di Maurizio Falcioni*

 

Possiamo affermare che il Legislatore ha fortemente a cuore la figura del “volontario” in ambito sportivo; dal 2021, anno in cui si è voluto dare un svolta importante alla normativa in materia di sport dilettantistico con l’entrata in vigore del DLgs 36 a oggi, l’art.29 che regolamenta le prestazioni sportive dei volontari, ha subito ben tre modifiche legislative dettate da: art. 17 del Dlgs 163 del 05/10/2022 , dall’art. 1 del Dlgs 120 del 29/08/2023 e ultimo in ordine di tempo dall’art. 3 del DL 71 del 31/05/2024 (in vigore dal 01/06/2024).

E allora proviamo a fare il punto della disposizione con una analisi del testo al fine di rilevarne criticità e restrizioni.

Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva, anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a. possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari.

Utilizzando il termine attività istituzionali e non il termine attività sportive (che poi troviamo successivamente), la norma ammette la possibilità di utilizzare in generale prestazioni di volontariato, ma non poteva essere diversamente. In qualsiasi ente no profit, sportivo e non sportivo, è presente da sempre questa figura: associati e non che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Promuovere lo sport non solo come svolgimento di una attività sportiva ma anche di attività collaterali. Prendiamo a esempio il calcio, promuove lo sport anche chi pulisce gli spogliatoi, chi lava le maglie, chi riga e aggiusta il campo da gioco; sicuramente non è svolgere attività sportive, ma altrettanto sicuramente sono attività necessarie e indispensabili per promuovere lo sport.

A giustificazione, l’art. 29 sottolinea che “le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell’attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”. Prestazioni dei volontari sportivi che non sono retribuite in alcun modo, nemmeno dal beneficiario. Il termine utilizzato “non retribuite” è chiaro: al volontario non possono essere erogati compensi a titolo di retribuzione (che sia di natura subordinata che autonoma), ma nessuna normativa vieta di rimborsare al volontario, se richieste e concordate, le spese da lui sostenute nello svolgimento della propria attività gratuita a favore dell’ente associativo. Il volontario periodicamente (come da accordo con il sodalizio), predispone un elenco delle spese effettivamente sostenute (chiamiamolo pure un rimborso a piè di lista), con indicazione delle date e delle prestazioni di volontariato svolte, allegando la necessaria documentazione a giustificazione (fatture, scontrini fiscali, ricevute fiscali e non fiscali, biglietti di viaggio, etc. etc.).

È possibile fare rientrare anche il rimborso delle indennità chilometriche per l’utilizzo, da parte del volontario, del proprio automezzo? Certamente, se possiamo dimostrare che è una spesa effettivamente sostenuta, ma è assolutamente da attenzionare la procedura. Innanzitutto, è opportuno che il consiglio direttivo deliberi il rimborso al volontario anche per le indennità chilometriche, che nella delibera venga indicata marca, modello e targa dell’auto utilizzata dal volontario, oltre a reperire copia del libretto di circolazione dell’automezzo da tenere agli atti e utile per identificare il valore massimo del rimborso chilometrico in base alle tariffe elaborate dall’ACI.

È possibile rimborsare al volontario anche le spese sostenute dallo stesso nel proprio comune di residenza? Si ritiene che sia possibile, ma con una attenta valutazione dell’attività esercitata. Torniamo al nostro esempio del calcio. Se il volontario è l’addetto alla lavanderia sicuramente non sostiene alcuna spesa per tale prestazione, però potrebbe sostenere una spesa di trasporto (autobus) dalla propria abitazione all’impianto sportivo e tale spesa potrebbe essere oggetto di rimborso.

Se poi ad esempio la prestazione del volontario, utilizzando un proprio automezzo, è quella di “raccogliere” gli atleti dalle loro abitazioni per portarli all’impianto sportivo ove dovrà svolgersi la partita del campionato, corretto è il rimborso delle indennità chilometriche anche se il trasporto è effettuato all’interno del Comune di residenza del volontario e non può essere contestato il fatto che siano spese che ha effettivamente sostenuto.

Non è applicabile ovviamente al volontario la disposizione del c.5 dell’art.51 del DPR 917/1986 (determinazione del reddito di lavoro dipendente) quando stabilisce che sono reddito imponibile IRPEF i rimborsi di spese per le trasferte nell’ambito del territorio comunale, tranne i rimborsi di spese di trasporto comprovate da documenti provenienti dal vettore. Piuttosto possiamo prendere a riferimento la Risoluzione di AE n.38/E del 11/04/2014 che ammette il rimborso delle indennità chilometriche anche in contesto di territorio comunale. Le norme abrogate in materia di trattamento tributario dei proventi derivanti dall’esercizio di attività sportive dilettantistiche, secondo cui il territorio comunale di riferimento è quello ove risiede il soggetto interessato che percepisce l’indennità chilometrica .non possono che rimanere applicabili. In tal senso occorre far riferimento alle risoluzioni a corredo delle norme di cui al D. Lgs. 36/2021 ed ancora della L. 80 del 25/03/1986.

L’art. 29 entra nel merito del rimborso spese forfettario, stabilendo che ai volontari sportivi possono essere riconosciuti rimborsi forfettari per le spese sostenute per attività svolte anche nel proprio comune di residenza, nel limite complessivo di 400 euro mensili e che tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente.

È una disposizione che deve essere letta come una agevolazione contabile/amministrativa per il sodalizio sportivo.

Viene data la possibilità di erogare rimborsi spese in modalità forfettaria al volontario senza l’obbligo contabile, in capo all’Ente erogatore, di archiviare giustificativi di spesa, il prospetto del piè di lista, etc., ma, per evitare situazioni elusive, il legislatore ha stabilito che detto rimborso forfettario può essere al massimo di € 400,00 mensili per ogni singolo volontario.

Altro elemento di agevolazione è il fatto che il rimborso forfettario di spesa è ammesso per le spese sostenute dal volontario, anche in ambito del proprio comune di residenza, in tal senso la norma evidenzia che le spese siano effettivamente sostenute per evitare situazioni che potrebbero rappresentarsi elusive.

Esempio, posso pensare di erogare al volontario una somma forfettaria a titolo di rimborso spese di € 200,00 in quanto, con il proprio automezzo, ha trasportato gli atleti per una gara podistica da Roma a Bologna (e tra carburante, autostrada, usura auto, pranzo, etc. è una somma che certamente si sostiene per una trasferta del genere), ma non posso erogare un rimborso spese forfettario di € 200,00 al volontario che fa assistenza lungo il percorso della gara podistica e che ha la propria residenza nel Comune in cui ha sede la gara o in un Comune limitrofo, in quanto le spese per trasferirsi dalla propria residenza alla sede della gara sono certamente irrisorie.

Rimborsi spese forfettari quindi ammessi, ma la norma sottolinea che “in occasione di manifestazioni ed eventi sportivi riconosciuti dalle Federazioni sportive nazionali, dalle Discipline sportive associate, dagli Enti di promozione sportiva, anche paralimpici, dal CONI, dal CIP e dalla società Sport e salute S.p.a. purché questi ultimi individuino, con proprie deliberazioni, le tipologie di spese e le attività di volontariato per le quali è ammessa questa modalità di rimborso.”

Importante, pertanto, il ruolo degli Organismi di affiliazione che con proprie delibere provvedono a:

– Riconoscere manifestazioni ed eventi sportivi;

– identificare le tipologie di spese per le quali è ammessa la modalità di rimborso forfettario;

– individuare le attività di volontariato per le quali è altrettanto ammesso il rimborso forfettario.

La Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) con delibera del 01/11/2024 stabilisce che sono considerate manifestazioni ed eventi sportivi gare, tornei e altre manifestazioni organizzate dalla stessa FIGC e le attività di preparazione collegate allo svolgimento delle medesime gare, tornei e manifestazioni.

La Federazione Italiana di Atletica Leggera (FIDAL) con delibera del 07/10/2024 ritiene che vadano incluse, oltre alle prestazioni sportive svolte durante la competizione/evento, anche quelle realizzate in stretta prossimità dello stesso, purché connesse alla sua realizzazione (ad esempio l’allestimento di un percorso con transenne e il successivo smantellamento).

La FIGC considera attività di volontariato anche i soggetti non tesserati che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, senza fini di lucro, ma esclusivamente con finalità amatoriali (elenca il tipo di attività), tra cui troviamo accompagnatori degli atleti minori.

FIDAL considera attività di volontariato, ad esempio, chi elabora le classifiche, il videomaker, l’addetto alle premiazioni etc.

È importante ad ogni modo valutare con attenzione le delibere della Federazione e dell’Ente a cui l’associazione dilettantistica è affiliata.

Torniamo al limite del rimborso forfettario di complessive € 400,00 mensile.

È da considerarsi per ogni ente/organismo a cui il volontario presta la propria attività o è complessivo per tutte le realtà presso cui viene svolta la propria spontanea attività? La normativa non lo regolamenta e non abbiamo disposizioni di prassi da parte di Agenzia Entrate (come non abbiamo da AE alcun documento a commento del DLgs 36/2021), ma pensando sempre che l’art.29 è improntato ad evitare situazioni di elusione, logica vuole che il valore mensile di € 400,00 sia riferito all’attività volontaristica svolta presso tutti gli enti no-profit.

Così si esprimono anche alcune delibere di FN/EPS.

FIGC indica che il limite di € 400 mensile è un limite soggettivo riferito al singolo volontario sportivo, e non all’ente erogante, concetto, questo, che non è presente nella delibera della FIDAL, ma che invece viene ribadito nella delibera FIP (Federazione Italiana Pallacanestro) del 15/10/2024.

In considerazione di quanto sopra subentra comunque la necessità di chiedere al volontario una autodichiarazione attestante l’eventuale percezione, nel corso dello stesso mese, di ulteriori rimborsi forfettari erogati da altri enti/organismi. Autocertificazione necessaria, vedremo dopo, anche ai fini fiscali/contributivi.

Tale limite di € 400,00 mensile, è cumulabile o meno con un rimborso spese documentato? Anche questo elemento non viene commentato dall’art.29.

Non ci sono limitazioni normative all’utilizzo cumulativo dei due tipi di rimborso: documentato e forfettario. Partendo dal concetto iniziale che la possibilità del rimborso forfettario è intesa come una forma di agevolazione burocratica/amministrativa per il sodalizio sportivo, soprattutto per alcuni tipi di spesa. Ad esempio, nell’ambito di un trasporto di atleti fuori Regione, sarebbe facile rimborsare in maniera documentale il costo dell’autostrada o del ristorante e in maniera forfettaria (in quanto più semplice il conteggio) il rimborso della spesa del carburante. Alcune delibere inseriscono la limitazione. La delibera della FIGC sottolinea che il rimborso spese documentato non è cumulabile con quello forfettario, la delibera della FIDAL nulla indica, ma anche la delibera di FIP non ammette cumulare il rimborso spese forfettario con le spese documentate sostenute per la medesima manifestazione/evento sportivo.

Associazioni ed enti eroganti sono tenuti a comunicare i nominativi dei volontari sportivi che nello svolgimento dell’attività sportiva ricevono i rimborsi forfettari e l’importo corrisposto a ciascuno, attraverso il Registro Nazionale delle Attività Sportive Dilettantistiche (RASD), in apposita sezione del Registro stesso, entro la fine del mese successivo al trimestre di svolgimento delle prestazioni sportive del volontario sportivo.

Per dare la possibilità agli enti di attuare detto nuovo adempimento dettato dall’ultima revisione normativa dell’art. 29, il RASD ha da poche settimane aggiornato il sito, integrandolo con una partizione dedicata ai volontari.

Tale comunicazione è resa immediatamente disponibile, per gli ambiti di rispettiva competenza, all’Ispettorato nazionale del lavoro, all’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL).

L’art. 29 ha introdotto, sempre al fine di evitare forme di elusione, una particolare disposizione che sta suscitando più di una criticità. Nell’ultimo capoverso del comma 2 indica che detti rimborsi forfettari concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’articolo 35, comma 8-bis, e costituiscono base imponibile previdenziale al relativo superamento, nonché dei limiti previsti dall’articolo 36, comma 6.

Analizziamo il disposto dal punto di vista previdenziale:

– l’art. 35 c. 8-bis stabilisce che l’imposizione contributiva/assicurativa previdenziale, interviene sulla parte di compenso eccedente i primi € 5.000,00 annui;

– pertanto, per il calcolo di tale limite occorre considerare anche il rimborso spese forfettario erogato al volontario;

– vi è obbligo quindi, in capo all’associazione che eroga il compenso al proprio collaboratore sportivo, di sapere se lo stesso svolge anche attività di volontario presso altro Ente e l’importo complessivo del rimborso spese forfettario percepito fino a quel momento;

– così come è necessario che l’associazione che eroga il rimborso spese forfettario al proprio volontario, sia messa a conoscenza se lo stesso abbia percepito e in quale misura, compensi per collaborazione sportiva dilettantistica da altro Ente sportivo dilettantistico;

– tutti elementi che il volontario / collaboratore sportivo rilasciano all’Ente sportivo dilettantistico presso cui svolge la propria prestazione, tramite una autodichiarazione.

Vediamo ora cosa comporta sotto l’aspetto Erariale l’espressione “concorrono al superamento dei limiti di non imponibilità previsti dall’art. 36 c.6”:

– art.36 c.6 stabilisce che i compensi di lavoro sportivo dilettantistico sono esenti da imposizione fiscale fino all’importo complessivo annuo di € 15.000,00

– il successivo c. 6-bis obbliga il lavoratore sportivo a rilasciare, all’atto della percezione del proprio compenso, una autodichiarazione attestante l’ammontare dei compensi percepiti per le prestazioni sportive dilettantistiche rese nell’anno solare presso altri Enti sportivi dilettantistici;

– ricordiamo anche che al superamento di detto limite di € 15.000,00 si determina, in capo all’Ente sportivo che eroga il compenso di collaborazione sportiva, l’obbligo mensile di elaborare il prospetto paga (cedolino) al fine della regolamentazione dell’IRPEF a carico dello sportivo (art.28 c.4);

– ora, sempre tramite specifica autodichiarazione, quell’Ente sportivo dovrà anche essere a conoscenza di eventuale rimborso spese forfettario percepito dal collaboratore;

 

– se ad esempio:

1) dal 01/01/2024 al 31/10/2024 è stato erogato al collaboratore sportivo un compenso di € 13.500,00

2) se il 30/11/2024 si eroga allo stesso un ulteriore compenso sportivo di € 1.500,00, detta somma rimane ancora nell’alveo dell’esenzione dettata dall’art.36 c. 6 pari a € 15.000,00;

3) ma se il collaboratore dichiara al proprio committente sportivo (con l’autodichiarazione di cui all’art. 36 c.6bis) che nel mese di novembre 2024 ha percepito anche un rimborso spese forfettario di € 400,00 da altro Ente sportivo dilettantistico, si determina che il 30/11/2024, al momento dell’erogazione della somma di € 1.500,00, il collaboratore ha superato il limite di esenzione di € 15.000,00, determinando l’obbligo in capo al committente, di istituire il prospetto paga (cedolino).

Una disposizione, quella del rimborso spese forfettario mensile, che poteva sembrare essere nata per agevolare le attività amministrative degli Enti sportivi, ma che al contrario sta creando un ulteriore aggravio di burocrazia.

Ulteriore elemento di criticità è il disposto del comma 3 dell’art 29 quando indica che “le prestazioni sportive di volontariato sono incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l’ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva”.

Il dubbio che emerse subito leggendo il passaggio normativo era verso i membri dei consigli direttivi delle associazioni sportive dilettantistiche che svolgono il loro mandato a titolo gratuito e che, come tali, dovevano essere considerati “volontari”, con una incompatibilità in caso di svolgimento, da parte loro, anche di prestazioni sportive retribuite con compenso di collaborazione sportiva. In merito è intervenuto personalmente il Ministro dello Sport che con un comunicato della Presidenza del Consiglio del 15/01/2024, ha confermato che i membri del consiglio direttivo di un sodalizio sportivo, pur svolgendo gratuitamente il mandato loro conferito dall’assemblea dei soci, non rientrano nella categoria dei volontari; pertanto, non si ravvisano le incompatibilità dell’art.29 c.3., ove però, sottolinea il Ministro, qualora tali soggetti oltre a svolgere il mandato di presidente o consigliere, svolgono per la propria associazione/società sportiva dilettantistica anche attività di volontariato sportivo, in tali caso non potranno svolgere altro incarico di lavoro sportivo retribuito per la medesima associazione/società sportiva.

Il finale comma 4 dell’art. 29 obbliga “gli enti dilettantistici, che si avvalgono di volontari, di assicurarli per la responsabilità civile verso i terzi”.

Analizziamo la necessità / opportunità di un’eventuale delibera del consiglio direttivo dell’ente sportivo.

L’art. 29 non la richiede (a differenza di quanto prevedeva il comma 2 dell’art.29 prima delle modifiche apportate dal DL 71 del 31/05/2024), ma al fine di avere a disposizione una documentazione che possa essere utile a giustificare la veridicità del rapporto di volontariato, si consiglia di predisporre quanto segue:

– dichiarazione del soggetto disponibile a svolgere attività di volontario all’interno della asd/ssd;

– delibera ad acquisire il volontario e limiti e modalità dei rimborsi spese allo stesso;

– lettera di incarico sottoscritta da asd/ssd per l’attività di volontariato, al soggetto che ha dato la propria la propria disponibilità.

Per concludere la normativa del volontario dettata dall’art. 29 può essere applicata alle società sportive professionistiche? La domanda nasce dal fatto che la prima stesura dell’art. 29 al primo comma, identificando le realtà che potevano avvalersi delle attività di volontari, indicava società e associazioni sportive dilettantistiche; con la prima modifica legislativa del DLgs n.163 del 05/10/2022 il termine dilettantistiche scompare e rimane solo società e associazioni sportive e da qui il dubbio.

Si ritiene il disposto dell’art. 29 inapplicabile alle società sportive professionistiche non solo perché il fine societario di una società professionistica è assolutamente inadeguato al principio di una attività volontaristica, ma anche perché da un punto di vista strettamente tecnico l’art. 29 indica:

  1. a) al primo comma in riferimento alle “attività istituzionali” e tali non sono quelle di una società professionistica;
  2. b) l’adempimento di comunicare i nominativi al RASD dei volontari che percepiscono rimborso spese forfettari è inattuabile per le società professionistiche in quanto non iscrivibili nel RASD.

*ODCEC Rimini

di Fabiano D’Amato*

 

Di recente introduzione, la c.d. Patente a crediti è stata istituita dall’art. 10 comma 19 del D.L. 2 marzo 2024, n. 19, convertito in Legge 29 aprile 2024 n. 56.

La norma in questione ha infatti modificato in tal senso l’articolo 27 del D.Lgs. n. 81/2008.

Successivamente, norme di dettaglio sono state fornite dal D.M. 24.9.2024, n. 132, mentre la prassi principale è legata alla Circolare I.N.L. n. 4 del 23.9.2024 ed in parte alle FAQ successivamente pubblicate dall’Ispettorato stesso.

La richiesta deve essere effettuata online sul portale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma per il solo mese di ottobre era stata prevista la possibilità, nelle more della effettuazione della richiesta telematica, di inviare un modello contenente le autocertificazioni e dichiarazioni sostitutive richieste a mezzo PEC agli indirizzi indicati dall’Ispettorato del Lavoro.

Il mancato possesso del documento, qualora tenuti, espone a pesanti conseguenze sanzionatorie.

Si ritiene utile evidenziare che i requisiti per l’ottenimento della patente in questione non costituiscono una novità, essendo già previsti da tempo dalla normativa vigente.

I soggetti interessati, sono tutte le imprese ed i lavoratori autonomi che operano nei cantieri temporanei o mobili, secondo la definizione contenuta nell’art. 89 del D. Lgs. n. 81/08.

Vale la pena di ricordare i principali requisiti richiesti ai fini del rilascio, come elencati, fra l’altro, dalla circolare INL n. 4:

  1. a) iscrizione alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
  2. b) adempimento, da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti, dei preposti, dei lavoratori autonomi e dei prestatori di lavoro, degli obblighi formativi previsti dal D.lgs. n. 81/2008;
  3. c) possesso del documento unico di regolarità contributiva in corso di validità;
  4. d) possesso del documento di valutazione dei rischi, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  5. e) possesso della certificazione di regolarità fiscale, di cui all’art. 17-bis, commi 5 e 6, del D.lgs. n. 241/1997, nei casi previsti dalla normativa vigente;
  6. f) avvenuta designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nei casi previsti dalla normativa vigente.

Specifiche disposizioni sono previste per i soggetti esteri e, per quanto riguarda le esclusioni, per i prestatori d’opera intellettuale e per coloro che effettuano mere forniture, nonché per chi sia in possesso di attestazione SOA di categoria III o superiore.

Nel tempo, oltre le norme e la prassi provenienti dagli enti preposti, sono state diffuse, come sopra evidenziato, risposte alle domande più frequenti.

Alcuni dubbi permangono, e per citare alcune questioni esemplificative, si prenda ad esempio la FAQ n. 11, emendata il 6.11.2024 rispetto alla sua iniziale estensione.

La risposta riguarda il professionista “operante fisicamente” in un cantiere in qualità di archeologo, professione che la FAQ stessa evidenzia come non soggetta ad iscrizione ad uno specifico Albo; a riguardo precisa la risposta: “Considerato che, per la richiesta della patente da parte di una impresa o lavoratore autonomo italiano, il campo “iscrizione alla CCIAA” è obbligatorio, per gli archeologi lavoratori autonomi tale dichiarazione va intesa come indicativa dei necessari requisiti professionali, come il possesso della partita IVA e l’iscrizione alla Gestione separata”.

Senza entrare nel merito, scopo fuori portata per questo breve scritto, del dubbio se sulla base di una risposta ad una FAQ (anche se certamente di fonte autorevole) una autocertificazione di iscrizione ad un determinato ente possa essere intesa eventualmente come di possesso di altri requisiti, l’inclusione di una libera professione come quella dell’archeologo pone, a parere di chi scrive, l’ulteriore dubbio se l’esercizio in un cantiere di altra libera professione che comporti l’iscrizione, ad esempio, ad un albo professionale, possa ricadere nell’obbligo, qualora ad esempio il professionista si trovi ad essere a qualche titolo presente in cantiere.

In altre parole, la domanda potrebbe essere: come si distingue oggettivamente la prestazione d’opera intellettuale, rispetto alla prestazione di un professionista che operi fisicamente all’interno di un cantiere?

Questo anche perché la circolare n. 4 dell’INL di cui sopra si è esposto, ribadisce come siano compresi tra i soggetti destinatari della norma “le imprese – non necessariamente qualificabili come imprese edili – e i lavoratori autonomi che operano “fisicamente” nei cantieri.

Un ulteriore chiarimento sarebbe auspicabile.

Altra questione riguarda l’obbligo del possesso del cosiddetto DURF di cui alla lettera e) dei requisiti sopra evidenziati, in particolare, per coloro che non possano entrare in possesso di tale documento, quali i soggetti che siano in attività da meno di tre anni.

Orbene, sia dottrina che prassi della Agenzia delle Entrate specificano che il possesso del DURF è alternativo agli adempimenti in presenza di appalti c.d. “Labour intensive”, secondo quanto previsto dalla normativa.

Chi operi in coerenza con detti adempimenti, potrebbe essere considerato non soggetto all’obbligo di possesso del “DURF”?

Anche per questo aspetto sarebbe necessario un chiarimento, e nello specifico anche se sul modello di domanda vada considerata la dicitura “esenzione giustificata” o “non obbligatorio”; nel primo caso sembra rientrare il caso dell’adempimento dell’appaltatore nei confronti del committente la cui alternativa è il possesso del DURF 1.

Per concludere questa breve disamina di alcune questioni connesse al nuovo obbligo previsto, si evidenzia un ulteriore adempimento connesso: quello previsto dall’art. 1 comma 6 del D.M. 132/2024, che prevede che i soggetti tenuti alla presentazione della domanda per l’ottenimento della “Patente a crediti” informino della presentazione della domanda stessa il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale entro cinque giorni dal deposito.

Risultando la nomina di una delle due figure (RLS ed RLST) alternativa all’interno delle questioni riguardanti la sicurezza sul lavoro di ciascuna azienda, sarebbe auspicabile un chiarimento su chi sia il destinatario della comunicazione di presentazione della domanda della “Patente” tra i due destinatari.

Concludendo, le questioni in evoluzione sono tante e verosimilmente verranno “dipanate” con l’evoluzione dell’istituto.

C’è da confidare che chi è deputato ad effettuare i controlli connessi tenga in considerazione gli aspetti controversi nella applicazione dello stesso.

In tal senso sembra muoversi la possibilità di procedere alla correzione di errori materiali riscontrati sulla richiesta online, previa segnalazione della presenza eventuale di tali errori all’INL (Avviso pubblicato il 30.10.2024).

*ODCEC Roma

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1 Si vedano per ulteriori considerazioni: Circolare Agenzia delle
Entrate 12.2.2024 n. 1, e, ad esempio: Pagano M. “Requisito
del DURF controverso per il rilascio della patente a punti”, su Il
Quotidiano del Commercialista, www.eutekne.info, 2.10.2024;
Carpentieri C. “Patente a crediti e obbligo del DURF: quando si
presentano le deleghe F24 “ al committente si è “esenti giustificati””
IPSOA Quotidiano 15.11.2024

di Paolo Soro*

 

Nella Gazzetta Ufficiale n. 236 del 08.10.2024 è stata pubblicata la Legge 07/10/2024 n. 143, di conversione, con modifiche, del decreto-legge 9 agosto 2024, n. 113, recante misure urgenti di carattere fiscale, proroghe di termini normativi e interventi di carattere economico. Per quanto di interesse in questa sede, l’art. 6 del decreto (tassazione dei redditi di talune categorie di lavoratori frontalieri) determina ulteriori novità nel settore che si applicano già a decorrere dal periodo d’imposta 2024 (ultimo comma della disposizione in parola).

Prima di tutto, però, è il caso di fare un breve riepilogo delle sottostanti vicende normative.

Dopo anni di trattative, il 23 dicembre 2020 l’Italia e la Svizzera hanno firmato un nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri che ha sostituito il precedente Accordo del 1974. Tra il 2021 e il 2023, i parlamenti dei due Stati hanno poi adempiuto ai passaggi necessari per la traduzione del testo in Legge dello Stato. Il 1° luglio 2023, con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Legge italiana di ratifica 83/2023, è avvenuto l’ultimo di questi passaggi. Infine, il 18 luglio 2023, Italia e Svizzera hanno proclamato ufficialmente l’entrata in vigore del nuovo Accordo sulla tassazione dei lavoratori frontalieri, definendo anche le norme transitorie che disciplinano le differenti regole cui sono soggetti i “nuovi frontalieri” rispetto agli “attuali frontalieri”. In sostanza, restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974 per quanto attiene ai c.d. “attuali frontalieri”. Viceversa, coloro i quali arrivano nel mercato del lavoro come frontalieri a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo Accordo 2020, saranno considerati come “nuovi frontalieri” e, a essi, si applicherà il regime ordinario stabilito dall’ Accordo 2020. Ma torneremo più avanti sul punto.

Svolta questa necessaria premessa al fine di fornire una visione generale d’insieme, occorre ora preliminarmente ricordare come vengono inquadrati i frontalieri dalla normativa comunitaria. L’art. 1, lett. B, Reg. 1408/71/CEE, stabilisce che:

Il termine «lavoratore frontaliero» designa qualsiasi lavoratore che è occupato nel territorio di uno Stato membro e risiede nel territorio di un altro Stato membro dove, di massima, ritorna ogni giorno o almeno una volta alla settimana; tuttavia, il lavoratore frontaliero, che è distaccato dall’impresa da cui dipende normalmente nel territorio dello stesso o di un altro Stato membro, conserva la qualità di lavoratore frontaliero per un periodo non superiore ai 4 mesi anche se, durante detto distacco, non può ritornare ogni giorno o almeno una volta alla settimana nel luogo ove risiede.

Peraltro, questa definizione si applica solamente alla protezione sociale dei lavoratori in questione all’interno dell’Unione europea. In campo fiscale, le convenzioni bilaterali contro la doppia imposizione che determinano il regime dei lavoratori frontalieri, fissano in genere definizioni maggiormente restrittive, che impongono pure un criterio spaziale, secondo il quale il fatto di risiedere e lavorare in una zona frontaliera in senso stretto, definita in modo spesso variabile in ciascuna convenzione fiscale, è considerato un elemento costitutivo del concetto di lavoro frontaliero.

Prima, però, di arrivare alle nuove regole in materia, ratificate nel recente nuovo Accordo Italia / Svizzera, appare opportuno richiamare anche le principali disposizioni correlate, dettate dal nostro Legislatore nazionale. In proposito, l’art.1, comma 175, L. 147/2013, oltre a stabilire una sorta di no-tax-area per i primi 7.500 euro di reddito prodotto, definisce il frontaliere esclusivamente come quel lavoratore che:

– ha la residenza fiscale italiana;

– presta il lavoro in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, in zone di frontiera, o in Stati limitrofi.

Per quanto concerne la residenza fiscale italiana, pare appena il caso di ricordare che, a decorrere dal 01/01/2024, il comma 2, art. 2, TUIR è cambiato, di tal guisa che, adesso:

Si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta, considerando anche le frazioni di giorno, hanno la residenza ai sensi del codice civile o il domicilio nel territorio dello Stato ovvero sono ivi presenti. Ai fini dell’applicazione della presente disposizione, per domicilio si intende il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona. Salvo prova contraria, si presumono altresì residenti le persone iscritte per la maggior parte del periodo di imposta nelle anagrafi della popolazione residente.

Relativamente a detta ultima novellata “presunzione di residenza” in caso di mancata iscrizione AIRE, si fa presente che il legislatore (Legge 213/2023) ha inasprito le sanzioni che possono essere comminate dai comuni a coloro che, avendo la residenza fiscale all’estero, non provvedano a iscriversi presso l’AIRE locale di riferimento (o quello nazionale) entro 90 giorni: da 200,00 fino a un massimo di 1.000,00 euro a persona, per ogni anno di mancata iscrizione all’AIRE, per un massimo di 5 anni.

Sempre riguardo alla residenza fiscale italiana, non è invece mutato il comma 2-bis dello stesso art. 2 del TUIR, che concerne i trasferimenti nei Paesi c.d. “ex black list”. Peraltro, la Svizzera è uscita dalla citata “lista nera” sempre con medesima decorrenza (2024). Dunque, le nuove regole relative alla residenza degli Italiani, si applicano anche con riferimento agli eventuali spostamenti in terra elvetica avvenuti a partire dal 1° gennaio 2024.

Sempre in ottica fiscale, si rammenta che i frontalieri sono esonerati dall’obbligo di compilazione del quadro RW limitatamente agli investimenti e alle attività estere di natura finanziaria detenute nel Paese in cui svolgono la loro attività lavorativa. Questo esonero vale anche per il coniuge e i familiari di primo grado, nel caso in cui risultino cointestatari, titolari o delegati del conto corrente ove viene accreditato lo stipendio. La predetta esenzione, peraltro, è collegata al periodo in cui il dipendente presta lavoro oltre frontiera e vale per l’intero anno fiscale se l’attività lavorativa è stata svolta all’estero in via continuativa per la maggior parte del medesimo periodo d’imposta.

Laddove si faccia rientro in Italia, l’esonero è limitato e condizionato al trasferimento delle attività detenute all’estero entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro (Agenzia delle entrate, provvedimento 18 dicembre 2013, n. 151663). Attenzione che, per contro, non esiste il medesimo tipo di esenzione relativamente all’eventuale liquidazione dell’IVIE e dell’IVAFE, se dovute.

Relativamente ai documenti interni di prassi, la circolare 2/E-2003 dell’Agenzia delle entrate, ai fini della corretta individuazione dei redditi prodotti dal frontaliere, afferma:

La disposizione si riferisce ai soli redditi percepiti dai lavoratori dipendenti che sono residenti in Italia e quotidianamente si recano all’estero in zone di frontiera o in Paesi limitrofi per svolgere la prestazione di lavoro. Non rientrano, invece, le ipotesi di lavoratori dipendenti, anch’essi residenti in Italia che, in forza di uno specifico contratto, che preveda l’esecuzione della prestazione all’estero in via esclusiva e continuativa, soggiornano all’estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di un periodo di 12 mesi” (per i quali, di regola, si applicano le retribuzioni convenzionali).

 

Orbene, seppure come noto i trattati internazionali assumono valenza prioritaria rispetto alle leggi domestiche (Costituzione, art. 117; DPR 600/1973, art. 75) e, semmai, si applicano le norme interne in deroga agli accordi internazionali solo se più favorevoli rispetto a questi ultimi (TUIR, art. 169), in considerazione dei vari problemi che possono derivare da una non corretta individuazione della residenza fiscale, appare indispensabile tenere conto delle predette disposizioni nazionali.

Ciò risulta vieppiù rilevante proprio negli spostamenti Italia – Svizzera, posto che la Convenzione di riferimento prevede un’eccezione alla regola generale prevista in Italia in merito al periodo d’imposta nel quale i soggetti sono considerati fiscalmente residenti:

La persona fisica che ha trasferito definitivamente il suo domicilio da uno Stato contraente all’altro Stato contraente, cessa di essere assoggettata nel primo Stato contraente alle imposte per le quali il domicilio è determinante, non appena trascorso il giorno del trasferimento del domicilio. L’assoggettamento alle imposte per le quali il domicilio è determinante inizia nell’altro Stato a decorrere dalla stessa data (art. 4, par. 4, Convenzione tra la Repubblica italiana e la Confederazione svizzera).

Vediamo allora quanto in concreto è stato stabilito con la legge 83 del 16 giugno 2023 (in vigore dal 1° luglio, fermo restando quanto si dirà dettagliatamente in merito al periodo transitorio), tramite la quale il Parlamento Italiano ha ratificato il nuovo Accordo del 23 dicembre 2020 (e Protocollo aggiuntivo), tra l’Italia e la Svizzera, sull’imposizione fiscale dei lavoratori frontalieri.

L’Accordo (che sostituisce quello precedente del 3 ottobre 1974, così contestualmente variando le previsioni di cui al par. 4, art. 15, Convenzione Italia / Svizzera del 1976), ridefinisce il concetto di “lavoratore frontaliero”, precisando che è tale solo chi:

  1. è fiscalmente residente in un Comune il cui territorio si trova, parzialmente o totalmente, entro 20 km dalla frontiera;
  2. lavora come dipendente nell’area di frontiera dell’altro Stato;
  3. in linea di massima, rientra ogni giorno dal lavoro al proprio domicilio.

Relativamente al punto a, ritorna dunque di importanza fondamentale la corretta determinazione della residenza fiscale in ogni giorno dell’anno.

Per quanto attiene al punto b, le aree di frontiera sono così individuate:

– Svizzera: Cantoni dei Grigioni, del Ticino e del Vallese;

– Italia: Regioni Lombardia, Piemonte, Valle D’Aosta, oltre alla Provincia Autonoma di Bolzano.

Con riguardo infine al punto c, nel Protocollo aggiuntivo viene specificato che:

A meno che le Autorità competenti [Ministero delle Finanze per l’Italia e Dipartimento Federale delle Finanze per la Svizzera] decidano diversamente, è consentito, in linea di principio, di non rientrare quotidianamente al proprio domicilio nello Stato di residenza, per motivi professionali, per un massimo di 45 giorni in un anno civile. I giorni di ferie e di malattia non sono conteggiati in questo limite. Se questo limite viene superato, la persona perderà lo status di frontaliere, ai sensi del nuovo Accordo del 2020, per l’anno interessato.

Non è ben chiaro cosa si intenda con il generico “motivi professionali”, ma si può facilmente ipotizzare che la disposizione voglia far riferimento, in generale, a qualunque motivo di carattere lavorativo, tanto che – come sopra riportato – subito dopo viene precisato che non sono da considerare, agli effetti del computo complessivo, le giornate di ferie e di malattia. Da tenere presente che il tenore letterale della norma, “massimo 45 giorni in un anno civile”, consente la possibilità di “sfruttare” detto periodo in più volte o anche in maniera continuata in un’unica occasione nel corso dello stesso anno. Resta il fatto che, in pratica, non sempre potrebbe risultare agevole dimostrare i predetti “motivi professionali”.

Sempre nel Protocollo aggiuntivo in questione, infine, vengono ulteriormente delimitati i contorni propri dei frontalieri, come coloro che svolgono un’attività di lavoro dipendente da intendersi con riferimento alla definizione di cui all’art. 7 dell’Allegato I dell’Accordo UE sulla libera circolazione delle persone. In particolare, con riferimento al paragrafo 2 di tale articolo, resta inteso che, per quanto concerne la Svizzera, le disposizioni si applicano ai lavoratori dipendenti che detengono un permesso per frontalieri (attualmente definito permesso “G” per persone provenienti da Paesi UE/AELS) che soddisfano le altre condizioni previste nell’Accordo. Se, successivamente all’entrata in vigore dell’Accordo, dovessero esservi apportate modifiche sostanziali, Italia e Svizzera si consulteranno rapidamente al fine di valutarne le eventuali conseguenze.

Come prima anticipato, è previsto un regime transitorio nel quale – di norma – restano in vigore le regole dettate nel vecchio Accordo del 1974, che interessa i c.d. “attuali frontalieri”, identificati come coloro che:

  1. A) alla data di entrata in vigore del nuovo Accordo, svolgono; oppure
  2. B) tra il 31/12/2018 e la data di entrata in vigore del nuovo Accordo, hanno svolto

attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere.

Si ritengono sussistenti tali condizioni quando, in relazione all’attività di lavoro dipendente nell’area di frontiera, il datore di lavoro ha versato le relative ritenute o ha provveduto alla notifica presso l’autorità fiscale cantonale competente. I predetti “attuali frontalieri”, dunque (fatto salvo quanto si dirà alla fine in tema di ultime novelle normative), continuano a essere soggetti a tassazione esclusiva (100%) in Svizzera, fino alla cessazione del rapporto di lavoro in essere. Il Protocollo aggiuntivo al riguardo precisa che detti frontalieri restano imponibili soltanto in Svizzera a prescindere da eventuali interruzioni del rapporto di lavoro oppure da cambi del datore di lavoro, quando continuino comunque a essere sussistenti i requisiti del lavoratore frontaliere e l’attività di lavoro dipendente sia svolta nell’area di frontiera in Svizzera per un datore di lavoro ivi residente, una stabile organizzazione o una base fissa svizzere. Detto in altri termini, non è sufficiente una variazione formale dell’odierno rapporto di lavoro in essere per poter passare da “attuale frontaliere” con regime transitorio (precedente Accordo), a “nuovo frontaliere” con regime ordinario (nuovo Accordo).

A proposito di imposizione, come altresì precisato nel Protocollo aggiuntivo, l’espressione “imposta sui redditi delle persone fisiche” designa le imposte ordinarie nazionali e locali alle quali sono assoggettati i lavoratori non residenti: in Svizzera, si tratta delle imposte federali, cantonali e comunali (con moltiplicatore medio del cantone di riferimento) sulle persone fisiche; in Italia, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, nonché delle addizionali regionali e comunali.

Ma vediamo allora le differenze tra vecchio e nuovo accordo.

Accordo 1974

  1. I salari, gli stipendi e gli altri elementi facenti parte della remunerazione che un lavoratore frontaliero riceve in corrispettivo di un’attività dipendente, sono imponibili soltanto nello Stato in cui tale attività è svolta.
  2. I Cantoni interessati (Grigioni, Ticino, Vallese), ogni anno, dal 1976, nel corso del primo semestre dell’anno successivo a quello cui la compensazione finanziaria si riferisce, versano il 40% dell’ammontare lordo delle imposte sulle remunerazioni pagate durante l’anno solare dai frontalieri italiani, come compensazione delle spese sostenute dai Comuni italiani, a causa dei frontalieri che risiedono sul loro territorio ed esercitano un’attività dipendente sul territorio di uno dei predetti cantoni.

iii. Il versamento avviene in franchi svizzeri in un conto aperto presso la Tesoreria centrale italiana, intestato al Ministero del tesoro e denominato: “Compensazioni finanziarie per l’imposizione operata in Svizzera sulle remunerazioni dei frontalieri italiani”. Le autorità italiane provvederanno a ritrasferire dette somme ai Comuni nei quali risieda un adeguato numero di frontalieri, d’intesa – per i criteri di ripartizione e di utilizzo – con i competenti organi delle Amministrazioni locali interessate.

Accordo 2020

  1. I) I salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri e pagate da un datore di lavoro quale corrispettivo di un’attività di lavoro dipendente, sono imponibili nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta. Tuttavia, l’imposta così calcolata non può eccedere l’80% dell’imposta complessiva risultante dall’applicazione dell’imposta sui redditi delle persone fisiche vigente nel luogo in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta, ivi incluse le imposte locali sui redditi. Lo Stato di residenza assoggetta a sua volta a tassazione ed elimina la doppia imposizione.
  2. II) Il nuovo carico fiscale totale sul reddito da attività di lavoro dipendente dei lavoratori frontalieri residenti in Italia previsto dal nuovo Accordo, non può essere inferiore all’imposta che sarebbe prelevata in applicazione del precedente Accordo sui lavoratori frontalieri del 1974.

III) L’imposizione dei lavoratori frontalieri nello Stato contraente in cui l’attività di lavoro dipendente viene svolta è effettuata tramite imposizione alla fonte. Qualsiasi altro metodo d’imposizione è escluso ai fini del presente Accordo.

  1. IV) Lo Stato di residenza del lavoratore frontaliere elimina la doppia imposizione sui salari, gli stipendi e le altre remunerazioni analoghe ricevute dai lavoratori frontalieri, in conformità alle disposizioni dell’articolo 24 della Convenzione contro le doppie imposizioni del 1976.
  2. V) La Svizzera, al fine di eliminare la doppia imposizione, prenderà in conto nella determinazione della base imponibile, le imposte prelevate, riducendo dell’80% l’importo lordo del salario, dello stipendio e delle altre remunerazioni analoghe ricevute dal lavoratore frontaliere fiscalmente residente in Svizzera.

L’art. 4 della Legge di ratifica del nuovo Accordo 2020, eleva la franchigia applicabile ai lavoratori frontalieri italiani, a decorrere dal periodo d’imposta 2024. Conseguentemente, il reddito da lavoro dipendente prestato all’estero in zona di frontiera, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, da soggetti residenti nel territorio dello Stato italiano, concorre a formare il reddito complessivo per l’importo eccedente i 10.000 euro (fino al 31/12/2023, come già evidenziato, la franchigia era 7.500 euro).

Relativamente ai frontalieri elvetici, sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, l’imposta netta e le addizionali comunale e regionale all’IRPEF, dovute sui redditi derivanti da lavoro dipendente prestato in Italia, sono specularmente ridotte del 20%. Le riduzioni, da indicare nella CU, spettano comunque negli importi determinati dal sostituto d’imposta, anche nell’ipotesi di presentazione della dichiarazione dei redditi.

L’Accordo introduce, inoltre, una “clausola anti-abuso”, in forza della quale, laddove l’autorità competente di uno degli Stati contraenti venga a conoscenza di uno o più casi di abuso evidente e manifesto delle disposizioni, tale autorità può sottoporre il caso o i casi all’autorità competente dell’altro Stato contraente, onde definire il corretto trattamento fiscale ai fini dell’Accordo.

Spostandoci, ora, nell’alveo previdenziale, un aspetto importante dell’Accordo è dedicato al “telelavoro frontaliero”, che viene qualificato come:

Un’attività che può essere svolta da un qualsiasi luogo e può essere eseguita presso i locali o la sede del datore di lavoro, e che presenta le seguenti caratteristiche:

  1. Viene svolta in uno o più Stati membri diversi da quello in cui sono situati i locali o la sede del datore di lavoro;
  2. Si basa su tecnologie informatiche che permettono di rimanere connessi con l’ambiente di lavoro del datore di lavoro o dell’azienda e con le parti interessate o i clienti, al fine di svolgere i compiti assegnati dal datore di lavoro, nel caso dei lavoratori dipendenti, o dai clienti, nel caso dei lavoratori autonomi.

L’Accordo si applica ai lavoratori dipendenti che svolgono abitualmente telelavoro transfrontaliero a condizione che la loro residenza sia in uno Stato firmatario e che la sede legale o il domicilio dell’impresa o del datore di lavoro siano situati in un altro Stato firmatario. I soggetti che ricadono nell’ambito di applicazione dell’Accordo sono i lavoratori ai quali, in seguito al telelavoro transfrontaliero abituale e per effetto delle norme generali contenute nei regolamenti comunitari, si applicherebbe la legislazione dello Stato di residenza. I lavoratori possono essere occupati da una o più imprese e, in tale ipotesi, è necessario che i datori di lavoro abbiano la loro sede legale o il loro domicilio in un unico Stato firmatario. Per contro, l’Accordo non si applica nei seguenti casi:

– esercizio abituale di un’attività diversa dal telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza, e/o;

– esercizio abituale di un’attività in un altro Stato diverso da quello di residenza del lavoratore o in cui ha la sede legale o il domicilio l’impresa, e/o;

– esercizio lavoro autonomo.

In tali situazioni e per tutte quelle non contemplate dall’Accordo, come espressamente previsto, resta comunque impregiudicata la possibilità di concludere un accordo su base individuale, ex regolamento (CE) 883/2004.

Restando in tema di diritto europeo (art. 14 del Reg. CE 987/2009), si ricorda che una persona residente in Italia che lavora in Svizzera, può lavorare da casa al massimo per il 24,99% del tempo di lavoro previsto dal contratto. In caso di superamento di questa soglia, l’autorità previdenziale italiana (INPS) acquisisce la facoltà di richiedere all’azienda svizzera l’incasso del relativo contributo in Italia. Nello specifico, il predetto istituto ha avuto modo di affermare (messaggio 1072/2024), che, in base a quanto stabilito dal nuovo Accordo Italia/ Svizzera:

Su domanda, la persona che svolge abitualmente telelavoro transfrontaliero nello Stato di residenza in misura inferiore al 50% del tempo di lavoro complessivo, può essere assoggettata alla legislazione di sicurezza sociale dello Stato in cui il datore di lavoro ha la sede legale o il domicilio.

L’Accordo, pertanto, introduce la possibilità di derogare alla regola generale per la determinazione della legislazione applicabile nei casi di esercizio dell’attività in due o più Stati membri, in base alla quale la persona che esercita abitualmente un’attività subordinata in due o più Stati membri è soggetta alla legislazione dello Stato di residenza se esercita un’attività pari o superiore al 25% in detto Stato membro (cfr. art. 13, par. 1, lett. a, regolamento CE 883/2004, in combinato disposto con l’art. 14, par. 8 e 10, regolamento CE 987/2009).

In attesa della revisione dei regolamenti comunitari di sicurezza sociale e dell’adozione di una specifica disciplina del telelavoro transfrontaliero, l’Accordo pare offrire una soluzione che concili gli interessi di tutte le parti in causa. In particolare, l’Accordo garantisce ai lavoratori la possibilità di potere continuare a svolgere la prestazione da remoto nello Stato di residenza, senza che ciò comporti una modifica della legislazione applicabile e sia così salvaguardata anche la continuità assicurativa in un solo Stato membro. Per contro, i datori di lavoro non hanno alcun ulteriore obbligo o adempimento da effettuare nello Stato di residenza del lavoratore.

La legge di ratifica dell’Accordo precisa, infine, talune ulteriori regole di carattere previdenziale, che peraltro non pare necessitino di particolari approfondimenti.

  1. I) Contributi prepensionamenti

A decorrere dal periodo d’imposta 2024, i contributi previdenziali per il prepensionamento di categoria che, in base a disposizioni contrattuali, sono a carico dei lavoratori frontalieri nei confronti degli enti di previdenza dello Stato in cui gli stessi prestano l’attività lavorativa, sono deducibili dal reddito complessivo nell’importo risultante dalla documentazione concernente l’effettivo sostenimento degli stessi.

  1. II) Assegni familiari

Sempre a decorrere dal periodo d’imposta 2024, sono esclusi dalla base imponibile IRPEF, gli assegni di sostegno al nucleo familiare erogati dagli enti di previdenza dello Stato in cui il frontaliere presta l’attività lavorativa.

III) Naspi

A meno che l’importo della Naspi risulti comunque superiore all’indennità di disoccupazione prevista dalla legislazione svizzera (cosa, invero, assai improbabile), la Naspi per i frontalieri è calcolata per i primi 3 mesi in misura pari all’importo erogabile, in caso di disoccupazione, ai sensi della legislazione svizzera, secondo le modalità stabilite dall’art. 65, par. 6, II periodo, regolamento CE 883/2004, che risulta applicabile in forza dell’Accordo tra la Comunità europea e i suoi Stati membri, da una parte, e la Confederazione svizzera dall’altra, sulla libera circolazione delle persone.

Venendo ora, in sede conclusiva, alle recenti novità pubblicate l’8 ottobre 2024, a fronte del complessivo scenario fiscale sopra delineato, interviene la novella recata dall’art. 6, d.l. 113/2024.

I lavoratori possono optare per l’applicazione, sui redditi da lavoro dipendente percepiti in Svizzera, di un’imposta sostitutiva di IRPEF e addizionali, pari al 25% delle imposte applicate in Svizzera sugli stessi redditi, se sussistono le seguenti condizioni:

  1. a) Il lavoratore si qualifica come frontaliere in base al nuovo Accordo del 2020;
  2. b) Il lavoratore, alla data di entrata in vigore del predetto Accordo, era qualificato come “attuale frontaliere”;
  3. c) I redditi sono assoggettati a tassazione in Svizzera secondo i criteri indicati sempre nel nuovo Accordo del 2020.

A tal riguardo, le imposte pagate in Svizzera sui redditi assoggettati all’imposta sostitutiva non sono ammesse in detrazione. L’opzione è esercitata dal lavoratore nella propria dichiarazione dei redditi. Il versamento dell’imposta sostitutiva è eseguito entro il termine per il versamento a saldo delle imposte sui redditi. L’ammontare delle imposte applicate in Svizzera è convertito in euro sulla base del cambio medio annuale del periodo d’imposta in cui i redditi sono percepiti. Per l’accertamento, la riscossione, le sanzioni e il contenzioso, si applicano, in quanto compatibili, le ordinarie disposizioni in materia di imposte dirette. L’opzione per l’imposta sostitutiva può essere esercitata anche dai lavoratori dipendenti, qualificati come “attuali frontalieri”, residenti nei comuni delle province di Brescia e di Sondrio, inclusi nell’elenco allegato al decreto. Infine, i lavoratori che esercitano l’opzione in argomento, detraggono dall’imposta sostitutiva un importo pari al 20% dei contributi dovuti per il SSN sulla base delle regole e delle aliquote stabilite dalla regione di residenza.

Al di là delle novità di carattere fiscale di cui sopra, pare opportuno richiamare l’attenzione sulla novella concernente i comuni interessati dalla normativa.

In passato, non esisteva un elenco definito di comuni italiani considerati frontalieri; la Svizzera gestiva tale elenco unilateralmente, includendo solo i comuni situati entro 20 chilometri dal confine con i cantoni: Grigioni, Ticino e Vallese. Con il nuovo Accordo, è stato definito un elenco ufficiale di 72 comuni italiani situati entro 20 chilometri dal confine svizzero, che non erano stati precedentemente inclusi. Ciò consente ai residenti di tali comuni di accedere al nuovo regime fiscale, pur non avendo di fatto beneficiato del vecchio regime dei frontalieri. Per l’elenco di tutti i comuni italiani interessati, si rimanda agli allegati 1 e 2 del decreto.

*ODCEC Roma

di Andrea Federici*

“Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno. Ma quello che accadrà in tutti gli altri giorni che verranno può dipendere da quello che farai oggi”.1

Nella pratica del diritto del lavoro, sempre più di sovente, ci si confronta con aspetti tecnici informatici che hanno riflessi in materia di organizzazione del personale.

Tra gli altri, è quanto accade dovendo affrontare la correlazione tra diritto alla riservatezza dei dipendenti e collaboratori e casella e-mail aziendale individualizzata. È principio ormai consolidato che il nome e cognome, ancorché accompagnati dal dominio aziendale, sono a tutti gli effetti dati personali del dipendente o collaboratore e, per questo, soggetti alle tutele di legge.

1 Ernest Hemingway, Per chi suona la campana

Un recente provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali (provvedimento del 17 luglio 2024) è occasione per condividere alcune riflessioni che riportano all’attenzione l’importanza di pianificare anzitempo l’organizzazione del personale, in particolare rispetto agli strumenti informatici affidati, ancorché gli effetti positivi, ritengo, non possano apprezzarsi nell’immediatezza, ma solo a conclamata “patologia”, conseguente al rilievo disciplinare o allo scioglimento del rapporto lavorativo o di collaborazione.

Il menzionato provvedimento del Garante trae origine da un contenzioso incardinato innanzi alla Sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Venezia già in sede cautelare (RG n. 4897/2021 -Giudice Lisa Torresan), nel quale l’impresa ricorrente imputava ad un proprio agente di commercio di avere, con la collaborazione di alcuni dipendenti, dato forma ad un disegno illecito, finalizzato a sottrarre informazioni segrete o comunque riservate di natura commerciale.

Tra gli elementi di prova, l’impresa ricorrente aveva allegato copiosa corrispondenza elettronica dei resistenti, acquisita mantenendo attivo l’account aziendale e accedendo al contenuto di tutta la corrispondenza transitata nello stesso profilo di posta elettronica individualizzato.

Ed è proprio sulla conservazione di tali dati o, meglio, sull’attività di indagine sul contenuto della posta elettronica dell’agente mediante accesso all’applicativo Mail Store installato sui pc aziendali, che si è concentrata l’attività istruttoria del Garante, risoltosi nel provvedimento citato e che ha condotto l’autorità a dichiarare illegittimo il trattamento operato dall’impresa e, tra le altre, ingiungendo il pagamento di una consistente sanzione pecuniaria di euro 80.000,00.

In sintesi, vengono esaminati due fondamentali documenti aziendali: da un lato, l’informativa rilasciata dal titolare del trattamento, dall’altro il regolamento aziendale e, in particolare, quanto avente ad oggetto “attrezzatura utilizzata dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e gli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”.

Il Garante evidenzia come l’informativa rilasciata ai dipendenti e collaboratori risultava essere generica, nella misura in cui prevedeva: “la conservazione dei dati personali unicamente per consentire l’espletamento di tutti gli adempimenti connessi o derivanti dal rapporto di lavoro, indicando come tempo di conservazione il termine di dieci anni …(omissis)”; dall’altro, il regolamento, informava il dipendente (interessato) che: “ (omissis) …è informato della elaborazione di log degli accessi alla posta elettronica e al gestionale che sono conservati per una durata di almeno sei mesi”.

In realtà, rileva il Garante, nessuna informazione veniva fornita in merito alla possibilità di effettuare back up del contenuto della casella individuale di posta elettronica in costanza di rapporto, né in ordine al contenuto archiviato successivamente alla cessazione dello stesso per un periodo di ulteriori tre anni. Parimenti carente risultava l’informazione in ordine alla finalità di analizzare le e-mail presenti nell’account aziendale e verificarne in contenuto, finalità ultronea a quella dichiarata, ovvero garantire la sicurezza dei sistemi informatici.

Sotto altro profilo, il Garante sottolinea come il trattamento che la società ha effettuato in qualità di datore di lavoro sui dati contenuti nella casella di posta elettronica (inviata e ricevuta) assegnata ai propri dipendenti è idoneo a consentire un’attività di controllo sull’attività dei lavoratori in violazione di quanto previsto dall’art. 4 della legge 300 del 20.5.1970 ove, anche se si realizzasse una delle finalità tassativamente indicate dall’art. 4, comma 1 della citata disposizione, la Società non ha attivato le procedure di garanzia ivi previste, ovvero accordo con le rappresentanze sindacali o, in assenza, di autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro, con questo risultando certamente illegittimo tale trattamento.

Per ampliare l’argomento di dissertazione, i principi qui espressi richiamano alla mente la pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 7.9.2017, Caso Barbulescu v. Romania (application n. 61496/2008). La Grande Camera si è espressa in favore delle ragioni del dipendente, difformemente alla Corte Nazionale, ritenendo essenziali i principi di garanzia procedurale e di proporzionalità, nel bilanciamento tra rispetto della vita privata del dipendete ed esigenze, anche disciplinari, della parte datoriale. Secondo i Giudici di Strasburgo, principi ineliminabili di tale bilanciamento sono:

  1. a) che il lavoratore sia informato preventivamente e in modo chiaro sulla possibilità che il datore di lavoro monitori la corrispondenza e altre comunicazioni;
  2. b) che siano fornite indicazioni precise e circostanziate sulla natura di tale controllo;
  3. c) sia effettuata una valutazione del grado e dell’ampiezza dell’intrusione, tenendo conto del tempo e del numero di soggetti che possono accedere ai contenuti archiviati;
  4. d) esistenza di fondati motivi che legittimino il controllo delle comunicazioni e l’accesso al loro contenuto, dal momento che per sua natura tale processo è di tipo invasivo;
  5. e) possibilità di istituire un sistema di monitoraggio meno intrusivo, valutando, caso per caso, se l’obiettivo perseguito dal datore di lavoro possa essere raggiunto senza accedere direttamente al contenuto completo delle comunicazioni del lavoratore;
  6. f) le conseguenze del monitoraggio del lavoratore e dell’utilizzo da parte del datore di lavoro dei risultati dell’operazione di controllo;
  7. g) l’esistenza di adeguate garanzie per il lavoratore.

In linea con i contenuti espressi appare, quindi, che il datore di lavoro debba prestare la massima attenzione e attentamente pianificare l’introduzione di sistemi di conservazione delle e-mail aziendali individualizzate concesse in uso al proprio personale dipendente e collaboratori, non solo agendo, in via preventiva sullo specifico contenuto del proprio regolamento aziendale secondo i richiamati principi e dandone specifica informazione al dipendete, ma valutando altresì caso per caso, se l’introduzione di nuove tecnologie comporti riflessi di controllo sull’attività del dipendente e, per questo, da sottoporre alle garanzie e limiti di cui all’art. 4 della legge 300 del 20.5.1970.

Solo la costruzione di un processo organizzativo ragionato ab origine potrà consentire alla parte datoriale il legittimo esercizio del trattamento dei dati acquisiti e, se del caso, il conseguente potere disciplinare, senza incorrere in prevedibili responsabilità e sanzioni.

*Avvocato in Bologna

di Stefano Grimaldi*

Oggi, forse come non mai nella storia precedente, siamo sotto scacco di un’ansia moderna scaturita da pressioni del futuro prossimo, foriere di instabilità politica, sociale, morale, lavorativa, occupazionale.

In questo quadro molto ecumenico e paradossalmente democratico, che investe tutti o quasi, possiamo già definire il fatto che il lavoro del Giuslavorista è una di quelle attività dinamicizzate e suscettibili di profonde trasformazioni, conseguentemente al mutare veloce di tutto il mondo del lavoro e delle varie esigenze-emergenze sociali ma che, in particolare, anch’essa prende spinta dalla propulsione dell’ innovazione tecnologica, già alle porte di ogni professione e in piena fase di decollo verticale.

Questa situazione di complessità ed esigenze trasformative, ormai naturali e dicevamo avviate, renderà sempre più impellente e necessaria una figura consulenziale strategica, capace di coniugare e coordinare varie discipline unitamente alle varie figure professionali necessarie allo scopo comune di cui, brevemente, si andrà a trattare fra poco.

Ad esempio; la moltitudine di forme contrattuali che vanno dal part-time al freelance ecc, unitamente ai nuovi sistemi di lavoro (sempre più in smart e remoto poiché la cosiddetta LIFE BALANCE oggi è prioritaria), richiederanno all’esperto Giuslavorista doti di gestione relativamente al lavoro flessibile e una buona dose di approfondimenti e aggiornamenti (non solo normativi), su quali saranno le vie migliori per assicurare tutto quanto le moderne condizioni di lavoro vogliono garantite. Fra le quali, come non bastasse, capacità umanistiche di inclusività e tutela della salute dei lavoratori, non ultime la gestione di performance sempre più insaziabili e dati sempre più numerosi e soprattutto sensibili da attenzionare.

Dati che, abbiamo visto essere un “nuovo petrolio”.

Informazioni che, attraverso dossieraggi delinquenziali sono in grado di distruggere reputazioni (umane e aziendali), destabilizzare un sistema economico, turbare e affossare mercati. Per dirne solo alcune.

Tornando per un attimo alle righe precedenti nelle quali si accennava a un futuro sostenibile, equo e attento “all’uomo”, non va dimenticato che le normative europee hanno fissato in agenda pure parametri di governance responsabili, ambientaliste ed etiche; all’interno delle quali il Giuslavorista sarà chiamato a consigliare sulle nuove e più attuali politiche di lavoro, riferendosi a un nuovo welfare aziendale e a una sostenibilità, molto ESG, come imprescindibile strategia di sviluppo e tenuta sul mercato.

Il Giuslavorista, sarà una figura determinante anche in questo percorso.

Ma un Giuslavorista che si rispetti non può, in tutto questo bailamme gestionale, farsi mancare una sana crisi d’impresa ricca di capovolgimenti di fronte, licenziamenti (magari per colpa o grazie alla IA ed alle sue considerazioni), insolvenze, fallimenti, procedure varie… contestualmente alla specializzazione che verrà loro richiesta; nell’adozione delle neonate ma già pimpanti piattaforme digitali capaci di un potere risolutivo, mai visto prima, delle controversie di ogni tipo o nella stesura di contratti dalla velocità di risposta fotonica.

Quindi, il Giuslavorista con grande probabilità, aumenterà il proprio patrimonio professionale, o meglio, dovrà aumentarlo, proprio perché dopo ciò detto, diventerà ancor più una figura fondamentale e collaborativa ovvero collante fra skills umane e intelligenza informatica; fra psicologi del lavoro, lavoratori, capi d’azienda e quant’altro, a garanzia di integrazione e consulenza globale.

Altroché.

Ella-Egli, dovranno garantire e garantirsi una continua formazione. Una perseverante e intensa vicinanza a tutti i comparti, ai settori e agli attori di questa complessa macchina che è un mondo del lavoro sempre più sfidante.

In conclusione, alla domanda delle cento pistole: L’intelligenza artificiale sostituirà l’uomo?

È ragionevole ipotizzare che, al pari di ogni epoca, percentuali umane difficilmente pronosticabili patiscono e patiranno l’evoluzione. Converrà quindi intanto puntare, a mio avviso, su belle scorte di: resilienza, specializzazione, capacità evolutiva, interazione professionale.

Ergo, in questi casi aperti nell’incipit e citati sopra… tranquilli, l’ora del decesso della professione giuslavoristica pare non sia ancora arrivata…anzi, meno male che ad aiutarvi nell’oceano delle richieste ci sarà l’amica IA.

*Direttore Responsabile – Ordine Naz. Giornalisti 150732

di Vincenzo Ferrante*

Come è noto, nel nostro ordinamento le leggi approvate dal Parlamento sono chiamate, secondo le previsioni della stessa Costituzione italiana (artt. 10, 11 e 117) a integrarsi con le disposizioni provenienti dalle istituzioni internazionali, ed in particolare con le direttive approvate dal Consiglio dell’Unione e dal Parlamento Europeo.

Nell’ambito dell’UE, queste due istituzioni rappresentano, rispettivamente, i singoli Stati e il popolo europeo, secondo il modello della costituzione federale americana, che conosce una rappresentanza paritaria nel Senato (dove i cento membri sono divisi in ragione di due senatori per ogni singolo stato) e una, invece proporzionale, alla “Camera dei rappresentanti”.

Anche nell’attribuzione delle competenze, l’Unione europea si ispira agli USA, di modo che alcune materie rimangono ai singoli Stati, mentre altre sono devolute al livello “federale”: così, nel caso della disciplina del lavoro, la tutela della salute e sicurezza o la disciplina del tempo di lavoro sono attribuite all’Unione europea, mentre lo sciopero o l’individuazione dei livelli salariali minimi rimangono attribuzione esclusiva dei singoli Stati.

Non ci si deve dimenticare però, che su un piano distinto (ma in certo modo parallelo), la gran parte delle disposizioni che regolano i contratti di lavoro, la previdenza e lo stesso diritto sindacale sono fatti oggetto di una, spesso ignota, legislazione concorrente, che promana dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Questa istituzione, che risale alla fine della I guerra mondiale e che perciò è ben più antica dell’Unione Europea, segue una logica completamente diversa rispetto a quest’ultima, poiché le convenzioni, votate dalla Conferenza internazionale del lavoro (che si tiene ogni anno a Ginevra, ai primi di giugno), non hanno alcun valore vincolante nei confronti dell’Italia (al pari che per gli altri Stati aderenti) fin tanto che, almeno, essi non vengono ratificati con legge ordinaria dal nostro Parlamento, entrando così a far parte a pieno titolo dell’ordinamento italiano.

Nel corso dei decenni, l’OIL è venuta a formare un vero e proprio corpus normativo, che conta più di 191 convenzioni e svariate raccomandazioni, che abbracciano praticamente tutta la disciplina, imponendosi anzi in certi casi (come nel lavoro marittimo) come la principale fonte di regolazione anche dei rapporti interni agli stati.

Poiché, come si è detto, le convenzioni ratificate sono parte dell’ordinamento italiano, per esse non si dovrebbe porre nessuno dei problemi che invece sono frequenti nel caso delle direttive, poiché i giudici nazionali potrebbero senz’altro utilizzare direttamente la norma delle convenzioni OIL ratificate dall’Italia, per risolvere le controversie che siano loro proposte.

In questo senso, quando si tratti di dover adottare una decisione che colma una lacuna, non dovrebbe esserci nessun ostacolo a verificare se per quello specifico aspetto sussiste una norma del diritto internazionale del lavoro OIL, tanto più che è lo stesso art. 35 della Costituzione italiana che, al suo terzo comma, stabilisce che «la Repubblica … promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro».

Questo, però, accade davvero di rado, e non solo a ragione del fatto che le convenzioni danno spesso vita ad una legislazione di principi. Il vero è che, abituati da una legislazione dettagliata e molto protettiva, gli studiosi italiani (al pari di quelli di tutti gli altri paesi europei) hanno maturato da anni l’idea che gli standard previsti dall’OIL riguardino i paesi in via di sviluppo e siano troppo lontani dal livello di tutela propri dei paesi più industrializzati.

Così, mentre i giudici italiani hanno, sia pure dopo decenni di incertezze, accettato che le previsioni europee e le decisioni della Corte di Giustizia UE di Lussemburgo si collochino ad un grado più elevato della normativa nazionale, a ragione dell’obbligo di rispettare i trattati istitutivi dell’Unione che tanto prevedono, non si è ancora giunti al medesimo risultato con riguardo alle convenzioni OIL (che pure l’Italia resta del tutto libera di ratificare, potendo, come nel caso della Convenzione n. 158 in tema di licenziamento, rifiutarsi di sottoscriverla).

In verità, una parte del successo del diritto dell’Unione si deve al fatto che questa può giovarsi di un giudice chiamato ad interpretare il diritto dell’Unione, potendo così attribuire diritti ai singoli e condannare gli stati che non ottemperino agli obblighi che discendono dall’appartenenze all’Unione (così nel famoso caso Francovich, quando un lavoratore riuscì ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti al mancato pagamento del t.f.r. da parte di un’impresa fallita, a ragione del fatto che la Repubblica italiana mai aveva provveduto ad attuare la direttiva che prevedeva un fondo di garanzia a tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, così arrecandogli un danno patrimoniale suscettibile di immediata quantificazione).

Nel caso dell’OIL, invece, non c’è un tribunale cui i singoli possono rivolgersi, poiché i meccanismi diretti a sanzionare i paesi che violano le convenzioni che essi stessi hanno accettato, mediante ratifica, sono quelli tipici del sistema diplomatico, cui ci ha abituato tutte le organizzazioni internazionali che fanno capo all’ONU, di modo che l’emanazione di un provvedimento finale è preceduto da una fase, spesso prolungata, nelle quale si chiedono chiarimenti e si invita lo Stato a rivedere la propria legislazione interna, prima di passare ad una risoluzione di vera e propria condanna (cosicché queste sono davvero rare, a differenza di quelle adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove però la materia dibattuta è di ben altro tipo).

Ciò non di meno è però chiaro che tutti i paesi preferirebbero evitare le censure, al fine di non doverne rendere conto pubblicamente in seno alla Conferenza internazionale che, come si è detto, si tiene annualmente a Ginevra: in questo senso, già la richiesta di informazioni che promana dagli organi di amministrazione dell’OIL vale ad attivare gli apparati interni dello Stato richiamato, al fine di paralizzare il prima possibile l’iter della possibile censura nei suoi confronti.

Ed invece, proprio nel corso delle ultime assemblee della Conferenze, l’Italia ha dovuto fronteggiare un numero particolarmente elevato di richieste di chiarimenti, che vanno dall’assenza di reali politiche di contrasto al lavoro nero e all’immigrazione clandestina, al posticipo del pensionamento ad età anagrafiche troppo elevate; dall’inefficienza dei servizi all’impiego al blocco della contrattazione collettiva dei lavoratori del settore pubblico; dalla scarsa tutela delle “badanti” e del personale domestico, al mancato rispetto del principio di parità fra i generi.

In particolare, volendo esaminare il problema più grave, che ha costituito oggetto di pubblico dibattito nel corso della penultima sessione tenutasi nel 20231, all’Italia (che ha ratificato nel 1952 la convenzione n. 81 del 1947, in tema di servizi di ispezione del lavoro nonché, nel 1981, la convenzione n. 129 del 1969, dedicata in maniera specifica all’agricoltura), è stato chiesto conto delle inefficienze dei servizi ispettivi e, innanzi tutto, del fatto che questi abbiano in forza un ridotto numero di addetti e che, di conseguenza, modestissimo sia il numero delle ispezioni annualmente eseguite.

Inoltre, poiché le Convenzioni OIL individuano chiaramente nel lavoratore il soggetto cui si indirizza la tutela dell’azione pubblica, a lungo si è dibattuto in sede internazionale del fatto che la “conciliazione monocratica” di cui al d. lgs. 124 del 2004 abbia un impatto limitatissimo e che, in molti casi, le imprese finiscano per occupare manovalanza in nero, ben conoscendo le difficoltà che i lavoratori irregolari incontrano nel vedersi corrisposti i salari dovuti.

Il dibattito conseguente alle inottemperanze rilevate dal Comitato per il rispetto degli standard internazionali (CAS) ha preso così una piega lontanissima da quello che si registra sulla stampa nazionale, quando sono intervenute le associazioni sindacali dei lavoratori che lamentavano l’assenza di mediatori linguistici e meccanismi ispettivi diretti a sollecitare le denunzie di sfruttamento, mentre anche gli stessi datori hanno confermato di essere disponibili a collaborare con i servi ispettivi per contrastare il lavoro irregolare, a mente delle previsioni della Convenzione n. 143 del 1975 (in tema di lavoro degli stranieri).

Neanche è mancato l’intervento degli stati del Nord Africa, ed in particolare della Tunisia, che ha lamentato il rischio di violazione dei diritti fondamentali dell’uomo per i quasi centomila cittadini di quel paese che, pur soggiornando irregolarmente, lavorano in Italia come operai addetti alle mansioni più umili e più faticose.

Quello riportato è solo un esempio, che peraltro ha condotto – com’è noto – ad un notevole incremento nel 2024 delle assunzioni da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, grazie anche ai fondi del PNRR: tuttavia, sarebbe bene che il dibattito internazionale non rimanesse isolato e che, sia l’opinione pubblica, sia i tanti “addetti ai lavori”, prendessero conoscenza più diretta dei temi che vengono affrontati in questi contesti, al fine di evitare poi fraintendimenti, anche macroscopici, quando si è chiamati a difendere la legislazione italiana in sede europea o internazionale.

*Avvocato in Milano

Professore Ordinario Diritto del Lavoro Università Cattolica di Milano

1 Cfr.: https://normlex.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=1000:131 00:0::NO:13100:P13100_COMMENT_ID,P13100_COUNTRY_ ID:4348264,102709

NUOVA RESIDENZA FISCALE DELLE SOCIETÀ

di Paolo Soro*

Il Decreto Legislativo di riforma in materia di fiscalità internazionale, al titolo I, capo I, articolo 2 – Residenza delle società e degli enti (di seguito, il Decreto), apporta importanti modifiche agli articoli 73 (commi 3 e 5-bis) e 5 (comma 3), del TUIR.

Come precisa la relazione illustrativa, in particolare, i criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono la ratio della novella legislativa, sottolineando la rilevanza degli aspetti di natura fattuale in relazione al collegamento personale all’imposizione del reddito e realizzando un approccio che lo amplia e – quanto meno nell’idea del Legislatore – dovrebbe rafforzare la certezza del diritto. Per quanto i due criteri sostanziali operino disgiuntamente, la duplice inclusione persegue l’obiettivo di escludere alla radice indebiti ampliamenti a ulteriori criteri di natura sostanziale.

Le attività di supervisione e l’eventuale attività di monitoraggio della gestione da parte dei soci sono ora ben differenziate dalla direzione effettiva e dalla gestione amministrativa corrente. A detto ultimo proposito, l’inserimento del criterio della “gestione ordinaria in via principale”, prosegue la relazione illustrativa, consente di allinearsi a quell’orientamento di altri Paesi europei che lo impiegano per stabilire il collegamento personale all’imposizione nei casi in cui vi sia un effettivo radicamento della persona giuridica sul territorio ma sorgano incertezze interpretative in merito al luogo di direzione effettiva. In altri termini, ciò che rileva ai fini del criterio qui considerato è che gli atti siano relativi alla gestione ordinaria, attinente al normale funzionamento della società o dell’ente nel suo complesso. L’impiego, poi, dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi può, se del caso, esistere una stabile organizzazione.

In continuità con la disposizione vigente, la novella mantiene la presunzione di residenza per i trust e gli enti di analogo contenuto istituiti in Stati o territori a fiscalità privilegiata, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano, con la possibilità per il contribuente – in riferimento a questi ultimi – di fornire la prova dell’effettiva residenza nello Stato o territorio estero.

Con le modifiche apportate al comma 3 dell’articolo 5, viene inoltre eliminato il riferimento al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione.

In definitiva, il criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma; quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione. Permane, ovviamente, l’alternatività fra tutti i criteri, anche nell’attuale normativa.

La decorrenza delle nuove disposizioni è stata fissata all’articolo 7 del Decreto, il quale prescrive che la novellata regolamentazione attinente alla residenza fiscale di società ed enti entri in vigore:

A decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto.”

Considerato che il Decreto è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale N. 301 del 28/12/2023 (ed entra in vigore dunque il giorno dopo, 29/12/2023), ne consegue che la normativa in argomento decorre dal 2024.

Facciamo ora un salto nel passato al fine di comprendere meglio le modifiche decise dall’odierno legislatore.

Come noto, si ricade nella fattispecie dell’estero-vestizione allorché un soggetto d’imposta sottragga al potere impositivo nazionale, in maniera strumentale o meno, delle attività d’impresa che siano teoricamente suscettibili di produrre materia reddituale attiva (aziende industriali, commerciali, etc.), ovvero passiva (dividendi, interessi, utili, royalties – c. d. passive income). In sostanza, se la residenza effettiva contraddice quella formale, siamo di fronte a un tipico caso di estero-vestizione. La disposizione normativa è quella di cui all’art. 73, commi 3 e 5-bis, del TUIR. In particolare, il comma 3 previgente stabiliva che:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Il comma 5-bis affermava che, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

Schematizzando quanto appena riportato, in base al previgente art. 73, laddove il management della società o ente estero sia principalmente composto da soggetti che, per la maggior parte del periodo dell’anno, sono residenti in Italia, potremmo incorrere in un’ipotesi di estero-vestizione. Il condizionale è d’obbligo, poiché la disposizione premette la locuzione “salvo prova contraria”: vale a dire che ci troviamo di fronte all’ennesima presunzione prevista dall’ordinamento tributario, certamente suscettibile di dimostrazione contraria, ma che comunque, ab initio, impone un’evidente inversione del naturale onere della prova, spostandolo a carico del contribuente.

Il nuovo comma 3 dell’art. 73 del TUIR, oggi ci presenta il seguente testo:

“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale”.

Dunque, la sede della direzione effettiva subentra alla generica “sede dell’amministrazione”. Dopo di che, il Legislatore chiarisce altresì che:

“Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso.”

Peraltro, la norma inserisce tra i requisiti anche la gestione ordinaria in via principale. Con ciò il Legislatore intende riferirsi al:

“Continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”.

Come anticipato, nel testo precedente, la disposizione faceva altresì riferimento pure al concetto di “oggetto esclusivo” dell’attività. L’oggetto esclusivo o principale dell’ente residente veniva determinato in base alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, se esistenti in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata o registrata. Con tale locuzione, si intendeva l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto. In mancanza dell’atto costitutivo o dello statuto nelle predette forme, l’oggetto principale dell’ente residente veniva determinato in base all’attività effettivamente esercitata nel territorio dello Stato; tale disposizione si applicava in ogni caso agli enti non residenti.

Con l’approvazione del Decreto, almeno questi riferimenti al criterio dell’oggetto principale, forieri di corposo contenzioso, sono stati fortunatamente eliminati. Considerato, peraltro, che tutti i requisiti restano alternativi fra di loro, ne consegue che ci troveremo potenzialmente di fronte a un caso di estero-vestizione quando, al di là del dato formale, è concretamente localizzata in Italia:

“La sede nella quale vengono adottate le decisioni strategiche” (presumibilmente, gestione straordinaria, piani di investimento, indirizzi di vendita/produzione, etc.) ovvero “la sede nella quale viene svolta la gestione corrente, ordinaria”

Fermo comunque restando il primo requisito formale legato alla sede legale.

Tra i citati tre requisiti iniziali, appare dunque chiaro come il POEM (Place Of Effective Management – sede effettiva dell’amministrazione, quale luogo in cui sono adottate le decisioni strategiche e/o viene svolta la gestione ordinaria) sia quello che risulti presentare le maggiori criticità. Lo stesso Modello Convenzionale dell’OCSE, all’art. 4, afferma infatti che, nell’ipotesi di doppia residenza di una società, quale criterio discriminante debba essere preso in considerazione proprio il Place Of Effective Management. Orbene, in quanto luogo in cui si formano le principali decisioni strategiche della gestione, il POEM viene di regola identificato con la sede in cui si riunisce l’organo amministrativo. Conseguentemente, il registro delle adunanze del CDA sarà oggetto di opportuna verifica da parte del Fisco.

Cionondimeno, secondo il precedente testo normativo, se dei soggetti (persone fisiche con residenza in Italia) componevano in prevalenza l’organo amministrativo, appariva alquanto arduo vincere la presunzione di residenza connessa al POEM, pensando di far passare la propria tesi semplicemente sulla base di un verbale che riportava la sede estera come quella nella quale si sono svolte le varie riunioni dell’organo amministrativo, o magari solo in funzione del tipo di lingua usata nel trascrivere lo stesso verbale. Invero, il parametro cui l’Agenzia delle entrate ha sempre posto particolare cura con riferimento al POEM era piuttosto quello concernente la complessiva attività di direzione e di coordinamento. Ebbene, laddove tale attività si trasformava – ad esempio – in una costante ingerenza nella vita quotidiana della società (come spesso accadeva), risultava inevitabile far coincidere la residenza della società estera con quella di chi era deputato a compiere (o, comunque, indirizzare regolarmente) gli atti di gestione, proprio in virtù della sopra citata presunzione prevista nella richiamata disposizione normativa. Tale presunzione, a detta dell’Amministrazione finanziaria, poteva essere vinta fornendo valide prove circa l’effettività della residenza. Tali erano, per esempio:

– documenti atti a dimostrare che le riunioni del CDA erano state concretamente svolte all’estero (biglietti aerei, ricevute di alberghi, ristoranti, bus, metro, taxi etc., concomitanti con la data delle riunioni);

– documenti che dimostrano l’effettiva esecuzione di atti autonomi da parte dei membri del locale CDA (progetti, presentazioni, meeting e ogni altra documentazione diretta a migliorare l’economicità della società non residente);

– documenti, anche fattuali, testimonianti il grado di autonomia funzionale della società non residente e del suo personale dal punto di vista organizzativo, amministrativo, finanziario e contabile (direttive interne, contratti di natura commerciale e finanziaria, corrispondenza ordinaria con soggetti terzi, apertura e gestione dei conti correnti bancari, richiesta di mutui o prestiti etc.), vale a dire qualunque documentazione in condizione di provare l’effettivo svolgimento in loco dell’intera gestione operativa della società non residente.

In proposito, i principali indici di controllo reputati dall’Amministrazione finanziaria sintomatici ai fini della collocazione in Italia dell’effettivo potere decisionale/amministrativo, onde consentire di verificare l’esistenza di una società estero-vestita, erano i seguenti:

– mail scambiate tra residenti e non residenti;

– documenti personali degli amministratori della società non residente;

– concomitanza degli stessi soggetti nei CDA delle due società (residente e non residente);

– qualifica professionale degli amministratori esteri (ossia, se persone di comodo, o magari soggetti che abitualmente svolgono la funzione di “amministratori” per conto anche di altre società);

– residenza effettiva della società non residente (eventuale sede presso lo studio di qualche professionista locale: commercialista, avvocato, società di consulenza, etc.);

– abituale svolgimento delle riunioni del CDA presso la sede estera;

– verbali di assemblea dei soci (quindi, come anzidetto: verifica del luogo in cui sono materialmente deliberati – ancorché eseguiti – gli atti di gestione);

– contratti della società non residente e luogo effettivo in cui sono conclusi;

– disponibilità di conti correnti bancari italiani ed eventuale gestione dall’Italia di conti correnti bancari esteri.

Ebbene, si reputa che gli anzidetti elementi, in quanto mirati alla dimostrazione del luogo in cui è concretamente condotta l’amministrazione societaria, debbano continuare ad assumere pieno valore con l’introduzione dell’art. 2 del Decreto (e, anzi, ciò a maggior ragione, proprio oggi). Per quanto attiene all’amministrazione, l’attuale novella consente invero di escluderne la sede intesa come indice meramente formale, atteso che detto elemento dovrà essere valutato riferendosi ai luoghi nei quali sono effettivamente assunte le decisioni gestionali, indipendentemente dall’eventuale residenza personale degli amministratori. Detta residenza degli amministratori, peraltro, rimane prevista dalla norma con riguardo ai gruppi societari di cui al successivo comma 5-bis del Decreto.

I criteri della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” esprimono dunque la ratio della novella legislativa. Inoltre, l’impiego dell’espressione “in via principale” consente di evitare un eccessivo allargamento del collegamento personale all’imposizione quando solo una parte di tali attività si svolge nel territorio dello Stato e quindi potrebbe, se del caso, esistere una stabile organizzazione: è noto – ad esempio – che la gestione corrente di un ramo d’impresa di regola configuri una stabile organizzazione (“place of management” ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, lettera a, del Modello OCSE e articolo 162, comma 2, lettera a, del TUIR, ossia “sede di direzione”). D’altronde, sulla stessa linea si era già posta pure la Corte di Giustizia UE nella sentenza del 28 giugno 2007, Planzer Luxembourg Sarl, in cui era stato affermato che la nozione di sede dell’attività economica:

“Indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultimo (punto 60)”.

È già stato, inoltre, chiarito che la fattispecie della estero-vestizione, tesa ad accordare prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui ha sede legale la società, non contrasta con la libertà di stabilimento. Se ne trae conferma dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas (richiamata da Cassazione Sez. 5, 21/6/2019, n. 16697), la quale, con riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, ha stabilito che la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé sola un abuso di tale libertà; tuttavia, una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate a escludere la normativa dello Stato membro interessato.

Proseguendo nella lettura del testo odierno troviamo la conferma della presunzione in capo ai trust che hanno a che fare con i Paesi a fiscalità privilegiata, mantenendo entrambe le disposizioni di carattere antielusivo:

“Si considerano altresì residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Stati o territori diversi da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, in cui almeno uno dei disponenti e almeno uno dei beneficiari del trust sono fiscalmente residenti nel territorio dello Stato.

Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato, salvo prova contraria, i trust istituiti in uno Stato diverso da quelli di cui al decreto del Ministro dell’economia e delle finanze emanato ai sensi dell’articolo 11, comma 4, lettera c), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, quando, successivamente alla loro costituzione, un soggetto residente nel territorio dello Stato effettui in favore del trust un’attribuzione che importi il trasferimento di proprietà di beni immobili o la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari, anche per quote, nonché vincoli di destinazione sugli stessi.”

Il successivo comma 5-bis, relativo alla presunzione di residenza nel territorio dello Stato di società ed enti controllati o amministrati da soggetti residenti nel territorio dello Stato (estero-vestizione), è riformulato come conseguenza dell’introduzione dei nuovi criteri della sede di direzione effettiva e della gestione ordinaria. Peraltro, nella sostanza, la disposizione conferma che, sempre ai fini delle imposte dirette, salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, Codice Civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 (vale a dire: società per azioni e in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, cooperative, società di mutua assicurazione, enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché trust residenti nel territorio dello Stato che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali), i quali, alternativamente:

  1. a) sono controllati, anche indirettamente, da soggetti residenti nel territorio dello Stato;
  2. b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza da consiglieri residenti nel territorio dello Stato.

L’ipotesi elusiva tipica che tale ultima disposizione mira fondamentalmente a combattere è quella delle società Italiane che costituiscono una holding estera, la quale detiene a cascata la partecipazione di società Italiane. Questa costruzione fittizia veniva, infatti, molto usata un tempo, per evitare la tassazione delle plusvalenze in capo alla holding estera, su cessioni di partecipazioni di società Italiane.

Da notare, poi, che (come indicato al comma 5-ter), ai fini della verifica, rileva la situazione esistente alla data di chiusura dell’esercizio (o periodo di gestione del soggetto estero) e che, ai medesimi fini, per le persone fisiche, si tiene conto anche dei voti spettanti ai familiari.

Infine, giova ricordarlo, nulla cambia per gli organismi di investimento collettivo del risparmio che si considerano residenti se istituiti in Italia. L’incipit del comma 3 è, però, riformulato per esigenze di chiarezza, meglio esplicitando – in linea con la prassi dell’Agenzia delle entrate – che ai fini della residenza per gli organismi di investimento collettivo del risparmio rileva il criterio del luogo di istituzione.

Ricapitolando quanto qui evidenziato, dunque, la novellata disposizione modifica il criterio di collegamento ai fini della determinazione della residenza fiscale delle società, degli enti e delle associazioni, sopprimendo il criterio dell’oggetto principale e sostituendo il criterio della sede dell’amministrazione con quelli della sede di direzione effettiva e/o della gestione ordinaria in via principale. Inoltre, resta quale criterio di collegamento rilevante ai fini della residenza fiscale la presenza della sede legale nel territorio dello Stato.

In accoglimento di quanto richiesto nella lettera c) del parere reso dalla VI Commissione finanze della Camera dei deputati e della 6^ Commissione finanze e tesoro del Senato della Repubblica, nell’articolo 2 del Decreto qui oggetto di esame è stato inserito il comma 2 che riformula la lettera d) del comma 3 dell’articolo 5 del TUIR in materia di residenza delle società di persone e delle associazioni equiparate alle società di persone. Secondo le intenzioni del Legislatore, anche in tal caso, l’obiettivo consisterebbe nel cercare di assicurare maggiore certezza giuridica, allineando i criteri di radicamento con il territorio dello Stato con quelli previsti per le persone giuridiche.

Sostanzialmente, in coerenza con le modifiche intervenute nell’art. 73 TUIR, vengono eliminati i riferimenti al criterio dell’oggetto principale, che ha dato luogo a controversie e rischi di doppia imposizione, e al criterio della sede dell’amministrazione formale. Analogamente alla residenza delle persone giuridiche, la residenza di società di persone e delle associazioni equiparate viene ricondotta agli usuali tre criteri:

  • Il primo criterio della “sede legale” ha carattere formale e rappresenta un elemento di necessaria continuità con la normativa in vigore anteriormente alla riforma;
  • Quelli della “sede di direzione effettiva” e della “gestione ordinaria in via principale” presentano, invece, aspetti innovativi e hanno natura sostanziale, riguardando rispettivamente il luogo in cui sono assunte le decisioni strategiche e quello in cui si svolgono concretamente le attività di gestione corrente della società o associazione.

Come sempre, essendo i tre criteri fra loro alternativi, ciascuno di essi è di per sé in grado di fondare il collegamento delle società di persone con il territorio dello Stato.

La previgente disposizione recava il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale, nel territorio dello Stato.

L’oggetto principale è determinato in base all’atto costitutivo, se esistente in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e, in mancanza, in base all’attività effettivamente esercitata”.

Nell’odierna riperimetrazione di tipo più prettamente sostanziale/fattuale, la norma prevede il seguente testo:

“Si considerano residenti le società e le associazioni che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale.

Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso.

Per gestione ordinaria si intende il continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’associazione nel suo complesso”.

In definitiva, dunque, in collegamento con quanto stabilito per le società di capitali (ed enti equiparati) nell’art. 73, TUIR, il Legislatore non può che modificare altresì, di pari passo, quanto previsto nell’art. 5, TUIR, per: società semplici, in nome collettivo, in accomandita semplice ed equiparate, ai fini di determinare i requisiti di residenza fiscale nel territorio dello Stato.

Riassumendo tutto quanto fin qui esposto, la parte del Decreto di riforma della fiscalità internazionale che interessa il tema della residenza fiscale delle società è finalizzata all’allineamento del nostro ordinamento alla prassi internazionale e alla disciplina prevista dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, con l’obiettivo di dare maggiore certezza e, contestualmente, ridurre il contenzioso. La disciplina viene riformata intervenendo sui criteri di collegamento (ex articolo 73 del TUIR).

Nello specifico, l’articolo 2 del Decreto di recepimento lascia invariato il criterio di collegamento fondato sulla presenza della sede legale nel territorio dello Stato, rimuovendo, invece, il criterio dell’oggetto principale inteso in ottica meramente formale, estraneo alla prassi internazionale. La disposizione, inoltre, formula diversamente il criterio della sede dell’amministrazione, specificando i criteri di collegamento di natura sostanziale: la direzione effettiva e la gestione ordinaria in via principale.

Come già più volte ricordato, anche nell’attuale perimetrazione, tutti e tre i criteri di collegamento permangono tra loro alternativi, di tal guisa che il verificarsi di uno solo di essi consente al Fisco di qualificare la residenza fiscale in Italia.

In sede di conclusioni, pare doveroso osservare che, in genere, un tentativo del Legislatore che vada nella direzione di modificare i parametri formali ricercando piuttosto la sostanza, è sicuramente apprezzabile. Peraltro, francamente, lo sforzo compiuto appare alquanto insufficiente e resta l’amaro in bocca per l’ennesima occasione sprecata.

Oltre a ciò, considerato il tenore letterale della novella, resta tuttora il timore – più che fondato – di contenziosi nei quali i contribuenti saranno ancora una volta vittime di un’ingiustificata inversione dell’onere della prova, in assoluta controtendenza rispetto alla sbandierata certezza del diritto. Invero, la legge imporrebbe all’Agenza delle entrate di dimostrare l’esistenza di uno degli anzidetti tre criteri. Ciononostante, nella pratica, abbiamo visto spesso delle incomprensibili inversioni dell’onere della prova a carico del contribuente, per giunta avallate da taluna giurisprudenza.

Ecco, almeno sotto questo punto di vista, una riscrittura più puntuale ed esente da qualsivoglia interpretazione soggettiva della norma, sarebbe parsa doverosa e, proprio nell’ottica di perseguire gli obiettivi dichiarati, avrebbe drasticamente diminuito il volume del contenzioso, quanto meno in previsione futura.

*ODCEC Roma

#società #lfiscalitàinternazionale #residenza #decretolegislativo

IL SALARIO MINIMO “GIURISPRUDENZIALE”

 

di Andrea Sella*

 

Il salario minimo stabilito per legge ha visto un acceso dibattito politico nell’estate e nell’autunno del 2023. Quest’estate sembra più di moda la discussione sullo “ius scholae”. Resta il fatto che la Direttiva che aveva dato lo spunto per la trattazione dell’argomento, la DIR. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022, è stata inserita nella Legge 21 febbraio 2024, n. 15 che conferisce la Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee 2022-2023. Il provvedimento è entrato in vigore il 10 marzo 2024 ed entro dodici mesi dovrebbe essere recepita la Direttiva. Quindi non è escluso che l’argomento ritorni di stretta attualità politica.

Oggetto del presente contributo non è però l’approccio normativo.

In proposito, ci si limita ad evidenziare che la Direttiva non obbliga in modo esclusivo gli Stati ad istituire un salario minimo legale, inteso come un minimo comune a tutti i lavoratori, prevedendo, in alternativa, la garanzia dell’adeguatezza dei salari minimi tramite la contrattazione collettiva, obbligando comunque gli Stati membri ad adottare misure per rafforzarla con particolare riferimento ai livelli retributivi. Solo qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva in un Paese risulti inferiore all’80%, è richiesta l’adozione di un piano dettagliato di misure, elaborate in consultazione o concordate con le parti sociali, dirette a elevare progressivamente il suddetto tasso. Non viene neppure imposta l’attribuzione di una generalizzata efficacia dei contratti collettivi.

In Italia, la copertura sindacale degli accordi è, se non corrispondente alla totalità dei settori, molto prossima al 100%, quindi la previsione di un salario minimo legale sarebbe una scelta politica e non una imposizione sovranazionale.

Nel nostro Paese, in realtà, la discussione sul salario minimo o, più correttamente, adeguato non si è mai sopita nella giurisprudenza giuslavoristica che, in occasione dell’emanazione della citata Direttiva, ha avuto nuovo slancio e nuovi spunti argomentativi.

Non è possibile trascurare il fatto che il fondamento della retribuzione “adeguata”, nella nostra civiltà giuridica deriva dalla Costituzione che all’art. 36 prevede il diritto “in ogni caso” ad una retribuzione sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

Ovviamente, tutti i principi vanno declinati nel concreto e la giurisprudenza ha avuto molte occasioni di pronunciarsi.

La prima domanda che ci si pone è quale contratto collettivo prendere a riferimento e quindi adottare.

La risposta è di solito abbastanza scontata, ovvero quello stipulato per un determinato settore, dalle Organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Si pone però il problema di capire quali siano, perché la risposta non è in realtà così scontata.

Recentemente, anche l’art. 51, d.lgs. 81/2015 ha stabilito che «salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché quelli stipulati dalle loro RSA, ovvero dalla RSU».

E’ noto il problema dei c.d. contratti collettivi “pirata” o dei sindacati detti di comodo o “gialli”.

Un tentativo di arginare il problema è stato fatto con gli accordi interconfederali del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e con il c.d. T.U. sulla rappresentanza sindacale del 2014 e successive integrazioni, i quali hanno in sintesi:

  1. a) introdotto la misurazione della rappresentatività per allargare la partecipazione negoziale;
  2. b) assunto come cardine del sistema a tutti i livelli il principio di maggioranza;
  3. c) adottato lo strumento del controllo “popolare” a livello interconfederale, di categoria e aziendale;
  4. d) aperto il sistema ad una maggiore aziendalizzazione, prima affidata alla contrattazione di produttività, estendendola alla contrattazione in deroga e ammettendo l’efficacia di contratti anche separati (rappresentatività espressa attraverso le R.S.A.).

Perno del nuovo sistema è la misurazione della rappresentatività sindacale “ai fini della contrattazione collettiva nazionale di categoria” (T.U., parte prima, punto 1) affidata all’Inps (per la rilevazione del numero delle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori). Spetta ad un comitato di composizione triangolare (un rappresentante del Ministero del lavoro che è anche presidente, due di Confindustria, e poi “tutte le OO.SS. che raggiungano la soglia del 5% di rappresentanza sulla base dell’ultimo dato della rappresentanza certificato”) proclamare il risultato annuale della misurazione e certificazione della rappresentanza “per ogni singolo contratto nazionale censito”. La soglia di rappresentatività per l’ammissione al tavolo delle trattative nazionali è fissata al 5%.

Nella prassi giurisprudenziale, a quanto consta, tale meccanismo non ha trovato grande applicazione con riferimento alla verifica della rappresentatività delle Organizzazioni Sindacali da considerare maggiormente rappresentative in funzione della adeguatezza dei livelli retributivi previsti nei rispettivi contratti collettivi.

La giurisprudenza tradizionalmente ha declinato l’art. 36 Cost., evidenziando la necessità di cercare parametri di riferimento che per lo più sono stati individuati nella contrattazione collettiva nazionale di categoria ma anche territoriale o aziendale, ritenuta, in via presuntiva, indice di proporzionalità e sufficienza del trattamento retributivo.

In ipotesi di rapporti non tutelati da uno specifico contratto collettivo, il giudice può utilizzare la retribuzione tabellare prevista dal contratto nazionale del settore corrispondente a quello dell’attività svolta dal datore di lavoro o, in mancanza, da altro contratto che regoli attività affini e prestazioni lavorative analoghe.

Ma anche nelle ipotesi in cui il datore di lavoro applichi un contratto proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta, il giudice può richiamare la disciplina di un contratto collettivo diverso e quindi anche quello di categoria non applicandolo direttamente, ma prendendolo a riferimento per la determinazione della retribuzione costituzionalmente adeguata.

Vi sono poi altri parametri che possono essere considerati quali le caratteristiche in concreto dell’attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi.

Pertanto il giudice gode di una certa discrezionalità nella scelta dei canoni da considerare, purchè motivi adeguatamente i criteri seguiti.

È evidente quindi che anche la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi costituzionali.

Ne discende anche che è onere del lavoratore allegare il tipo di lavoro svolto, la paga ricevuta nonché le motivazioni che ritengono inadeguato il trattamento praticato nei suoi confronti in raffronto con la contrattazione collettiva applicata.

Piuttosto numerose sono le decisioni sul tema, con riguardo al lavoro in cooperativa, in applicazione del riferimento normativo previsto dall’art. 3,1° comma, della legge 142/2001, dove è previsto un espresso rinvio ad un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo.

Anche in tali casi la giurisprudenza ha ribadito il proprio ruolo nell’interpretazione dei canoni costituzionali rispetto al salario previsto dalla normativa di riferimento sopra richiamata.

Il dibattito sul salario minimo, almeno dal punto di vista giurisprudenziale ha avuto recenti riscontri con riferimento al settore della vigilanza e del portierato che in certi punti si sovrappongono, ma con differenti livelli retributivi e con diversi contratti collettivi astrattamente applicabili.

La giurisprudenza di merito sul punto si è dimostrata piuttosto restrittiva.

Per tali motivi, vasta eco hanno ricevuto le Sentenze della Cassazione n. 27711 del 2 ottobre 2023, n. 27713 e n. 27769/2023[1].

Tali Sentenze hanno avuto modo di ribadire tra l’altro che il giudice:

  1. può individuare d’ufficio (Cass. n. 7528 del 29/03/2010 e n. 1393 del 18/02/1985) un trattamento contrattuale collettivo corrispondente alla attività prestata (anche in difformità dalla domanda) desumendo criteri parametrici utilizzabili al fine di determinare, eventualmente mediante consulenza tecnica d’ufficio, la retribuzione rispondente ai criteri imperativamente stabiliti dal precetto costituzionale;
  2. quando escluda l’applicabilità alla fattispecie del contratto collettivo invocato, può tuttavia desumere d’ufficio (Cass. n. 12271 del 10/06/2005) dallo stesso contratto i criteri utilizzabili al fine di determinare – anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – la retribuzione rispondente al precetto costituzionale, domandata in via subordinata, senza che sia configurabile la violazione dei principi in materia di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.) e di possibilità di modifica della domanda, in riferimento ai poteri istruttori del giudice;
  3. può giudicare un contratto collettivo pur corrispondente all’attività svolta dal datore non applicabile nella disciplina del rapporto ex art. 2070 c.c., e tuttavia utilizzarlo ai fini della giusta determinazione del salario deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (sentenza Cass. n. 7157 /2003, Sezioni unite n. 2665/1997);
  4. fatte salve contrarie disposizioni normative (per es. ai fini del c.d. minimale contributivo), il giudice è libero di selezionare il contratto collettivo parametro a prescindere dal requisito di rappresentatività riferito ai sindacati stipulanti (Cass. n. 19284/2017, Cass. 2758/2006, Cass. 18761/2005, Cass. n. 14129/2004).
  5. il giudice può motivatamente utilizzare parametri anche differenti da quelli contrattuali e “fondare la pronuncia, anziché su tali parametri, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, anche su criteri equitativi” (Cass. n. 19467/2007, Cass. n. 1987/2791, Cass. n. 1985/2193, Cass. n. 24449/2016).

Più volte i giudici hanno tenuto conto delle dimensioni o della localizzazione dell’impresa, di specifiche situazioni locali o della qualità della prestazione offerta dal lavoratore (Cass. nn. 14211/2001, 5519/2004, 27591/2005, 24092/2009, 3918/1982).

Inoltre, come già rilevato nella sentenza n. 24449/2016, a seguito del mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita, è stato ritenuto legittimo l’adeguamento retributivo quantificato in via equitativa dal giudice di merito “ai sensi dell’art. 432 c.p.c., in considerazione dell’orario di lavoro giornaliero osservato e dell’entità dei minimi retributivi contrattualmente previsti”.

La novità delle recenti sentenze della Cassazione sopra richiamate sta nel riferimento esplicito al considerato n. 28 della direttiva UE 2022/2041, secondo il quale «oltre alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, si potrebbe tener conto anche della necessità di partecipare ad attività culturali, educative e sociali», rendendo più moderno il concetto di vita libera e dignitosa, ricomprendendo non solo la mera sussistenza ma anche la realizzazione di una vita sociale altrettanto degna ed adeguata.

Resta sullo sfondo l’aspetto delle allegazioni dei motivi in fatto da porre a base della decisione che il lavoratore ha l’onere di esporre. Tuttavia, con riferimento a tale onere ed in generale a quello probatorio i citati arresti giurisprudenziali hanno chiarito che, “in virtù della forza cogente del diritto alla giusta retribuzione, spetta al giudice di merito valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost., mentre il lavoratore che deduca la non conformità della retribuzione corrispostagli dal datore di lavoro all’art. 36 Cost., deve provare solo il lavoro svolto e l’entità della retribuzione, e non anche l’insufficienza o la non proporzionalità che rappresentano i criteri giuridici che il giudice deve utilizzare nell’opera di accertamento. Al lavoratore spetta soltanto l’onere di dimostrare l’oggetto sul quale tale valutazione deve avvenire, e cioè le prestazioni lavorative in concreto effettuate e l’allegazione di criteri di raffronto, fermo restando il dovere del giudice di enunciare i parametri seguiti, allo scopo di consentire il controllo della congruità della motivazione della sua decisione (Cass. n. 4147/1990; Cass. n. 8097/2002)….omissis…” “Inoltre, la violazione dell’art. 36 Cost., è denunciabile anche se la retribuzione in fatto corrisposta è conforme a quella stabilita dal contratto collettivo potendo anche accadere che la prestazione del lavoratore possa presentare caratteristiche peculiari per qualità e quantità che la differenziano da quelle contemplate nella regolamentazione collettiva, sicché non si può assolutamente escludere che sia insufficiente la stessa retribuzione fissata dal contratto collettivo (Cass. n. 2302/1979, sul punto anche Cass. n. 1255 del 1976 e n. 2380 del 1972)”.

Su solco della recente giurisprudenza della Cassazione, si ritiene di dover segnalare la Sentenza della Corte di Appello di Torino del 6 giugno 2024 n. 237 che ha avuto modo di valorizzare la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni quale parametro di adeguatezza della retribuzione, raffrontando due diversi CCNL per quanto in settori affini.

Il caso riguarda un lavoratore a cui era applicabile il CCNL ANISA, relativo tra l’altro agli addetti alla sicurezza antincendio sulle autostrade, in rapporto al CCNL ANGAF relativo all’analogo servizio delle c.d. Guardie ai Fuochi, in pratica il servizio antincendio in porti, autostrade, luoghi privati, ecc.

Occorre premettere che il CCNL ANGAF è stato adeguato nel 2019 con un aumento della retribuzione pari alla svalutazione monetaria rispetto alla precedente tornata, mentre il CCNL ANISA è stato rinnovato solo nel 2022 per un importo decisamente inferiore e non prevedeva alcun sistema di indennizzo della c.d. vacanza contrattuale in attesa dei futuri rinnovi, che nel caso specifico mancavano dal 2011.

La Corte d’Appello ha quindi fatto espressa e piena applicazione dei principi richiamati dalla citata giurisprudenza della Cassazione del 2023, prescindendo da parametri rigidi e teorici quali la soglia di povertà dell’Istat, ma ha dato particolare rilievo al tempo intercorso tra le tornate di rinnovo contrattuale e alla mancanza di adeguamento delle retribuzioni rispetto all’aumentato costo della vita.

Che tale soluzione non fosse scontata è reso evidente dal fatto che il Tribunale in primo grado aveva respinto la domanda, rifacendosi ad una impostazione concettuale più tradizionale ma certamente più rigida.

 

Si può pertanto affermare che, forse sulla spinta della Direttiva citata, la giurisprudenza di legittimità, prima ancora che di merito, abbia voluto rimarcare e legittimare il proprio ruolo di “regolatore” dell’adeguatezza della retribuzione rispetto ai canoni costituzionali, forse volendo chiarire che un vero e proprio salario minimo di fonte legale non è così necessario e, se vi sarà, probabilmente la giurisprudenza rivendicherà anche in futuro la propria funzione interpretativa in chiave costituzionalmente orientata della normativa qualora introdotta.

 

*Avvocato in Biella

#salariominimo#retribuzioneadeguata#sentenzesalariominimo#parametriretributivi

[1]  Vedasi, tra gli altri, “Il Lavoro nella Giurisprudenza 11/2023 con nota di Milena d’Oriano – La Cassazione sul salario minimo costituzionale: squarciato il velo sul lavoro “povero”, pagg. 1032 ss.

INCREMENTO OCCUPAZIONALE NEL 2024:

 LA MAXI DEDUZIONE C’È MA NON CONVIENE A TUTTI

di Maurizio Centra*

 

L’art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 ha introdotto nel nostro ordinamento un’agevolazione temporanea a favore degli imprenditori e dei professionisti che aumenteranno l’organico del personale dipendente nell’anno 2024, rispetto alla media dei lavoratori occupati nell’anno precedente (c.d. maxi deduzione), le cui modalità di attuazione sono state stabilite con il decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Nell’attesa che si completi la revisione del sistema di imposizione sui redditi delle società e degli enti (ex art. 6, legge 9 agosto 2023, n. 111) e delle agevolazioni a favore degli operatori economici, il suddetto provvedimento ha stabilito che per l’anno 2024, precisamente per il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, ai titolari di reddito d’impresa e agli esercenti arti e professioni, è consentito dedurre dal reddito il costo del personale dipendente incrementativo, assunto nello stesso anno a tempo indeterminato, maggiorato del 20% (venti per cento).

Ambito applicativo

Possono usufruire dell’agevolazione in discorso i soggetti che si trovino in condizioni di normale operatività, di conseguenza, ne sono esclusi quelli sottoposti a procedure di liquidazione volontaria o giudiziaria come pure ad altri istituti liquidatori regolati dal codice della crisi e dell’insolvenza (decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14), come il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, gli accordi o il piano di ristrutturazione, il concordato minore e il concordato preventivo. Inoltre, sono esclusi dall’ambito applicativo della maxi deduzione anche i soggetti esercenti attività per le quali il reddito non è determinato in modo analitico, come i contribuenti forfetari e le imprese marittime che hanno optato per la c.d. tonnage tax.

A condizione che si trovino nelle suddette condizioni, la platea dei soggetti che possono usufruire dell’agevolazione è composta da:

  • società di capitali, quali s.p.a, s.a.p.a., s.r.l., società cooperative e di mutua assicurazione, ed enti che svolgono attività commerciale in via esclusiva o principale, di cui all’art. 73, comma 1, lettere a) e b) del D.P.R. 917/1986 (Tuir);
  • enti non commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lettera c) del D.P.R. 917/1986 (Tuir) limitatamente ai lavoratori nuovi assunti nel 2024 e impiegati in attività commerciali;
  • soggetti non residenti, di cui all’art. 73, comma 1, lettera d) del D.P.R. 917/1986 (Tuir), che svolgono attività commerciali in Italia mediante una stabile organizzazione e limitatamente ai lavoratori nuovi assunti nel 2024 e impiegati in tali attività commerciali;
  • imprese individuali, anche nella forma di imprese familiari o aziende coniugali;
  • società di persone ed enti equiparati, di cui all’art. 5 del D.P.R. 917/1986 (Tuir);
  • lavoratori autonomi, anche organizzati in forma di associazione tra professionisti o società semplice.

Condizioni generali

Per usufruire dell’agevolazione si debbono verificare le seguenti condizioni:

  • il soggetto (datore di lavoro) deve aver esercitato l’attività nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023 per almeno 365 (trecentosessantacinque) giorni;
  • le nuove assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2024 debbono determinare un incremento occupazionale netto, infatti, ai fini dell’agevolazione, il numero dei dipendenti in forza a tempo indeterminato al termine del periodo d’imposta 2024, in pratica il periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, deve risultare superiore al numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupati nel 2023 (periodo d’imposta precedente). Tenendo presente che l’incremento occupazionale va considerato al netto delle diminuzioni (per dimissioni o altre cause) verificatesi in società controllate o collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile o facenti capo, anche per interposta persona, allo stesso soggetto.

Per stabilire il numero dei dipendenti a tempo indeterminato mediamente occupati, si utilizza la formula di calcolo delle unità lavorative per anno (ULA), sommando i rapporti tra il numero dei giorni di lavoro previsti contrattualmente in relazione a ciascun lavoratore dipendente e trecentosessantacinque (o trecentosessantasei se il periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023 include il 29 febbraio).

 Misura dell’agevolazione

Per il calcolo dell’agevolazione, occorre determinare il costo relativo all’incremento occupazionale netto (base di calcolo), sul quale applicare l’aliquota di maggiorazione (20%). A tal fine, la norma stabilisce che la maggiorazione si applichi al minore tra:

  1. il costo effettivo relativo ai nuovi assunti (stipendi, contributi, TFR, ecc.);
  2. l’incremento complessivo del costo del personale risultante dal bilancio di esercizio al 31 dicembre 2024 (conto economico ex 2425, primo comma, lettera B), numero 9), del codice civile), rispetto a quello relativo all’esercizio in corso al 31 dicembre 2023.

A prescindere dalla iscrizione nel conto economico, sono esclusi dal costo del personale gli oneri accessori, quali: (i) buoni pasto, (ii) auto aziendali concesse in uso promiscuo, (iii) vitto e/o pernottamento in trasferta e (iv) aggiornamento professionale.

Per i soggetti non tenuti alla redazione del bilancio, il calcolo dell’agevolazione si esegue sulle corrispondenti voci di costo del personale di cui all’art. 2425 del codice civile.

 

Condizione specifica

Lo stesso art. 4 del decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 stabilisce, inoltre, che qualora al 31 dicembre 2024 (precisamente alla fine del periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023) il numero dei lavoratori dipendenti, inclusi quelli a tempo determinato, risulti inferiore o pari al numero degli stessi lavoratori mediamente occupati nel periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2023, non si beneficia dell’agevolazione.

 

Operazioni straordinarie e casi particolari

Lo scopo della norma, dunque, è quello di agevolare l’incremento occupazionale reale, per questo sono esclusi dal calcolo dell’incremento i lavoratori dipendenti in forza a seguito di trasferimento d’azienda o rami d’azienda ovvero di cessione del contratto individuale di lavoro, si sensi dell’art. 1406 del codice civile. Analogamente, sono esclusi dal calcolo dell’incremento i dipendenti assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato precedentemente occupati presso altra società del gruppo e il cui rapporto di lavoro con quest’ultima sia interrotto a decorrere dal 30 dicembre 2023. Mentre sono inclusi nel calcolo dell’incremento i lavoratori dipendenti con contratto di lavoro a tempo determinato se trasformato a tempo indeterminato nel periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, in tal caso si può usufruire dell’agevolazione dalla data della trasformazione del contratto (Cfr. D.M. 25 giugno 2024, cit.).

Lavoratori meritevoli di particolare tutela

Per favorire l’assunzione di soggetti svantaggiati, individuati nell’allegato 1 al decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216 (es. disabili, donne con almeno due figli minorenni, ecc.), l’aliquota di maggiorazione è aumentata dal 20% al 30%, limitatamente al costo del lavoro relativo all’incremento occupazionale netto dei soggetti svantaggiati.

 

Effetti sulla deducibilità degli interessi passivi

In materia di deducibilità degli interessi nella determinazione del reddito imponibile, l’art. 96 del D.P.R. 917/1986 (Tuir) stabilisce che “gli interessi passivi e gli oneri finanziari assimilati, compresi quelli inclusi nel costo dei beni ai sensi dell’articolo 110, comma 1, lettera b), sono deducibili in ciascun periodo d’imposta fino a concorrenza dell’ammontare complessivo:

  1. degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di competenza del periodo d’imposta;
  2. degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati riportati da periodi d’imposta precedenti ai sensi del comma 6”;

e che “l’eccedenza degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati rispetto all’ammontare complessivo degli interessi attivi e proventi finanziari assimilati di cui alle lettere a) e b) del comma 1 è deducibile nel limite dell’ammontare risultante dalla somma tra il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica del periodo d’imposta e il 30 per cento del risultato operativo lordo della gestione caratteristica riportato da periodi d’imposta precedenti ai sensi del comma 7” (omissis).

Ebbene, la maxi deduzione riduce il risultato operativo lordo (ROL) del periodo d’imposta, di cui all’art. 96 del D.P.R. 917/1986 (Tuir), come precisato dalla Relazione illustrativa del decreto 25 giugno 2024 del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, con effetti (negativi) sulla deducibilità degli interessi passivi per il contribuente.

Altre considerazioni

La stessa norma che ha introdotto l’agevolazione fin qui illustrata (decreto legislativo 30 dicembre 2023, n. 216), all’art. 5 sancisce l’abrogazione dell’aiuto alla crescita economica (Ace) a far data dal 2024 (“a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2023, è abrogato l’articolo 1 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 2014” – omissis), prima ancora che la riforma tributaria “in corso” stabilisca l’introduzione della aliquota Ires ridotta (15%), che dovrebbe applicarsi sugli incrementi del reddito imponibile. Appare, infatti, singolare non solo che l’abrogazione dell’Ace sia scollegata dall’introduzione di quella che potrebbe costituire un’agevolazione compensativa (aliquota ridotta Ires), ma anche che si rinunci ad uno strumento di collaudato utilizzo, che ha favorito l’incremento patrimoniale di molte società in un Paese caratterizzato dalla sottocapitalizzazione delle piccole e medie imprese, apparentemente senza un’adeguata valutazione in termini di politica economica.

I primi dubbi sui vantaggi che le imprese potranno ottenere dalla nuova agevolazione non sono arrivati solo dai professionisti ma anche dall’Istituto nazionale di statistica (Istat), il quale ha rilevato che l’introduzione della maxi deduzione del costo del lavoro per incremento occupazionale “interesserà solo il 5,6% delle imprese, mentre il 25,3% delle imprese risulterà svantaggiato dalla soppressione dell’Ace” (Cfr. ANSA del 5 luglio 2024). Non ci resta che aspettare…

 

Ma, a ben vedere, c’è qualcuno che potrà ottenere dei vantaggi concreti dalla nuova agevolazione: le società di produzione di software! Infatti, le modalità di calcolo della maxi deduzione e le necessarie verifiche richiederanno l’utilizzo di nuovi servizi e procedure informatiche che, ragionevolmente, determineranno un incremento dei loro ricavi. Lo stesso non può certo prevedersi per i professionisti che assistono i datori di lavoro, che lottano quotidianamente con il famigerato “tutto compreso”.

 

*ODCEC Roma

 

#maxideduzione #lavoro #agevolazione #costodipendenti

PER  GARANTIRCI  UN  FUTURO  PREVIDENZIALE  SERENO

SIAMO  ANCORA  IN  TEMPO

Nell’ultimo  trimestre  dell’anno  in  Italia  l’argomento  della  Legge  di  Bilancio  diventa  di  estrema  attualità,  non  solo  nel  dibattito  tra  politici  e/o  addetti  ai  lavori,  ma  anche  nelle  conversazioni  tra  comuni  cittadini.  Tale  legge,  come  è  noto,  è  prevista  dall’art.  81  della  costituzione  (“lo  Stato  assicura  l’equilibrio  tra  le  entrate  e  le  spese  del  proprio  bilancio”  –  omissis)  e  la  sua  redazione  inizia  –  ogni  anno  –  con  la  comunicazione  che  il  Governo  deve  fare  al  Parlamento,  circa  le  previsioni  di  entrata  e  di  uscita  dell’anno  successivo.

Molto  più  di  altri  provvedimenti  legislativi,  la  Legge  di  Bilancio  genera  aspettative,  speranze  e  riflessioni  sul  futuro  dei  cittadini,  delle  comunità  e,  più  in  generale,  del  Paese.  Lo  confermano  le  frasi  ad  effetto  che  vengono  usate  per  illustrarne  le  caratteristiche  o  i  possibili  effetti,  come  “finanziaria  di  lacrime  e  sangue”,  “assalto  alla  diligenza”“equilibrio  sociale  trascurato”,  “previsione  di  crescita  irrealistica”,  “aspettative  tradite”,  ecc.  A  ciò  si  aggiunga  che,  visti  i  commenti  e  le  riflessioni  scaturite  dall’analisi  della  recente  Nota  di  aggiornamento  al  documento  di  economia  e  finanza  (NADEF),  presentata  alle  Camere  dal  Governo  entro  il  27  settembre  2024,  non  sarà  certo  l’anno  in  corso  a  fare  eccezione,  tutt’altro!

Considerando,  da  un  lato,  che  sempre  l’art.  81  della  costituzione  non  consente  di  introdurre  con  la  Legge  di  Bilancio  nuovi  tributi  e  nuove  spese,  a  differenza  di  quanto  può  accadere  con  la  Legge  di  stabilità,  e  impone  che  ogni  (diversa)  legge  che  importi  nuovi  o  maggiori  oneri  deve  prevedere  la  relativa  copertura  finanziaria,  e,  dall’altro  lato,  che  il  nuovo  Patto  di  Stabilità  dell’Unione  Europea  ha  previsto  in  4  anni  (estendibili  a  7),  il  tempo  a  disposizione  di  ciascuno  stato  per  risanare  i  conti  pubblici  e  ricondurre  il  deficit  sotto  il  3%  del  Prodotto  interno  lordo  (Pil)  nonché  il  debito  pubblico  sotto  il  60%  del  Pil,  quando  il  debito  pubblico  del  nostro  Paese  è  più  del  doppio  (137,3%  del  Pil  al  31  dicembre  2023)  e  nel  mese  di  luglio  2024  ha  sfiorato  i  2.950  miliardi,  è  facile  prevedere  che  quest’anno  il  compito  del  Governo  per  far  “quadrare  i  conti”  sarà  piuttosto  arduo.

La  riduzione  del  rapporto  tra  il  debito  pubblico  (numeratore)  e  Prodotto  interno  lordo  (denominatore)  è  più  agevole  se  il  contenimento  delle  spese  non  essenziali  è  associato  a  un  aumento  del  Pil,  ma  questa  ipotesi  non  sembra  potersi  verificare  in  Italia  nel  breve/medio  periodo,  infatti,  la  crescita  attesa  del  Pil  è  dell’1%  nel  2024  e  dell’1,1%  nel  2025  (fonte  Istat,  giugno  2024).  Quindi,  la  riduzione  del  debito  pubblico  prevista  dal  nuovo  Patto  di  Stabilità  dell’Unione  Europea,  che  è  un  obiettivo  positivo  per  il  Paese,  basti  pensare  solo  alla  conseguente  riduzione  degli  interessi  passivi,  dipenderà  in  modo  considerevole  dalla  riduzione  delle  spese,  incluse  quelle  destinate  alla  previdenza  e  all’assistenza  dei  lavoratori,  per  non  parlare  della  sanità.

In  questo  contesto  non  c’è  da  stupirsi  se  al  Ministero  del  lavoro  e  della  previdenza  sociale  è  “riapparsa”  l’ipotesi  di  imporre  il  trasferimento,  anche  parziale,  ai  fondi  di  previdenza  complementare  del  trattamento  di  fine  rapporto  (TFR),  regolato  dall’art.  2120  del  codice  civile,  alle  imprese  che  occupano  fino  a  50  dipendenti,  mentre  oltre  tale  soglia  dimensionale  l’obbligo  già  esiste  dal  2007,  per  il  100%  del  TFR  maturato  annualmente.

Poiché  in  gran  parte  delle  imprese  di  minori  dimensioni  non  sono  attive  forme  di  previdenza  complementare,  l’eventuale  obbligo  di  trasferimento  del  TFR  ne  determinerebbe,  almeno  per  i  primi  anni,  il  versamento  al  Fondo  di  tesoreria  dell’Istituto  nazionale  della  previdenza  sociale  (Inps),  come  avviene  –  in  forma  piuttosto  diffusa  –  anche  nelle  imprese  di  più  grandi  dimensioni.  Questa  soluzione,  quindi,  consentirebbe  una  riduzione  dei  trasferimenti  –  per  cassa  –  di  risorse  dal  bilancio  dello  stato  a  quello  dell’Inps,  per  la  copertura  dei  disavanzi  di  alcune  delle  sue  gestioni.  Deduzione  che  trova  conferma  nel  XXIII  Rapporto  annuale  Inps  (settembre  2024),  dalla  lettura  del  quale  si  apprende  che  l’8%  delle  pensioni  dell’Istituto  è  di  tipo  assistenziale  e  che  l’età  media  di  uscita  dal  lavoro  è  stata  di  64,2  anni  nel  2023,  contro  il  requisito  anagrafico  di  67  anni  per  la  pensione  di  vecchiaia;  requisito  che  solo  dal  2027  sarà  adeguato  agli  incrementi  della  speranza  di  vita.

Sebbene  dal  1°  gennaio  2012  in  Italia  sia  stato  introdotto  il  metodo  contributivo  di  calcolo  delle  pensioni  e,  nel  contempo,  siano  state  abolite  le  pensioni  di  anzianità,  ancora  oggi,  anche  a  causa  di  provvedimenti  straordinari  (es.  quota  100/103),  tra  i  lavoratori  stenta  a  diffondersi  la  consapevolezza  della  necessità  di  costituire  una  copertura  previdenziale  integrativa  di  quella  obbligatoria,  per  garantirsi  un  trattamento  pensionistico  non  troppo  inferiore  al  livello  retributivo  raggiunto  prima  del  pensionamento.  Per  questo,  al  di  là  dei  possibili  vantaggi  per  i  conti  pubblici,  l’estensione  dell’obbligo  di  trasferimento  (totale  o  parziale)  del  TFR  ai  fondi  di  previdenza  complementare  può  costituire  una  soluzione  per  diffondere  la  cultura  previdenziale  e  far  capire  ai  lavoratori  che  con  la  sola  pensione  obbligatoria  il  loro  tenore  di  vita  è  destinato  a  cambiare  in  peggio  una  volta  “collocati  a  riposo”.

Senza  contare  che  nei  casi  di  carriere  lavorative  discontinue,  di  cambiamenti  di  regimi  previdenziali  nel  corso  degli  anni,  ad  esempio  da  lavoro  dipendente  ad  autonomo  e  viceversa,  come  pure  di  attività  svolte  all’estero,  c’è  il  rischio  concreto  che  il  trattamento  contributivo  assicurato  dalla  gestione  obbligatoria  non  sia  in  grado  di  raggiungere  il  livello  economico  minimo  per  un’esistenza  libera  e  dignitosa,  con  la  necessità  per  lo  stato  di  istituire,  in  futuro,  sistemi  di  assistenza  che  finirebbero  per  ridurre  sensibilmente  gli  effetti  della  riforma  previdenziale  del  2012  (legge  12  novembre  2011,  n.  183).

D’altronde,  l’Italia  è  uno  dei  paesi  occidentali  con  la  più  alta  età  media  della  popolazione  e,  negli  ultimi  venti  anni,  il  più  basso  tasso  di  crescita  dell’economia,  come  dimostra  l’andamento  del  prodotto  interno  lordo.  L’aumento  dell’età  media  è  dovuto  in  massima  parte  alla  riduzione  delle  nascite  e  all’innalzamento  dell’aspettativa  di  vita  che,  assieme,  costituiscono  vere  e  proprie  “mine”  del  sistema  di  previdenza  pubblica.  Le  modifiche  introdotte  negli  ultimi  anni  hanno  comportato  che  le  pensioni  calcolate  integralmente  con  il  sistema  contributivo  sono  più  basse  di  quelle  calcolate  con  il  previgente  sistema  retributivo,  in  rapporto  all’ultima  retribuzione  percepita  (c.d.  tasso  di  sostituzione).  Con  il  mutamento  del  sistema  di  calcolo  dei  trattamenti  pensionistici,  il  legislatore  ha  previsto  una  serie  di  istituti  volti  non  a  sostituire  ma  a  integrare  il  sistema  pensionistico  pubblico,  dei  quali  i  fondi  di  previdenza  complementare  sono  il  “perno  centrale”.  Il  primo  intervento  significativo  in  materia  di  previdenza  complementare  è  stato  il  decreto  legislativo  21  aprile  1993,  n.  124  “Disciplina  delle  forme  pensionistiche  complementari,  a  norma  dell’art.  3,  comma  1,  lettera  v),  della  legge  23  ottobre  1992,  n.  421”,  cui  ha  fatto  seguito  la  legge  8  agosto  1995,  n.  335  “Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e  complementare”,  anche  se  la  “riforma  delle  riforme”  si  è  realizzata  con  il  decreto  legislativo  5  dicembre  2005,  n.  252  “Disciplina  delle  forme  pensionistiche  complementari”,  che  ha  avuto  il  merito  di  accorpare  in  un  unico  testo  normativo  tutta  la  disciplina  della  previdenza  complementare,  compresi  gli  aspetti  fiscali,  al  fine  di  trasformare  questa  nel  “secondo  pilastro”  del  nostro  sistema  previdenziale.

L’articolo  2  del  decreto  legislativo  n.  252/2005,  individua  i  soggetti  che  possono  aderire,  in  modo  individuale  o  collettivo,  alle  forme  pensionistiche  complementari,  ossia  i  lavoratori  dipendenti  (pubblici  o  privati),  i  lavoratori  autonomi,  i  liberi  professionisti  e  i  soci  di  cooperativa.  I  fondi  pensione  previsti  dal  nostro  ordinamento  ai  quali  tali  soggetti  possono  aderire  sono:

  • fondi pensione  negoziali,  la  cui  adesione  avviene  su  base  collettiva  e  trovano  istituzione  per  effetto  di  contratti  e  accordi  collettivi,  anche  aziendali,  nonché  di  accordi  fra  soli  lavoratori  che,  in  realtà,  sono  i  meno  diffusi;
  • fondi pensione  aperti,  la  cui  adesione  può  avvenire  su  base  individuale  o  collettiva  e  trovano  anch’essi  istituzione  per  effetto  di  contratti  e  accordi  collettivi,  anche  aziendali,  nonché  di  accordi  fra  soli  lavoratori  ovvero  di  regolamenti  di  enti  ed  aziende,  qualora  i  rapporti  di  lavoro  non  siano  disciplinati  da  contratti  o  accordi  collettivi,  anche  aziendali;
  • fondi pensione  istituiti  dalle  Regioni,  cui  possono  aderire  i  lavoratori  dipendenti  che  svolgono  attività  lavorativa  nel  territorio  della  Regione  istitutrice  del  fondo;
  • fondi pensione  individuali,  la  cui  adesione  avviene  su  base  unicamente  individuale  e  trovano  attuazione  mediante  contratti  di  assicurazione  sulla  vita  con  finalità  previdenziale  (PIP);
  • fondi pensione  preesistenti,  ovvero  fondi  pensione  già  in  vigore  alla  data  del  15  novembre

Il  finanziamento  del  sistema  di  previdenza  complementare  per  i  lavoratori  dipendenti,  che  costituiscono  la  parte  preponderante  degli  aderenti,  avviene  (ex  art.  8  del  decreto  legislativo  n.  252/2005)  con  quote  integrali  del  trattamento  di  fine  rapporto  (TFR)  e/o  con  contributi  a  carico  sia  del  lavoratore  sia  del  datore  di  lavoro,  la  cui  entità  minima  e  massima  è  –  di  norma  –  stabilita  dai  contratti  e  dagli  accordi  collettivi,  anche  aziendali.  Gli  accordi  fra  soli  lavoratori  determinano,  invece,  il  livello  minimo  della  contribuzione  a  carico  degli  stessi.

Allo  scopo  di  incentivare  l’adesione  a  forme  di  previdenza  complementare,  il  decreto  legislativo  n.  252/2005  prevede  agevolazioni  tributarie  per  il  lavoratore  (aderente)  nonché  l’obbligo,  per  i  datori  di  lavoro  del  settore  privato  che  abbiano  alle  proprie  dipendenze  almeno  50  addetti,  di  versare  il  TFR  dei  lavoratori  in  forza  ai  fondi  pensione,  come  accennato  in  precedenza.  Per  consentire  al  lavoratore  di  decidere  in  modo  consapevole  la  destinazione  del  TFR,  laddove  sia  già  obbligatoria,  la  normativa  vigente  consente  –  entro  sei  mesi  dall’assunzione  –  di  scegliere  se  farlo  a  un  fondo  di  previdenza  complementare  o  lasciarlo  in  azienda,  sapendo  che  nel  caso  in  cui  decida  di  lasciarlo  in  azienda  il  TFR  è  versato  ad  un  apposito  fondo  dell’Inps,  denominato  Fondo  di  tesoreria  (citato  in  precedenza).

Per  garantire  un  futuro  previdenziale  sereno  ai  lavoratori  italiani,  in  particolare  a  quelli  nati  nel  periodo  del  c.d.  boom  economico  (1959-1963)  nel  quale  il  livello  delle  nascite  ha  raggiunto  il  massimo  assoluto,  i  soli  interventi  in  materia  di  previdenza  complementare,  potrebbero  non  essere  sufficienti,  a  causa  dell’attuale  andamento  demografico,  illustrato  plasticamente  da  alcuni  fatti  ben  noti,  come  la  “fuga  dei  cervelli”  (emigrazione  dei  giovani  laureati),  la  riduzione  costante  della  natalità  (sei  neonati  e  11  decessi  per  1.000  abitanti),  che  risulta  più  sensibile  nelle  aree  interne  del  mezzogiorno  (circa  il  5  per  mille  in  meno  sull’anno  precedente),  l’aumento  della  speranza  di  vita  alla  nascita,  che  ha  raggiunto  gli  83,1  anni,  e  l’aumento  del  popolazione  residente  straniera,  pari  a  5  milioni  e  308  mila  persone  al  1°  gennaio  2024  (fonte  Istat,  marzo  2024).

Proprio  l’impiego  di  lavoratori  stranieri  residenti,  congiuntamente  ad  una  politica  economica  che  favorisca  la  crescita,  prevalentemente  mediante  iniziative  di  ricerca,  sviluppo  e  innovazione  (pubbliche  e  private),  coordinate  con  quelle  degli  altri  paesi  dell’Unione  Europea,  può  costituire  l’ulteriore  leva  per  accelerare  l’aumento  del  Pil  ed  evitare  all’Italia  il  declino  che  –  diversamente  –  potrebbe  essere  inevitabile.

Visto  che  uno  dei  vantaggi  della  globalizzazione  è  quello  di  poter  “attrarre”  dall’estero  le  risorse  umane  migliori,  cosa  che  già  accade,  ad  esempio,  con  gli  ingegneri  indiani  nel  settore  dell’informatica,  con  una  politica  migratoria  funzionale  agli  obiettivi  di  crescita  economica  si  potrebbe  non  solo  “rimpiazzare”  i  lavoratori  che  andranno  in  pensione  nei  prossimi  anni,  ma  anche  accrescere  il  livello  qualitativo  delle  attività  più  evolute  in  settori  strategici  per  il  Paese.  Nel  contempo,  con  risorse  umane  di  diversa  professionalità,  si  potrebbero  anche  “riempire”  i  crescenti  vuoti  di  organico  in  attività  tradizionali,  come  le  costruzioni,  i  trasporti,  il  turismo,  i  pubblici  esercizi  e  i  servizi  domestici,  solo  per  fare  degli  esempi.

Ricordando  che  il  sistema  della  previdenza  si  basa  su  previsioni  di  lungo  periodo,  prevalentemente  attuariali,  si  ritiene  che  nel  nostro  Paese  sia  possibile  –  con  pochi  interventi  –  migliorarne  i  livelli  di  “copertura”,  con  vantaggi  sia  per  i  lavoratori  sia  per  lo  stato.

La  Redazione

 

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