, come per esempio per i dirigenti o per i casi particolari di cui all’art. 23 d. lgs. 81/2015: ma qui si può senz’altro
tornare ad applicare la regola proporzionale pura, e quindi il criterio di un giorno di prova effettiva ogni
15 (senza che possa operare il limite massimo di 30 giorni, poiché questo sembrerebbe riferito solo ai
contratti di durata fra sei e dodici mesi) di modo che, almeno per i dirigenti, sembrerebbe potersi superare anche il limite di cui alla legge n. 604, non applicabile a tale categoria.

4. Novità in tema di recesso per il lavoratore assente ingiustificato.
Anche in questo caso il legislatore interviene a mettere ordine in una questione che faceva fatica a trovare
soluzione espressa, malgrado fosse chiaro l’assetto di interessi sottostante alle norme: il problema è
conseguente all’introduzione di una forma speciale per le dimissioni, in conseguenza prima delle previsioni della legge n. 92 del 2012 e poi dell’art. 26, D.Lgs. 81/2015 (c.d. decreto “semplificazioni” nel quadro del Jobs Act), che rende impossibile considerare dimissionario il lavoratore che si sia assentato senza dare spiegazioni e per un tempo superiore all’assenza considerata giusta causa di licenziamento dalla contrattazione collettiva. Né il datore poteva ricorrere a quest’ultima soluzione invocando l’art. 2119 c.c., poiché, al di là delle difficoltà di comunicare il recesso ad un soggetto sostanzialmente irreperibile, restava la questione dei costi ormai da anni previsti in termini di incremento contributivo (c.d. ticket di cui all’art. 2 L. 92/2012).

La Legge, raccogliendo una soluzione già prospettata in giurisprudenza, aggiunge ora un comma 7-bis
in coda all’art. 26 del citato D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, prevedendo che: «In caso di assenza
ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o,
in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto
per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo». A tal fine è necessaria una comunicazione del datore all’Ispettorato con la quale si manifesta la volontà di far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro (ed a riguardo l’Ispettorato del lavoro, con una sua nota del 22 gennaio 2025 ha messo a disposizione un modello per la comunicazione, chiarendo anche a quale ufficio debba indirizzarsi).
Dunque, il legislatore torna “all’antico” e riconosce che, oltre al licenziamento del datore e alle dimissioni
del lavoratore è possibile che il rapporto venga meno per fatti concludenti, quindi all’esito di una
manifestazione di volontà del lavoratore, espressa non in forma scritta ma tacita e, in certa misura,
confermata da una circostanza inoppugnabile, quale la mancata presenza in servizio. In questi casi, e con
le precauzioni di cui alla norma in commento in caso di non imputabilità dell’assenza (per es. per il caso
di incidente stradale), non sussiste l’esigenza di una forma speciale, e non sorge l’obbligo al versamento
del ticket, in quanto la Naspi non è dovuta in caso di disoccupazione volontaria.
Deve precisarsi che nessun obbligo di ricerca del proprio dipendente grava sul datore di lavoro, e che l’eventuale contatto che sia posto in essere dall’Ispettorato al fine di valutare le ragioni dell’assenza rientra fra gli ordinari poteri degli ispettori, di modo che basta un atto amministrativo,
quale la nota dell’Ispettorato sopra menzionata per rendere operativa questa possibilità.
Si deve anche ricordare che nella nota di cui sopra l’Ispettorato precisa che, fermo rimanendo l’effetto
interruttivo, i motivi alla base dell’assenza (ad es. mancato pagamento delle retribuzioni) potranno
essere oggetto di una diversa valutazione anche in termini di “giusta causa” delle dimissioni, rispetto
alle quali si provvederà ad informare il lavoratore dei conseguenti diritti.
Si tratta anche in questo caso di un potere già implicito nelle funzioni di vigilanza dell’INL, tanto che si
prevede pure la possibilità, attraverso la conciliazione “monocratica” di cui all’art. 11 D.Lgs. 124/2004, di
intervento degli ispettori al fine del pagamento della retribuzione dovuta al lavoratore.

5. Possibilità di costituire la riserva matematica presso l’INPS per danno da omissione contributiva ormai prescritto.
Anche l’ultima norma che si commenta (art. 30) sembra voler dialogare con la Giurisprudenza più recente in tema di risarcimento del danno da omissione contributiva, di cui all’art. 2116, co. 2°
c.c. precisandone il significato e correggendone un effetto indiretto. Si tratta di questione che ha trovato varie soluzioni nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni.
A mente della disposizione del codice civile che si è richiamata, l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata o irregolare
contribuzione, non siano tenuti a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute. Il risarcimento
può avvenire condannando il datore di lavoro, alternativamente, al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, o, in forma specifica, mediante la costituzione presso l’INPS di una rendita sostitutiva del trattamento, perduto in conseguenza all’omissione suddetta. In quest’ultimo caso si procede facendo riferimento a quanto previsto dall’art. 13 della L. 12 agosto 1962 n. 1338, che quantifica l’importo a tanto necessario (c.d. “riserva matematica”) in una somma una tantum calcolata in relazione alla condizione soggettiva del pensionato, in applicazione di speciali tabelle, da ultimo emanate con il D.M. 31.8.2007 (in GU n. 258 del 6.11.2007) che tiene conto dell’età, del sesso del danneggiato e dell’eventuale presenza di soggetti titolati al trattamento dovuto ai superstiti.
Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria ex art. 2116 co. 2° c.c., che sorge solo dopo il prescriversi
del diritto dell’istituto alla contribuzione omessa (di durata quinquennale, secondo la giurisprudenza), è
decennale, secondo la regola generale dell’art. 2946 c.c., ma incerto è il dies a quo della decorrenza della
prescrizione. La giurisprudenza al riguardo, dopo varie oscillazioni, ha ritenuto da ultimo (Cass. 20
gennaio 2016 n. 986; Cass. 13 marzo 2003, n. 3756; Cass. 3 dicembre 2020 n. 27683; Cass. SS. UU. 14 settembre 2017 n. 21302) che l’azione di danno inizi a decorrere dalla data di prescrizione dei contributi, di modo che, decorsi quindici anni (5 + 10) dall’omissione, nessun ristoro è più possibile.
Poiché tuttavia, ai sensi dell’art. 13 L. n. 1338 del 1962, il lavoratore stesso può versare la relativa somma
all’INPS (e ciò costituisce per lui un vantaggio, sia perché il datore di lavoro può in ipotesi essere venuto
meno, sia perché ottiene subito la corresponsione mensile della prestazione pensionistica, senza
attendere l’esito del giudizio che nel frattempo promuoverà nei confronti del datore di lavoro
inadempiente per la restituzione della somma versata all’INPS), si era posto il problema se, liberato il datore dall’obbligazione risarcitoria, sussistesse comunque il diritto del lavoratore al versamento, in presenza dei particolari requisiti di prova scritta che caratterizzano da sempre questa fattispecie, al fine di evitare facili elusioni.
La legge in commento risponde ora positivamente al quesito aggiungendo all’art. 13 della citata Legge
12 agosto 1962, n. 1338, la previsione per cui: «Il lavoratore, decorso il termine di prescrizione per l’esercizio delle facoltà di cui al primo e al quinto comma [e cioè la richiesta di costituzione a spese del datore], fermo restando l’onere della prova previsto dal medesimo quinto comma, può chiedere
all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale la costituzione della rendita vitalizia con onere interamente a proprio carico, calcolato ai sensi del sesto comma».

6. Uno sguardo veloce alle altre disposizioni di legge.
Fra le tante altre disposizioni che la legge contiene, qui solo un accenno può farsi alle norme dirette a modificare la disciplina del medico competente (art. 1) o a quelle in tema di durata dell’intervento di integrazione salariale derivante dalla CIG (art. 6) o relative ai fondi bilaterali (artt. 8 e 9).
Varie disposizioni sono pure dedicate agli indebiti Inail e alla disciplina dell’apprendistato e alle attività
stagionali (art. 11).
All’art. 17 si legittima una particolare forma di parttime, nella quale il lavoratore viene a sommare attività
di lavoro subordinato a quella di lavoro autonomo (e tanto senza nessuna vera innovazione di legge, se non sul piano fiscale, e sulla base di un accordo collettivo nel settore credito, che ha avuto un certo
successo).

Parimenti all’art. 7 si prevedono norme apposite in tema di “legittimo impedimento” di cui alla legge 234
del 2021 (comma 927 segg.), giustificando l’eventuale ritardo del professionista in caso di particolari
vicissitudini personali o familiari, che rendano inesigibile la prestazione, altrimenti dovuta al cliente, o il rispetto dei termini imperativi di legge.

*Avvocato in Milano
Professore Ordinario Diritto del Lavoro
Università Cattolica di Milano

di Domenico Calvelli*

Eccoci al secondo appuntamento del 2025 con numerosi approfondimenti molto interessanti.
Molto utile apprendere che l’ATS Brianza ha attivato la Campagna informativa “Impariamo dagli errori” raccontando, sul sito Web aziendale, alcune dinamiche infortunistiche di casi indagati, con la speranza che l’informazione su questi eventi contribuisca a ridurre la possibilità del ripetersi di infortuni con le stesse dinamiche.
Il lavoro sembra diventato un’operazione senza attrito: tutto è più veloce, più efficiente, più immediato. Ma se l’immediatezza sostituisce la profondità…?
Segue, a ruota, il commento alla sentenza 2066/2025 della Suprema Corte di Cassazione: nella redazione del contratto individuale di lavoro sovente si dimentica l’importanza del patto di prova relegandolo a
semplice parametro numerico (i giorni).
La durata è certamente un aspetto importante, in quanto posticipa nel tempo il momento in cui il
rapporto di lavoro esce dall’area “non protetta” del recesso libero, sia per il datore di lavoro che per il
lavoratore, ed entra nell’area “protetta” del recesso giustificato, passaggio che implica la difficoltà di
licenziare un dipendente che non abbia violato alcun obbligo, nemmeno di diligenza, nel caso in
cui l’azienda voglia avvalersi del diritto di risolvere il rapporto di lavoro senza fornire alcuna motivazione e senza obbligo di dare un preavviso.
Non si deve, però, dimenticare che si tratta di un istituto, opzionale e non obbligatorio, che assolve a una funzione molto importante: consentire all‘imprenditore e al prestatore di fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova.
Quanto alle modifiche legislative del trattamento del prestito o distacco di personale ai fini IVA, si spiegano le ragioni del Legislatore. Di fatto, il suo intervento ha adeguato la normativa italiana alla Direttiva IVA europea, tenendo conto di quanto stabilito con sentenza dell’11 marzo 2020 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la quale, intervenendo in una specifica causa, ha sancito che il distacco di personale costituisce un’operazione rilevante ai fini Iva quando sussiste un “nesso diretto tra le due prestazioni”, ovvero tra il servizio reso e il corrispettivo ricevuto, e ricorre “l’onerosità della prestazione” essendo “irrilevante, a tale riguardo, l’importo del corrispettivo, in particolare la circostanza che esso sia pari, superiore o inferiore ai costi che il soggetto passivo ha sostenuto a suo carico nell’ambito della fornitura della sua prestazione”.
Per espressa previsione normativa, l’assoggettamento ad IVA riguarda esclusivamente i distacchi di
personale stipulati per la prima volta a decorrere dal 2025 o rinnovati sempre a decorrere dal 1° gennaio
del corrente anno.
In tal modo, sono state fatte salve tutte le fattispecie pregresse (fino al 31/12/2024).
Si piomba poi su di un argomento molto attuale: la parità di genere è riconosciuta a livello internazionale
come un elemento chiave per lo sviluppo sostenibile.
L’uguaglianza tra uomini e donne è infatti il quinto obiettivo dell’Agenda 2030 dell’ONU, un programma
globale che mira a promuovere il benessere sociale, economico e ambientale attraverso 17 Obiettivi di
Sviluppo Sostenibile (SDGs).
Uno degli obiettivi fondamentali è quello di ridurre le disparità di genere, garantendo opportunità eque
per tutte le persone e favorendo la crescita lavorativa, umana e sociale delle donne.
La presenza femminile nei vari ambiti della società non deve essere considerata solo in termini numerici, ma come un presupposto essenziale per il raggiungimento di traguardi chiave, tra cui la tutela dell’ambiente, la lotta alla povertà e la promozione della giustizia sociale.
Per rispondere a queste sfide, la Prassi di Riferimento UNI/PdR 125:2022, pubblicata dall’Ente Italiano di Normazione (UNI) il 16 marzo 2022, fornisce un quadro di riferimento per le organizzazioni che intendono adottare politiche concrete per la parità di genere.
Una simpatica divagazione letteraria porta poi un componente del nostro comitato di redazione a scrivere, romanticamente, di “riflessioni notturne di un giuslavorista a Venezia”: le qualità personali del nostro e il segreto professionale mi spingono dall’astenermi da ogni anticipazione o spoiler: leggete e… la libertà vi renderà liberi.
Tornando a bomba al più prosaico mondo delle norme, in materia di fringe benefit, nella recente Legge di Bilancio 2025, vengono analizzate alcune novità. Un primo segnale interessante che si coglie è la conferma di interventi introdotti negli anni precedenti, ma questa volta con un respiro di stabilità più ampio, nella maggior parte dei casi di periodicità triennale. Ciò permette di pianificare politiche di
welfare aziendale ma soprattutto di considerare il welfare all’interno di accordi di secondo livello, di
norma ultrannuali.
E ancora: pubblichiamo tutta una serie di risposte a quesiti vertenti sulla questione impatriati.
Utile, vero?
Grazie dunque ai nostri prolifici contributori.
Leggere la nostra rivista, sussistente grazie al proficuo concorso di studiosi della materia, non sarà certamente obbligatorio per Legge ma… maledettamente utile per maturare una consistente consapevolezza, progressiva, sulla materia.

*Direttore Responsabile

La Commissione di Certificazione dei contratti di lavoro è stata istituita in Italia con il Decreto Legislativo n. 276/2003 (Decreto Biagi) per rispondere alla crescente esigenza di maggiore chiarezza e trasparenza nei rapporti di lavoro. L’obiettivo principale è verificare che i contratti di lavoro siano conformi alla normativa nazionale e ai diritti dei lavoratori, garantendo sia la correttezza delle caratteristiche contrattuali sia la qualificazione adeguata del rapporto di lavoro.

Accanto alla funzione di ridurre il contenzioso, la legge assegna alle Commissioni di certificazione anche altri compiti volti a raggiungere diversi obiettivi, come supportare le parti nel chiarimento della loro volontà negoziale o consentire la cosiddetta “derogabilità assistita”, ovvero la possibilità di derogare a clausole o diritti disponibili con l’assistenza di un terzo soggetto.


Funzioni principali delle Commissioni

  • Certificazione dei contratti di lavoro (art. 75, D.Lgs. 276/2003): garantire una qualificazione chiara e certa dei rapporti di lavoro.
  • Certificazione dei contratti di appalto (art. 84): distinguere tra appalto legittimo e somministrazione di lavoro non conforme.
  • Certificazione di rinunce e transazioni riguardanti i diritti derivanti da un rapporto di lavoro, rendendole inoppugnabili ai sensi dell’art. 2113 c.c. (art. 82).
  • Consulenza e assistenza alle parti contrattuali: focalizzata sulla disponibilità dei diritti e sulla corretta qualificazione dei contratti di lavoro (art. 81).
  • Certificazione delle clausole compromissorie: le parti scelgono di affidare eventuali controversie a un collegio arbitrale (art. 31, legge 183/2010).
  • Certificazione dell’assenza dei requisiti per applicare la disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione (art. 2, D.Lgs. 81/2015).

Ambiti di applicazione

La certificazione dei contratti di lavoro può essere effettuata da diverse commissioni istituite presso:

  • Ispettorati Territoriali del Lavoro (ITL).
  • Università (pubbliche o private) e fondazioni universitarie attraverso i dipartimenti specializzati in diritto del lavoro.
  • Ordini professionali dei consulenti del lavoro.
  • Enti bilaterali.

di Matteo D’Ambrosio
Noi & il lavoro | Gennaio – Febbraio 2025 – Anno V n. 1


Esempio pratico

Un esempio concreto della fattibilità e dell’utilità della Commissione è rappresentato dalla convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e l’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma, che ha dato vita a una collaborazione concreta e mirata.

La certificazione può essere attivata su iniziativa volontaria, tramite richiesta del prestatore di lavoro o del datore di lavoro.


Il processo di certificazione

Il processo si articola in diverse fasi:

  • Presentazione dell’istanza
  • Verifica della documentazione
  • Eventuale audizione delle parti
  • Rilascio del certificato, qualora i requisiti siano soddisfatti

La procedura deve essere completata entro 30 giorni dalla ricezione della domanda o dalle integrazioni eventualmente richieste dalla Commissione. È possibile presentare ricorso al TAR entro 60 giorni dalla notifica del provvedimento di certificazione.

Al termine del processo, la Commissione redige un atto formale di certificazione, avente valore di provvedimento amministrativo motivato. Tale atto:

  • Specifica i mezzi di impugnazione disponibili
  • Indica i termini per farvi ricorso
  • Identifica l’autorità competente
  • Include gli effetti civili, amministrativi, previdenziali e fiscali legati alla certificazione

Per i contratti già in atto, gli effetti della certificazione si applicano retroattivamente all’inizio del rapporto, se la Commissione verifica che il contratto sia stato attuato conformemente ai termini da certificare. Per i contratti sottoposti a certificazione prima della firma, gli effetti decorrono solo dopo la sottoscrizione, incluse eventuali integrazioni o modifiche deliberate dalla Commissione.

La certificazione può essere opposta, fino a una sentenza definitiva, a soggetti terzi come:

  • Organismi ispettivi e di vigilanza
  • Istituti previdenziali e assistenziali
  • Amministrazione finanziaria
  • Ispettorato Nazionale del Lavoro

L’opposizione può essere invalidata qualora un magistrato civile o amministrativo accolga uno dei ricorsi previsti dalla legge.


Motivi di opposizione

I principali motivi di opposizione includono:

  1. Errore nella qualificazione del rapporto di lavoro, dovuto a disaccordi tra organismi di controllo (es. INPS e INL) sulla natura subordinata o autonoma.
  2. Vizi formali o procedurali, come la mancata audizione delle parti o l’incompletezza della documentazione, che possono portare all’annullamento della certificazione.
  3. Contrarietà alla normativa vigente, se vengono violate norme inderogabili o contratti collettivi, in particolare in relazione a diritti fondamentali (ferie, retribuzione minima, sicurezza sul lavoro).
  4. Frodi o abusi nella certificazione da parte del datore di lavoro, finalizzati a mascherare sfruttamento o a eludere obblighi contributivi e fiscali.
  5. Ricorsi giudiziari:
    • Ricorso ex art. 80, D.Lgs. n. 276/2003, per impugnare l’atto presso il tribunale del lavoro.
    • Ricorso amministrativo, presentabile presso il giudice amministrativo per questioni di legittimità del provvedimento.

Fintanto che non venga emessa una sentenza definitiva di annullamento, la certificazione mantiene la sua efficacia legale e vincolante; durante tale periodo, gli Organismi di vigilanza non possono modificare la qualificazione del contratto certificato.


Confronti internazionali

Adottando una prospettiva più ampia, si possono individuare meccanismi analoghi in altri paesi, sebbene con approcci differenti:

  • Regno Unito: Gli “Employment Tribunals” risolvono controversie lavorative, ma non esiste un sistema preventivo di certificazione.
  • Francia: I “Conseils de Prud’hommes” trattano le dispute contrattuali solo quando sorgono.
  • Germania: I Tribunali del lavoro intervengono ex post, una volta sorte le controversie.
  • Stati Uniti: Il Dipartimento del Lavoro (DOL) e l’IRS monitorano la classificazione dei lavoratori, ma manca un meccanismo preventivo simile a quello italiano.

Considerazioni finali

In qualità di giovane commercialista, ritengo che la Commissione di Certificazione dei Contratti di Lavoro rappresenti un istituto di notevole supporto, in grado di garantire maggiore chiarezza e sicurezza per le parti stipulanti. Sebbene presenti vantaggi evidenti, la certificazione non risolve tutti i problemi: la complessità, la burocrazia e la non totale vincolatività possono dissuadere le piccole e medie imprese dall’adottarla, soprattutto in relazione a costi e tempi lunghi rispetto a benefici immediati.

Si auspica, inoltre, una maggiore semplificazione e accessibilità all’istituto, supportata da:

  • Digitalizzazione dei processi
  • Creazione di un team di esperti qualificati in grado di fornire supporto e consulenze a costi sostenibili

L’Italia si distingue come l’unico paese, tra quelli analizzati, ad aver istituito un sistema di certificazione preventiva, anticipando le controversie e promuovendo una visione proattiva e innovativa del diritto al lavoro, in linea con i principi sanciti dall’art. 4 della Costituzione.

ODCEC Napoli

La Legge di Bilancio per il 2025 ha modificato in maniera rilevante la tassazione del reddito di lavoro
prevedendo una detrazione e un trattamento integrativo aggiuntivi per titolari di redditi entro determinate fasce, rimodellando le detrazioni per figli e familiari a carico, concludendo con l’introduzione di un tetto complessivo al limite di detrazione collegato al doppio requisito redditonumero di figli presenti all’interno del nucleo familiare.

L’eliminazione dell’esonero contributivo, previsto fino al 31.12.2024 per la generalità dei dipendenti ha modificato il cuneo fiscale sui redditi da lavoro dipendente con una configurazione molto differente alla precedente in cui emerge un vantaggio per le famiglie con un numero di figli a carico superiori a due, ma vediamo nel dettaglio la nuova struttura.

L’art. 1 della Legge di Bilancio per il 2025 conferma e stabilizza le tre aliquote IRPEF introdotte dal D.lgs. 216/2023 oltre a confermare e stabilizzare le detrazioni già previste dal periodo d’imposta 2024 per redditi da lavoro dipendente.

La Legge di Bilancio Introduce, una nuova detrazione per i titolari di reddito da lavoro dipendente superiore a 20.000 euro ed entro i 40.000 euro modulata come nella tabella seguente:

Infine, prevede un trattamento integrativo aggiuntivo rispetto al trattamento integrativo introdotto dall’art. 1 del DL 3/2020, per i soli titolari di redditi entro i 15.000 euro, il già menzionato trattamento integrativo determinato in misura % andrà ad affiancarsi al precedente secondo il seguente schema:

La Legge di Bilancio ha inoltre modificato le detrazioni per figli a carico con età superiore a 21 anni, introducendo un tetto al limite di età per considerarli fiscalmente a carico, fissandolo nel trentesimo anno di età, con la sola esclusione per i figli disabili ai sensi della Legge 104. Per gli altri familiari fiscalmente a carico è stata mantenuta esclusivamente la detrazioni di 750 euro per gli ascendenti conviventi.
A completamento è stato introdotto un tetto alle detrazioni complessive per i titolari di redditi superiori a 75.000 euro, da modulare in base ad un coefficiente crescente per nuclei familiari composti da un numero di figli non superiore a due

Per i nuclei familiari con tre e più figli non si applica alcuna riduzione al tetto delle detrazioni complessivamente ammesse in riduzione delle imposte per ciascun anno.
Dal predetto tetto rimangono escluse le detrazioni per: spese sanitarie, le somme detraibili per investimenti in start-up o pmi innovative, interessi passivi su mutui contratti fino al 31.12.2024 e per premi di assicurazione relativi al rischio morte/ invalidità permanente o rischi catastrofali contratti entro lo stesso termine.

Rimangono escluse dal tetto anche le quote annue per interventi di recupero del patrimonio edilizio, riqualificazione energetica, super bonus ecc… per interventi conclusi fino al 31.12.2024.

La modifica della tassazione dei redditi di lavoro dipendente è stata accompagnata dall’eliminazione dello sgravio posto a favore della generalità dei dipendenti cancellando la precedente riduzione prevista fino al 31.12.2024.

La legge di bilancio introduce uno sgravio della quota IVS limitato alle madri lavoratrici.
Il predetto sgravio è riservato agli anni 2025 e 2026 alle lavoratrici dipendenti, autonome anche titolari di redditi da partecipazione che abbiano almeno due figli di cui il minore di età non superiore a 10 anni di età, mentre dal 2027 sarà limitato alle madri di almeno tre figli di cui il minore non abbia superato i 18 anni di età.

Il predetto sgravio non sarà cumulabile con il bonus mamme già introdotto dalla Legge di bilancio per il 2024 e ancora in vigore fino al 2026 per le madri di tre e più figli. Dalla lettura congiunta della normativa si deduce pertanto un rilevante vantaggio per i nuclei familiari numerosi e una riduzione della tassazione per i redditi superiori a 20.000 con invarianza di tassazione o aumento delle trattenute complessive per i redditi più bassi.

Tuttavia alla data odierna non è ancora possibile misurare l’impatto complessivo in quanto non è ancora nota la misura dello sgravio riservato alle madri che dovrà essere stabilito da un decreto congiunto tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Mise.

*ODCEC Lucca

di Oriana Costantini* e Bruno Anastasio**

L’ENASARCO (Ente Nazionale Assistenza per gli Agenti e i Rappresentanti di Commercio) è una fondazione assistenziale per la gestione della previdenza obbligatoria e l’assistenza dei professionisti che svolgono intermediazione commerciale e finanziaria con contratto di agenzia o di rappresentanza.

Le prestazioni previdenziali gestite dall’Enasarco sono di tipo integrativo. Infatti, sia gli agenti che i rappresentanti di commercio sono soggetti a doppia contribuzione: la prima da effettuare all’Inps alla Gestione Commercianti e la seconda da effettuare ad Enasarco.

L’Enasarco (inizialmente ENFASARCO) viene istituito nel 1939, dal Regio Decreto n. 1305 del 06 giugno 1939 ed oggi gestisce più di trecentomila posizioni contributive attive e centomila ditte mandanti obbligate alla contribuzione.
Sono obbligati all’iscrizione al Fondo di previdenza Enasarco tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio che operano in forma individuale, societaria o associativa, indipendentemente dalla tipologia giuridica della società, che operano su tutto il territorio nazionale per conto di aziende mandanti italiane o straniere e che abbiano sede in Italia. Si precisa che gli agenti che operano in
forma societaria, sia essa di capitali o di persone, sono tenuti all’iscrizione in Enasarco ed in particolar modo, per le società in nome collettivo tutti i soci devono essere iscritti obbligatoriamente all’Enasarco; mentre per le società in accomandita semplice l’obbligo vige solo per i soci accomandatari salvo casi particolari previsti dall’art. 2314 comma 2 del Codice Civile, che disciplina i soci
accomandanti che prestano il loro consenso a far sì che il loro nome sia compreso nella ragione sociale e che in virtù di questo rispondono di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari.

L’iscrizione deve avvenire ad opera della ditta mandante, che ha l’obbligo di provvedervi entro trenta giorni dalla sottoscrizione del mandato. Al momento della prima iscrizione viene assegnato il numero di matricola all’agente (di cui si andrà ad indicare se trattasi di agente plurimandatario o monomandatario), il numero di posizione alla ditta mandante e il numero identificativo alle società di agenzia.

Il contributo previdenziale obbligatorio, da calcolarsi su tutte le somme dovute all’agente a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di agenzia anche se non ancora liquidate, compresi acconti e premi, è del 17% e viene versata dalla ditta mandante, che ne è responsabile, trimestralmente. L’8,50% è a carico dell’agente che applica la ritenuta in fattura, mentre l’altro 8,50% è a carico della ditta mandante.

Fanno eccezione i preponenti che si avvalgono di agenti che svolgono la loro attività in forma di società di capitali. In questo particolare caso, l’aliquota contributiva complessiva è pari al 4%, di cui l’1% a carico dell’agente, mentre il tre 3% è a carico della ditta mandante.

Il contributo previdenziale è calcolato su tutte le somme dovute a qualsiasi titolo all’agente (provvigioni, rimborsi spese, premi di produzione, indennità di mancato preavviso) in dipendenza del rapporto di agenzia e viene versato all’Enasarco trimestralmente, secondo le seguenti scadenze: 20 maggio per le provvigioni maturate nel primo trimestre; il 20 agosto per le provvigioni maturate nel secondo trimestre; il 20 novembre per le provvigioni maturate il terzo trimestre ed infine il 20 febbraio dell’anno successivo per le provvigioni maturate il quarto trimestre.

Per il calcolo dei contributi si deve tener conto di un massimale e di un minimale provvigionale annuo. Per gli agenti plurimandatari il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 29.818 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 5.069,06 euro), mentre il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 502 euro (125,50 euro a trimestre). Per gli agenti monomandatari, invece, il massimale provvigionale annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 44.727 euro (a cui corrisponde un contributo massimo di 7.603,59 euro), mentre il minimale contributivo annuo per ciascun rapporto di agenzia è pari a 1.002 euro (250,50 euro a trimestre).

Inoltre, il 31 marzo di ogni anno la ditta mandante ha l’obbligo di elaborare e di versare la quota da accantonare al FIRR. L’importo del contributo FIRR, che è completamente a carico della ditta mandante, viene calcolato tenendo conto sia delle provvigioni liquidate nell’anno solare precedente, sia della tipologia del mandato (se plurimandatario o monomandatario) e sia dei mesi di durata del rapporto di agenzia: per i plurimandatari il calcolo del contributo avviene in questo modo: il 4% fino a 6.200 € di provvigioni, il 2% dai 6.200,01 a 9.300,00 di provvigioni e l’1% oltre i 9.300,00 di provvigioni maturate; per i monomandatari invece è previsto il 4% fino a 12.400,00€ di provvigioni, il 2% da 12.400,01 a 18.600,00 € e l’1% oltre i 18.600,00.

Che cosa è il FIRR? Il FIRR è il Fondo indennità di risoluzione del rapporto ed è costituto dalle somme che vengono accantonate presso Enasarco dalle aziende mandanti in favore dei propri agenti. Alla cessazione del mandato di agenzia, La Fondazione Enasarco liquida all’agente le relative cifre accantonate, applicando una ritenuta d’acconto del 20% per gli agenti che operano o in forma individuale o costituiti in società di persone. Entro 30 giorni dalla fine del rapporto di agenzia, il preponente, compilando il modello online presente in “Gestione mandati” deve dare comunicazione alla Fondazione, che provvederà alla liquidazione tramite bonifico bancario.

Da attenzionare è la quota di FIRR relativa all’ultimo anno di cessazione del mandato, in quanto questa deve essere corrisposta direttamente all’agente, operando la ritenuta d’acconto del 20% nel caso di agente individuale o società di persone, e non può essere in alcun modo versata direttamente all’Enasarco. L’importo versato all’agente e la ritenuta operata e successivamente versata all’Erario, saranno certificate dall’ENASARCO tramite l’invio al soggetto percipiente di una certificazione.

Una problematica importante, su cui è necessario far luce, è quella che si riscontra nella gestione di contratti con ditte mandanti estere. La normativa di riferimento ha subito diverse modifiche nel corso del tempo. Infatti, inizialmente la legge n. 12/1973 art. 5 comma 1 prevedeva “l’obbligo di iscrizione alla Fondazione ENASARCO per tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio che operano sul territorio nazionale per nome e per conto di preponenti italiani o preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia” oppure “l’obbligo per tutti gli agenti e i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”. Nel 2004, il Regolamento delle attività istituzionali Enasarco, all’art. 2 comma 1 stabiliva che “Sono obbligatoriamente iscritti al Fondo di previdenza della Fondazione tutti i soggetti che operino sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia.”

Nel 2013 il Regolamento delle attività istituzionali cambia nuovamente e cambia anche l’articolo 2 che al secondo comma ora recita: “Resta ferma l’applicazione delle norme dell’Unione Europea e delle convenzioni internazionali in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.” Poiché l’introduzione di tale modifica suscitò non pochi dubbi circa l’obbligo di iscrizione alla Fondazione Enasarco per gli agenti di ditte italiane operanti all’estero, la Confederazione dell’Industria Manifatturiera Italiana e dell’Impresa Privata propose interpello al Ministero del Lavoro, al cui quesito rispose la Direzione Generale per l’Attività Ispettiva del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il 19 novembre 2013, che ha previsto l’obbligo di iscrizione alla Fondazione ENASARCO per gli agenti di commercio italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri, anche se privi di sede o dipendenza in Italia agli agenti che risiedono in Italia e vi svolgono una parte sostanziale della loro attività; agli agenti che non risiedono in Italia, purché abbiano in Italia il proprio centro d’interessi; agli agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero, purché la durata di tale attività non superi i 24 mesi. Pertanto, ad oggi la normativa non lascia spazio più ad alcun dubbio di interpretazione: a norma del Regolamento delle Attività Istituzionali della Fondazione Enasarco la preponente straniera è obbligata al versamento dei contributi in favore dell’agente quando quest’ultimo operi sul territorio italiano, e la preponente abbia sede o una qualsiasi dipendenza (filiale, ecc…) in Italia. Rientrano in questa fattispecie anche gli agenti italiani operanti in zona estera, per conto di preponenti con sede o dipendenza in Italia, ma residenti in Italia dove svolgono la parte sostanziale dell’attività di agenzia diversa dalla mera visita personale ai clienti; per questi soggetti l’iscrizione e la contribuzione sono obbligatorie (come a suo tempo stabilito con O.d.S. n. 7/2004 del 26/4/2004 sotto la rubrica “Art. 2 – Obbligo di iscrizione al Fondo Previdenza”) ai sensi sia del comma 1 sia del comma 2, in applicazione dei principi dell’U.E., proprio perché parte sostanziale dell’attività è pur sempre svolta in Italia, ove non a caso si producono anche gli effetti giuridici rilevanti ai fini della normativa fiscale.

Nell’Unione Europea i sistemi previdenziali dei Paesi membri sono coordinati dal Regolamento C.E. 24 aprile 2004, n. 883, direttamente applicabile con forza di legge in ciascuno degli Stati membri. In virtù di tale Regolamento i preponenti dell’Unione Europea sono tenuti all’iscrizione e alla contribuzione presso la Fondazione: per gli agenti operanti in Italia, in virtù del principio della lex loci laboris che prevede parità di trattamento previdenziale e, quindi, di concorrenza fra tutti i lavoratori all’interno di uno stesso Paese; per gli agenti operanti in Italia e all’estero, purché l’agente risieda in Italia e vi svolga parte sostanziale della sua attività; per gli agenti operanti in Italia e all’estero che non risiedano in Italia, purché l’agente abbia in Italia il proprio centro d’interessi (valutato in riferimento al numero dei servizi prestati, alla durata dell’attività, alla volontà dell’interessato); per gli agenti operanti abitualmente in Italia e che si rechino a svolgere attività esclusivamente all’estero purché la durata di tale attività non superi i ventiquattro mesi. L’iscrizione alla Fondazione avviene sulla base di moduli predisposti in lingua inglese di contenuto analogo a quello previsto per i preponenti aventi sede o dipendenza in Italia.

Infine, se la preponente è extracomunitaria deve adempiere agli obblighi previdenziali italiani (e quindi al versamento dei contributi previdenziali Enasarco) se ciò è previsto da trattati o accordi internazionali tra l’Italia ed il Paese straniero, in cui la preponente ha sede. Nei casi diversi da quelli disciplinati al comma 1, è prevista la possibilità per l’agente di chiedere comunque alla Fondazione l’iscrizione dei rapporti di agenzia e, una volta ottenuta tale autorizzazione, di effettuare a suo esclusivo carico i versamenti contributivi. La facoltà di chiedere l’autorizzazione all’iscrizione e alla contribuzione sostitutiva, pertanto, può essere esercitata: dall’agente operante totalmente ed esclusivamente all’estero; dall’agente operante in Italia, totalmente o per una parte sostanziale, per conto di preponenti di Paesi esterni all’U.E. che non abbiano sottoscritto trattati o accordi internazionali di tutela sociale; dall’agente operante in Italia, totalmente o per una parte sostanziale dell’attività, per conto di preponenti dell’Unione Europea o per conto di Paesi esterni all’U.E. obbligati alla tutela sociale di diritto italiano in virtù di trattati internazionali. I contributi sostitutivi saranno determinati ai sensi degli articoli 4 e 5 del Regolamento delle Attività Istituzionali, senza differenze rispetto alle regole ivi dettate (aliquota contributiva da applicare su tutte le somme dovute all’agente, massimali provvigionali, minimali contributivi, ecc.). La domanda di iscrizione e di contribuzione sostitutiva potrà essere effettuata esclusivamente attraverso il modello predisposto dalla Fondazione che nel termine massimo di 90 giorni può rilasciare l’autorizzazione previe opportune verifiche. Nel corso di questi novanta giorni la Fondazione può richiedere anche documentazione integrativa atta a dimostrare la veridicità di quanto dichiarato dall’agente. Infine, ENASARCO fornirà le opportune linee guida per poter effettuare i versamenti contributivi.

La Fondazione Enasarco esercita un’importante attività ispettiva, per l’accertamento della natura del rapporto di agenzia e l’osservanza degli obblighi contributivi da parte delle ditte mandanti. L’attività ispettiva svolta dalla Fondazione produce annualmente migliaia di accertamenti con importanti risultati. Attraverso l’area riservata in Enasarco, le ditte possono denunciare spontaneamente i mancati versamenti; gli agenti possono segnalare la non osservanza degli obblighi contributivi da parte delle aziende. Di rilevante importanza è che l’omesso versamento dei contributi Enasarco per gli agenti di commercio non configura il reato di cui all’articolo 2 del D.L. 463/1983, ma è prevista la sola sanzione amministrativa disciplinata dall’articolo 36 del relativo regolamento. Tale reato, infatti, è previsto solo per le omissioni dei pagamenti (di importo superiore a 10.000 euro) relativi alle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei dipendenti, e non anche per quelle relative ad altre forme di ritenute previdenziali. La Cassazione con la sentenza n. 31900 del 03.07.2017 ha stabilito l’insussistenza del reato in caso di omesso versamento dei contributi previdenziali a danno di un agente di commercio. Diversa cosa accade invece per gli agenti che omettono il versamento alla ditta mandante di provvigioni riscosse dai propri clienti. Nella fattispecie del caso, si configura il reato di appropriazione indebita per il quale l’agente può essere denunciato e vedere risolto immediatamente il contratto di agenzia in essere.

*ODCEC Parma
**ODCEC Napoli

di Stefano Ferri*

Uno dei temi che si ripropongono quotidianamente nei nostri studi professionali è quello relativo alla subordinazione ed agli elementi che la caratterizzano, nonché degli aspetti probatori correlati.

A tal proposito una recentissima sentenza (7 ottobre 2024) della sezione Lavoro della suprema Corte di Cassazione, numero 26138, ha fornito elementi a mio parere utili per la difesa di parte datoriale a fronte di pretese non di rado prive di fondamento.

La fattispecie prende le mosse da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, che ha riformato la sentenza di primo grado accertando l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato e, di conseguenza, ha condannato al pagamento a favore del lavoratore delle differenze retributive e del trattamento di fine rapporto, oltre accessori di legge.

Segue ricorso del datore alla suprema Corte che cassa la sentenza impugnata con varie considerazioni di indubbio interesse. In primo luogo vengono richiamati i principi generali: costituisce requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato il vincolo di soggezione del prestatore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che si concretizza in ordini specifici e in un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative; tale requisito deve essere necessariamente apprezzato dal giudice di merito.

Di conseguenza, elemento discretivo tra rapporto di lavoro subordinato e rapporto di lavoro autonomo è il concreto atteggiarsi del potere direttivo del datore di lavoro, che non si deve limitare a direttive di carattere generale, compatibili anche con il rapporto libero professionale, ma deve esplicarsi in “ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa, stabilmente inserita nell’organizzazione aziendale”; viene quindi data continuità alla linea giurisprudenziale della Cassazione risalente, tra le numerose altre, alla ben nota sentenza n. 29646 del 16 novembre 2018.

Interessante e da tenere ben presente, per diversa fattispecie, è il chiarimento che “in caso di prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto; sicché, occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale”.

Tornando al caso in esame, i giudici della suprema Corte rilevano come la prova della subordinazione sia completamente mancata, sia in virtù delle dichiarazioni confessorie a sé sfavorevoli rese nell’interrogatorio formale del ricorrente e sia perché nessuno dei testi escussi ha saputo riferire quale fosse il ruolo del lavoratore e neppure cosa in concreto facesse; in un tale scenario non si può assolutamente parlare di coordinamento dell’attività lavorativa con l’assetto organizzativo aziendale e del relativo suo inserimento in esso. E in una fattispecie di questo tipo non è decisiva la provata presenza continuativa, in particolare perché non è emerso alcun esercizio di potere direttivo sul lavoratore.

Sulla base di tali affermazioni, la Cassazione conclude che la Corte d’Appello ha affermato la sottoposizione del lavoratore al potere direttivo datoriale senza alcuna prova, con conseguente errore di diritto con riferimento all’articolo 2697 del Codice Civile, censurabile dalla suprema Corte, in quanto il giudice ha attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata.

In sintesi, il giudice di merito ha ritenuto la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, non avendo parte datoriale assolto l’onere di gratuità della prestazione lavorativa stante la presunzione di onerosità, “posto che ogni attività oggettivamente configurabile come di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, salva la prova – da fornirsi da colui che contesti l’onerosità – che la stessa sia caratterizzata da gratuità (Cass. 3 dicembre 1986, n. 7158; Cass. 28 marzo 2017, n. 7925; Cass. 28 marzo 2018, n. 7703) – ma rilevante soltanto quando una tale presunzione sia radicabile su una prestazione lavorativa di natura subordinata, qui indimostrata”.

Viene quindi ribadita una linea ormai consolidata della Corte di Cassazione: l’elemento essenziale del rapporto di lavoro è costituito dall’eterodirezione, quindi dalla soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare datoriale, con correlati ordini specifici ed attività di vigilanza e controllo. Il giudice di merito non può sottrarsi all’apprezzamento di tali aspetti, anche in considerazione della tipologia di rapporto e tenuto conto, come indicato, che per prestazioni di natura intellettuale o professionale, l’assoggettamento del lavoratore a tali direttive si presenta in forma attenuata, quindi occorre fare riferimento ai criteri complementari e sussidiari indicati in sentenza (collaborazione, continuità delle prestazioni, osservanza di un orario determinato, versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, coordinamento dell’attività lavorativa assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, assenza in capo al lavoratore di struttura imprenditoriale).

*ODCEC Reggio Emilia