L’ITALIA VISTA DA GINEVRA

di Vincenzo Ferrante*

Come è noto, nel nostro ordinamento le leggi approvate dal Parlamento sono chiamate, secondo le previsioni della stessa Costituzione italiana (artt. 10, 11 e 117) a integrarsi con le disposizioni provenienti dalle istituzioni internazionali, ed in particolare con le direttive approvate dal Consiglio dell’Unione e dal Parlamento Europeo.

Nell’ambito dell’UE, queste due istituzioni rappresentano, rispettivamente, i singoli Stati e il popolo europeo, secondo il modello della costituzione federale americana, che conosce una rappresentanza paritaria nel Senato (dove i cento membri sono divisi in ragione di due senatori per ogni singolo stato) e una, invece proporzionale, alla “Camera dei rappresentanti”.

Anche nell’attribuzione delle competenze, l’Unione europea si ispira agli USA, di modo che alcune materie rimangono ai singoli Stati, mentre altre sono devolute al livello “federale”: così, nel caso della disciplina del lavoro, la tutela della salute e sicurezza o la disciplina del tempo di lavoro sono attribuite all’Unione europea, mentre lo sciopero o l’individuazione dei livelli salariali minimi rimangono attribuzione esclusiva dei singoli Stati.

Non ci si deve dimenticare però, che su un piano distinto (ma in certo modo parallelo), la gran parte delle disposizioni che regolano i contratti di lavoro, la previdenza e lo stesso diritto sindacale sono fatti oggetto di una, spesso ignota, legislazione concorrente, che promana dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL).

Questa istituzione, che risale alla fine della I guerra mondiale e che perciò è ben più antica dell’Unione Europea, segue una logica completamente diversa rispetto a quest’ultima, poiché le convenzioni, votate dalla Conferenza internazionale del lavoro (che si tiene ogni anno a Ginevra, ai primi di giugno), non hanno alcun valore vincolante nei confronti dell’Italia (al pari che per gli altri Stati aderenti) fin tanto che, almeno, essi non vengono ratificati con legge ordinaria dal nostro Parlamento, entrando così a far parte a pieno titolo dell’ordinamento italiano.

Nel corso dei decenni, l’OIL è venuta a formare un vero e proprio corpus normativo, che conta più di 191 convenzioni e svariate raccomandazioni, che abbracciano praticamente tutta la disciplina, imponendosi anzi in certi casi (come nel lavoro marittimo) come la principale fonte di regolazione anche dei rapporti interni agli stati.

Poiché, come si è detto, le convenzioni ratificate sono parte dell’ordinamento italiano, per esse non si dovrebbe porre nessuno dei problemi che invece sono frequenti nel caso delle direttive, poiché i giudici nazionali potrebbero senz’altro utilizzare direttamente la norma delle convenzioni OIL ratificate dall’Italia, per risolvere le controversie che siano loro proposte.

In questo senso, quando si tratti di dover adottare una decisione che colma una lacuna, non dovrebbe esserci nessun ostacolo a verificare se per quello specifico aspetto sussiste una norma del diritto internazionale del lavoro OIL, tanto più che è lo stesso art. 35 della Costituzione italiana che, al suo terzo comma, stabilisce che «la Repubblica … promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro».

Questo, però, accade davvero di rado, e non solo a ragione del fatto che le convenzioni danno spesso vita ad una legislazione di principi. Il vero è che, abituati da una legislazione dettagliata e molto protettiva, gli studiosi italiani (al pari di quelli di tutti gli altri paesi europei) hanno maturato da anni l’idea che gli standard previsti dall’OIL riguardino i paesi in via di sviluppo e siano troppo lontani dal livello di tutela propri dei paesi più industrializzati.

Così, mentre i giudici italiani hanno, sia pure dopo decenni di incertezze, accettato che le previsioni europee e le decisioni della Corte di Giustizia UE di Lussemburgo si collochino ad un grado più elevato della normativa nazionale, a ragione dell’obbligo di rispettare i trattati istitutivi dell’Unione che tanto prevedono, non si è ancora giunti al medesimo risultato con riguardo alle convenzioni OIL (che pure l’Italia resta del tutto libera di ratificare, potendo, come nel caso della Convenzione n. 158 in tema di licenziamento, rifiutarsi di sottoscriverla).

In verità, una parte del successo del diritto dell’Unione si deve al fatto che questa può giovarsi di un giudice chiamato ad interpretare il diritto dell’Unione, potendo così attribuire diritti ai singoli e condannare gli stati che non ottemperino agli obblighi che discendono dall’appartenenze all’Unione (così nel famoso caso Francovich, quando un lavoratore riuscì ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti al mancato pagamento del t.f.r. da parte di un’impresa fallita, a ragione del fatto che la Repubblica italiana mai aveva provveduto ad attuare la direttiva che prevedeva un fondo di garanzia a tutela dei lavoratori in caso di insolvenza del datore di lavoro, così arrecandogli un danno patrimoniale suscettibile di immediata quantificazione).

Nel caso dell’OIL, invece, non c’è un tribunale cui i singoli possono rivolgersi, poiché i meccanismi diretti a sanzionare i paesi che violano le convenzioni che essi stessi hanno accettato, mediante ratifica, sono quelli tipici del sistema diplomatico, cui ci ha abituato tutte le organizzazioni internazionali che fanno capo all’ONU, di modo che l’emanazione di un provvedimento finale è preceduto da una fase, spesso prolungata, nelle quale si chiedono chiarimenti e si invita lo Stato a rivedere la propria legislazione interna, prima di passare ad una risoluzione di vera e propria condanna (cosicché queste sono davvero rare, a differenza di quelle adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove però la materia dibattuta è di ben altro tipo).

Ciò non di meno è però chiaro che tutti i paesi preferirebbero evitare le censure, al fine di non doverne rendere conto pubblicamente in seno alla Conferenza internazionale che, come si è detto, si tiene annualmente a Ginevra: in questo senso, già la richiesta di informazioni che promana dagli organi di amministrazione dell’OIL vale ad attivare gli apparati interni dello Stato richiamato, al fine di paralizzare il prima possibile l’iter della possibile censura nei suoi confronti.

Ed invece, proprio nel corso delle ultime assemblee della Conferenze, l’Italia ha dovuto fronteggiare un numero particolarmente elevato di richieste di chiarimenti, che vanno dall’assenza di reali politiche di contrasto al lavoro nero e all’immigrazione clandestina, al posticipo del pensionamento ad età anagrafiche troppo elevate; dall’inefficienza dei servizi all’impiego al blocco della contrattazione collettiva dei lavoratori del settore pubblico; dalla scarsa tutela delle “badanti” e del personale domestico, al mancato rispetto del principio di parità fra i generi.

In particolare, volendo esaminare il problema più grave, che ha costituito oggetto di pubblico dibattito nel corso della penultima sessione tenutasi nel 20231, all’Italia (che ha ratificato nel 1952 la convenzione n. 81 del 1947, in tema di servizi di ispezione del lavoro nonché, nel 1981, la convenzione n. 129 del 1969, dedicata in maniera specifica all’agricoltura), è stato chiesto conto delle inefficienze dei servizi ispettivi e, innanzi tutto, del fatto che questi abbiano in forza un ridotto numero di addetti e che, di conseguenza, modestissimo sia il numero delle ispezioni annualmente eseguite.

Inoltre, poiché le Convenzioni OIL individuano chiaramente nel lavoratore il soggetto cui si indirizza la tutela dell’azione pubblica, a lungo si è dibattuto in sede internazionale del fatto che la “conciliazione monocratica” di cui al d. lgs. 124 del 2004 abbia un impatto limitatissimo e che, in molti casi, le imprese finiscano per occupare manovalanza in nero, ben conoscendo le difficoltà che i lavoratori irregolari incontrano nel vedersi corrisposti i salari dovuti.

Il dibattito conseguente alle inottemperanze rilevate dal Comitato per il rispetto degli standard internazionali (CAS) ha preso così una piega lontanissima da quello che si registra sulla stampa nazionale, quando sono intervenute le associazioni sindacali dei lavoratori che lamentavano l’assenza di mediatori linguistici e meccanismi ispettivi diretti a sollecitare le denunzie di sfruttamento, mentre anche gli stessi datori hanno confermato di essere disponibili a collaborare con i servi ispettivi per contrastare il lavoro irregolare, a mente delle previsioni della Convenzione n. 143 del 1975 (in tema di lavoro degli stranieri).

Neanche è mancato l’intervento degli stati del Nord Africa, ed in particolare della Tunisia, che ha lamentato il rischio di violazione dei diritti fondamentali dell’uomo per i quasi centomila cittadini di quel paese che, pur soggiornando irregolarmente, lavorano in Italia come operai addetti alle mansioni più umili e più faticose.

Quello riportato è solo un esempio, che peraltro ha condotto – com’è noto – ad un notevole incremento nel 2024 delle assunzioni da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, grazie anche ai fondi del PNRR: tuttavia, sarebbe bene che il dibattito internazionale non rimanesse isolato e che, sia l’opinione pubblica, sia i tanti “addetti ai lavori”, prendessero conoscenza più diretta dei temi che vengono affrontati in questi contesti, al fine di evitare poi fraintendimenti, anche macroscopici, quando si è chiamati a difendere la legislazione italiana in sede europea o internazionale.

*Avvocato in Milano

Professore Ordinario Diritto del Lavoro Università Cattolica di Milano

1 Cfr.: https://normlex.ilo.org/dyn/normlex/en/f?p=1000:131 00:0::NO:13100:P13100_COMMENT_ID,P13100_COUNTRY_ ID:4348264,102709

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