MOLTE NOVITÀ, MA NON TUTTE DI RILIEVO, NELLA NUOVA LEGGE N. 203/24 IN TEMA DI LAVORO
di Vincenzo Ferrante*
1. Il disegno di legge e il provvedimento alla fine approvato.
La legge n. 203 del 13 dicembre 2024 trova origine nel d.d.l. 1532, presentato alla Camera con il titolo di “collegato” lavoro ed è stata approvata, dopo le iniziali consultazioni con le parti sociali, in tempi rapidissimi, dopo però una lunga pausa che, ad un certo punto, è sembrata registrare una vera e propria
empasse. Non è un caso che, alla fine, alcune delle norme più importanti siano state stralciate e che il
titolo poi attribuito al provvedimento sia piuttosto anonimo (“Disposizioni in materia di lavoro”).
Infatti, la Legge si sarebbe dovuta aprire con una previsione che, ove fosse stata approvata, avrebbe
riscosso il sicuro consenso delle organizzazioni sindacali, poiché nell’ambito del lavoro agricolo sarebbero state messe in comune una serie di informazioni che le autorità di vigilanza già ricevono in
forza di previsioni in vigore, in materia di previdenza, ovvero ai fini del calcolo dei redditi fondiari o della
determinazione della misura spettante degli aiuti europei.
In questo modo si prevedeva di creare un “sistema informativo per la lotta al caporalato nell’agricoltura”,
quale “strumento di condivisione delle informazioni tra le amministrazioni statali e le regioni, anche ai
fini del contrasto del lavoro sommerso in generale (si deve segnalare che la norma, in forma diversa, ha
comunque trovato spazio nella legge 20 dicembre 2024, n. 199).
Al momento dell’approvazione finale è venuto meno anche l’ art. 16 del disegno di legge, che, ai fini dell’accertamento dei crediti contributivi INPS, autorizzava l’utilizzo “di elementi tratti anche dalla consultazione di banche di dati dell’Istituto medesimo o di altre pubbliche amministrazioni” nonché la “comparazione dei relativi dati”, al fine di far emergere “basi imponibili non dichiarate o la fruizione di benefìci contributivi, esenzioni o agevolazioni … in tutto o in parte non dovuti”, prevedendo poi una ordinata sequenza di atti, diretti ad instaurare un confronto con l’impresa debitrice, salvo stabilire, ove gli “inviti” rimanessero senza pratico effetto, la “notifica un avviso di addebito», entro “il 31 dicembre dell’anno successivo alla formazione dell’avviso di accertamento”.
Le 34 norme che rimangono, hanno introdotto, in ogni caso, novità praticamente riguardo ogni aspetto della disciplina del rapporto di lavoro e della previdenza INPS ed INAIL, anche se spesso si tratta di modifiche che si muovono sul piano dell’organizzazione del Ministero, venendosi a collocare in un’area più vicina alla Prassi che alla Norma di Legge, tanto che in alcuni casi, come per il disposto dell’art.2, si provvede direttamente a modificare una norma regolamentare, seppur emanata con D.P.R..
Tralasciando, quindi, tutte le altre pur importanti disposizioni (ma si veda il paragrafo 5), qui di seguito
ci si concentrerà su quelle che più direttamente si rivolgono alla quotidiana gestione del rapporto di
lavoro, cioé sulle novità introdotte in tema di ricorso al lavoro somministrato (art. 10), di periodo di prova nei rapporti a termine (art.13) e di dimissioni tacite del lavoratore (art. 19).
2. Abrogazione delle limitazioni in tema di lavoro somministrato a tempo indeterminato.
La Legge 203/2024, con l’art. 10, interviene sulla disciplina delle soglie di ammissibilità del lavoro
somministrato, in particolare modificando le soglie entro le quali, questo è ammesso a mente del D.Lgs.
81/2015. La formulazione della norma risultante dalle novità introdotte nel 2024 è quanto mai infelice,
poiché non si è voluto, né riscrivere il comma oggetto di intervento normativo, né cancellare il principio
generale, che si continua ad enunziare in esordio ad esso, preferendo introdurre nel corpo delle previsioni un’eccezione, che finisce per rovesciare la regola che apre l’enunziato normativo.
Infatti, anche dopo le modifiche ora introdotte, l’art. 31, comma 1 del citato D.Lgs.81/2015, esordisce affermando che «il numero dei lavoratori somministrati con contratto di somministrazione di lavoro a tempo indeterminato, non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore» al 1° gennaio dell’anno di stipula del contratto di fornitura. Si tratta di una norma in certa misura priva di una precisa ratio, posto che, a tacer d’altro, non sussiste analogo limite qualora si dovesse fare ricorso a forme di appalto.
A questo primo limite, al comma 2 dello stesso art. 31, se ne affianca un altro: vengono infatti equiparati
i lavoratori assunti a termine ai somministrati a tempo determinato, prevedendo un limite percentuale del 30% da riferirsi ai lavoratori in forza in pianta stabile presso l’impresa utilizzatrice. In relazione a quest’ultima regola, per effetto di vari provvedimenti di legge successivi al 2015, si sono registrate varie eccezioni alla regola ora enunziata, che riguardano gli apprendisti, i lavoratori collocati “in mobilità” ai sensi dell’art. 8 L. 223/1991, i soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali ed i lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati, secondo quanto stabilito dalla normativa.
Il legislatore del 2024, integrando l’elenco delle eccezioni, aggiunge ora che la regola d’esordio non vige altresì per quanti siano stati “assunti dal somministratore con contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Appare evidente come la mancata riscrittura della norma dia così luogo ad un vero e proprio cortocircuito logico, posto che in caso di lavoratori somministrati a tempo determinato, ma assunti dall’agenzia di somministrazione a tempo indeterminato, tale fattispecie sia “in ogni caso esente da limiti quantitativi”, in piena contraddizione con l’enunziato che apre la norma e che recita che “il numero dei lavoratori [in staff leasing], non può eccedere il 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore”.
A tali nuove previsioni si collega il venir meno dei limiti già introdotti per la medesima ipotesi (cosicché
sono abrogati i periodi quinto e sesto del comma 1, che peraltro avrebbero comunque perduto di efficacia
sotto la data del 30.6.2015 e che anticipavano la regola ora generalizzata).
La norma si completa con l’introduzione di un’ulteriore eccezione e cioè del mancato operare dei limiti di durata in tema di lavoro a termine (art. 19 D.Lgs 81/2015) in caso di assunzioni “di soggetti disoccupati che godono da almeno sei mesi di trattamenti di disoccupazione non agricola o di ammortizzatori sociali e di lavoratori svantaggiati o molto svantaggiati ai sensi dei numeri 4 e 99 dell’articolo 2 del regolamento (UE) n. 651/2014 della Commissione Europea, del 17 giugno 2014, come individuati con il decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali previsto dall’art. 31, comma 2, del presente decreto» (art. 34 D.Lgs. 81/2015, come modificato dall’art. 10 L. 203/2024).
La norma non dice molto di più ed amplissimo, quindi, è il rinvio alla fonte secondaria, che dovrà farsi carico di spiegare in che modo un trattamento deteriore così esteso possa risultare compatibile con il principio di parità di trattamento previsto per i lavoratori a termine, anche sulla scorta delle risalenti pronunzie della Corte di Giustizia che ebbero modo in passato di valutare la legittimità di formule analoghe. esprimendosi nel senso che il principio di parità deve prevalere, onde evitare aree di minor tutela non adeguatamente giustificata.
3. Le modifiche sulla clausola di prova nei contratti a termine.
Si tratta di una delle norme che ha attirato fin dai lavori parlamentari l’attenzione dei commentatori.
L’antefatto è noto e può così riassumersi: all’atto del recepimento della direttiva in tema di “trasparenza”, è stato introdotto un limite massimo per la durata della prova non solo per il lavoro a tempo indeterminato (come già la legge 604/66, nell’ambito della disciplina del recesso), ma anche per i contratti a termine.
Nella formulazione dell’art. 7, comma 2, del D.Lgs. 27 giugno 2022, n. 104, non è però ravvisabile la possibilità di applicare il principio del c.d. pro rata, apparendo la norma inidonea a produrre un comando univoco.
Il legislatore del 2024 volendo sanare questo difetto afferma ora che: “fatte salve le disposizioni più
favorevoli previste dalla Contrattazione Collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno
di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario, a partire dalla data di inizio del rapporto
di lavoro”.
Nella Norma è poi aggiunta una “sibillina” previsione, in forza della quale “in ogni caso la durata del
periodo di prova non può essere… superiore a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi”, dimostrando così di avere un grado di familiarità con le scienze esatte non inferiore a quello dimostrato dal legislatore del 2022, posto che la proporzione enunziata conduce ad una durata di 26 giorni per un contratto di durata annuale, di modo che il termine di 30 rischia di apparire fuori contesto.
In disparte dall’ovvia considerazione che il legislatore potrebbe formulare le disposizioni di legge in maniera meno equivoca, nella prospettiva di dare alle parole un senso compiuto, si può giungere forse ad una soluzione condivisa, sulla scorta del ragionamento che segue.
Il comma 2 dell’art. 7 del Decreto c.d. “trasparenza”, n. 104/2022, prevede attualmente che: “il periodo di prova è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego”.
Va da sé che, come anticipato, si tratta di un enunziato linguistico contrario alle regole della matematica, poiché la previsione è priva di un termine di paragone utile ad operare la proporzione, atteso che non si può fare alcun confronto fra una durata a termine e una a tempo indeterminato (l’infinito, infatti, si sottrae a calcoli siffatti); dunque, la contraddizione fra le varie proposizioni normative è evidente.
Anche in questo caso, allora, si dovrà supporre, perché le parole utilizzate dal legislatore abbiano un senso, che si sia voluto, al pari che nell’articolo precedente, riscrivere una norma, ma evitando di abrogare la precedente (con risultati di massima confusione, come appare evidente).
La norma, quale risultante dalla modifica ora introdotta, dunque, dovrebbe leggersi nel senso che segue (a tal fine basta aggiungere “due punti” dopo la parola “superiore”): la proporzione di cui all’enunziato di esordio si instaura fra la durata della prestazione lavorativa e il tasso “di conversione” ora introdotto dal legislatore (un giorno di lavoro effettivo di prova ogni 15 di calendario) e prima assente; “in ogni caso [e dunque, a correzione della misura che discende dalla proporzione di cui ora si è detto] la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore [:] a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi [prima ipotesi], e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi [seconda ipotesi]”.
Perché la norma abbia senso, si deve intendere che solo questi ultimi limiti abbiano carattere di Norma
indisponibile (al pari di quanto previsto dall’art. 10 della legge n. 604/66), mentre il principio di proporzionalità sembrerebbe operare solo in via dispositiva, di modo che spetta senz’altro alla contrattazione collettiva e, in assenza di questa, all’autonomia individuale, determinare in concreto la durata del periodo di prova, nel rispetto però di un intervallo che va da 2 sino ad un massimo di 15 (ovvero di 30) giorni, secondo la durata del contratto a termine.
Resta ovviamente non regolata l’ipotesi di un contratto di durata superiore a dodici mesi, come per esempio per i dirigenti o per i casi particolari di cui all’art. 23 d. lgs. 81/2015: ma qui si può senz’altro
tornare ad applicare la regola proporzionale pura, e quindi il criterio di un giorno di prova effettiva ogni
15 (senza che possa operare il limite massimo di 30 giorni, poiché questo sembrerebbe riferito solo ai
contratti di durata fra sei e dodici mesi) di modo che, almeno per i dirigenti, sembrerebbe potersi superare anche il limite di cui alla legge n. 604, non applicabile a tale categoria.
4. Novità in tema di recesso per il lavoratore assente ingiustificato.
Anche in questo caso il legislatore interviene a mettere ordine in una questione che faceva fatica a trovare
soluzione espressa, malgrado fosse chiaro l’assetto di interessi sottostante alle norme: il problema è
conseguente all’introduzione di una forma speciale per le dimissioni, in conseguenza prima delle previsioni della legge n. 92 del 2012 e poi dell’art. 26, D.Lgs. 81/2015 (c.d. decreto “semplificazioni” nel quadro del Jobs Act), che rende impossibile considerare dimissionario il lavoratore che si sia assentato senza dare spiegazioni e per un tempo superiore all’assenza considerata giusta causa di licenziamento dalla contrattazione collettiva. Né il datore poteva ricorrere a quest’ultima soluzione invocando l’art. 2119 c.c., poiché, al di là delle difficoltà di comunicare il recesso ad un soggetto sostanzialmente irreperibile, restava la questione dei costi ormai da anni previsti in termini di incremento contributivo (c.d. ticket di cui all’art. 2 L. 92/2012).
La Legge, raccogliendo una soluzione già prospettata in giurisprudenza, aggiunge ora un comma 7-bis
in coda all’art. 26 del citato D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 151, prevedendo che: «In caso di assenza
ingiustificata protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o,
in mancanza di previsione contrattuale, superiore a cinque giorni, il rapporto di lavoro si intende risolto
per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo». A tal fine è necessaria una comunicazione del datore all’Ispettorato con la quale si manifesta la volontà di far valere l’assenza ingiustificata del lavoratore ai fini della risoluzione del rapporto di lavoro (ed a riguardo l’Ispettorato del lavoro, con una sua nota del 22 gennaio 2025 ha messo a disposizione un modello per la comunicazione, chiarendo anche a quale ufficio debba indirizzarsi).
Dunque, il legislatore torna “all’antico” e riconosce che, oltre al licenziamento del datore e alle dimissioni
del lavoratore è possibile che il rapporto venga meno per fatti concludenti, quindi all’esito di una
manifestazione di volontà del lavoratore, espressa non in forma scritta ma tacita e, in certa misura,
confermata da una circostanza inoppugnabile, quale la mancata presenza in servizio. In questi casi, e con
le precauzioni di cui alla norma in commento in caso di non imputabilità dell’assenza (per es. per il caso
di incidente stradale), non sussiste l’esigenza di una forma speciale, e non sorge l’obbligo al versamento
del ticket, in quanto la Naspi non è dovuta in caso di disoccupazione volontaria.
Deve precisarsi che nessun obbligo di ricerca del proprio dipendente grava sul datore di lavoro, e che l’eventuale contatto che sia posto in essere dall’Ispettorato al fine di valutare le ragioni dell’assenza rientra fra gli ordinari poteri degli ispettori, di modo che basta un atto amministrativo,
quale la nota dell’Ispettorato sopra menzionata per rendere operativa questa possibilità.
Si deve anche ricordare che nella nota di cui sopra l’Ispettorato precisa che, fermo rimanendo l’effetto
interruttivo, i motivi alla base dell’assenza (ad es. mancato pagamento delle retribuzioni) potranno
essere oggetto di una diversa valutazione anche in termini di “giusta causa” delle dimissioni, rispetto
alle quali si provvederà ad informare il lavoratore dei conseguenti diritti.
Si tratta anche in questo caso di un potere già implicito nelle funzioni di vigilanza dell’INL, tanto che si
prevede pure la possibilità, attraverso la conciliazione “monocratica” di cui all’art. 11 D.Lgs. 124/2004, di
intervento degli ispettori al fine del pagamento della retribuzione dovuta al lavoratore.
5. Possibilità di costituire la riserva matematica presso l’INPS per danno da omissione contributiva ormai prescritto.
Anche l’ultima norma che si commenta (art. 30) sembra voler dialogare con la Giurisprudenza più recente in tema di risarcimento del danno da omissione contributiva, di cui all’art. 2116, co. 2°
c.c. precisandone il significato e correggendone un effetto indiretto. Si tratta di questione che ha trovato varie soluzioni nella giurisprudenza di legittimità degli ultimi decenni.
A mente della disposizione del codice civile che si è richiamata, l’imprenditore è responsabile del danno che deriva al prestatore di lavoro nei casi in cui gli istituti previdenziali, per mancata o irregolare
contribuzione, non siano tenuti a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute. Il risarcimento
può avvenire condannando il datore di lavoro, alternativamente, al pagamento di una somma di denaro direttamente nei confronti del lavoratore assicurato, o, in forma specifica, mediante la costituzione presso l’INPS di una rendita sostitutiva del trattamento, perduto in conseguenza all’omissione suddetta. In quest’ultimo caso si procede facendo riferimento a quanto previsto dall’art. 13 della L. 12 agosto 1962 n. 1338, che quantifica l’importo a tanto necessario (c.d. “riserva matematica”) in una somma una tantum calcolata in relazione alla condizione soggettiva del pensionato, in applicazione di speciali tabelle, da ultimo emanate con il D.M. 31.8.2007 (in GU n. 258 del 6.11.2007) che tiene conto dell’età, del sesso del danneggiato e dell’eventuale presenza di soggetti titolati al trattamento dovuto ai superstiti.
Il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria ex art. 2116 co. 2° c.c., che sorge solo dopo il prescriversi
del diritto dell’istituto alla contribuzione omessa (di durata quinquennale, secondo la giurisprudenza), è
decennale, secondo la regola generale dell’art. 2946 c.c., ma incerto è il dies a quo della decorrenza della
prescrizione. La giurisprudenza al riguardo, dopo varie oscillazioni, ha ritenuto da ultimo (Cass. 20
gennaio 2016 n. 986; Cass. 13 marzo 2003, n. 3756; Cass. 3 dicembre 2020 n. 27683; Cass. SS. UU. 14 settembre 2017 n. 21302) che l’azione di danno inizi a decorrere dalla data di prescrizione dei contributi, di modo che, decorsi quindici anni (5 + 10) dall’omissione, nessun ristoro è più possibile.
Poiché tuttavia, ai sensi dell’art. 13 L. n. 1338 del 1962, il lavoratore stesso può versare la relativa somma
all’INPS (e ciò costituisce per lui un vantaggio, sia perché il datore di lavoro può in ipotesi essere venuto
meno, sia perché ottiene subito la corresponsione mensile della prestazione pensionistica, senza
attendere l’esito del giudizio che nel frattempo promuoverà nei confronti del datore di lavoro
inadempiente per la restituzione della somma versata all’INPS), si era posto il problema se, liberato il datore dall’obbligazione risarcitoria, sussistesse comunque il diritto del lavoratore al versamento, in presenza dei particolari requisiti di prova scritta che caratterizzano da sempre questa fattispecie, al fine di evitare facili elusioni.
La legge in commento risponde ora positivamente al quesito aggiungendo all’art. 13 della citata Legge
12 agosto 1962, n. 1338, la previsione per cui: «Il lavoratore, decorso il termine di prescrizione per l’esercizio delle facoltà di cui al primo e al quinto comma [e cioè la richiesta di costituzione a spese del datore], fermo restando l’onere della prova previsto dal medesimo quinto comma, può chiedere
all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale la costituzione della rendita vitalizia con onere interamente a proprio carico, calcolato ai sensi del sesto comma».
6. Uno sguardo veloce alle altre disposizioni di legge.
Fra le tante altre disposizioni che la legge contiene, qui solo un accenno può farsi alle norme dirette a modificare la disciplina del medico competente (art. 1) o a quelle in tema di durata dell’intervento di integrazione salariale derivante dalla CIG (art. 6) o relative ai fondi bilaterali (artt. 8 e 9).
Varie disposizioni sono pure dedicate agli indebiti Inail e alla disciplina dell’apprendistato e alle attività
stagionali (art. 11).
All’art. 17 si legittima una particolare forma di parttime, nella quale il lavoratore viene a sommare attività
di lavoro subordinato a quella di lavoro autonomo (e tanto senza nessuna vera innovazione di legge, se non sul piano fiscale, e sulla base di un accordo collettivo nel settore credito, che ha avuto un certo
successo).
Parimenti all’art. 7 si prevedono norme apposite in tema di “legittimo impedimento” di cui alla legge 234
del 2021 (comma 927 segg.), giustificando l’eventuale ritardo del professionista in caso di particolari
vicissitudini personali o familiari, che rendano inesigibile la prestazione, altrimenti dovuta al cliente, o il rispetto dei termini imperativi di legge.
*Avvocato in Milano
Professore Ordinario Diritto del Lavoro
Università Cattolica di Milano