SOSTENIBILITÀ FINANZIARIA E GIURIDICO-SOCIALE NELL’EVOLUZIONE DELLE REGOLE SULLE PENSIONI

di Rosa Casillo*

L’evoluzione della struttura e delle regole del sistema pensionistico è sempre stata influenzate da temi economico-finanziari, che hanno determinato il segno ora espansivo ora regressivo della tutela in base all’esigenza di conciliare la garanzia del diritto sociale, ex art. 38, co. 2 della Costituzione, con la sostenibilità finanziaria del sistema, valore sotteso al principio dell’equilibrio di bilancio ex art. 81 della Costituzione. Se si tracciano le tappe più significative di tale evoluzione anche solo per l’essenziale – cioè guardando ai tratti del sistema che più immediatamente hanno effetto sul segno, migliorativo e peggiorativo, della tutela – se ne ha immediata percezione.

Il tempo in cui le pensioni registrano una decisiva ascesa è quello in cui il legislatore compie l’aggiornamento costituzionale del sistema ereditato dal fascismo con la tranquillità di trend economici crescenti: sono i c.d. “trent’anni gloriosi”, tra il 1960 e il 1990, che concessero a quelle generazioni una pensione di vecchiaia retributiva all’età di 55/60 anni con anzianità contributiva di 15 anni. Le cose cambiano a partire dal 1990, quando, con i forti squilibri delle gestioni previdenziali e pubbliche, si manifestano tutte le conseguenze negative del c.d. uso politico delle pensioni e delle errate valutazioni dell’impatto, sul sistema a ripartizione, delle variabili demografiche e dei mutamenti del mercato del lavoro verso la discontinuità lavorativa. Si avvia così la prima fase di quel percorso di involuzione della tutela durato almeno 20 anni. Il legislatore degli anni ’90 reagisce prima con politiche emergenziali di contenimento della spesa (d.lgs. 503/1992); poi, con una ristrutturazione del sistema (l. 335/1995) tra l’altro reintroducendo la formula contributiva. La seconda fase di riforme regressive è quella compiuta con d.l. 201/2011, conv. con l. 214/2011, ancora per la sostenibilità finanziaria del sistema messa a rischio dalle variabili demografiche e del mercato del lavoro e, in più, dalla crisi economica del 2008. Le modi-fiche, come si sa, hanno riguardato sia i parametri di funzionamento del sistema – requisiti di accesso e metodo di calcolo – sia la struttura delle prestazioni – che da tre diventano due (pensione di vecchiaia e pensione anticipata, con eliminazione di quella di anzianità). Modifiche sottrattive, queste, alle quali altre si sono aggiunte nei primi sette anni successivi alla l. 214/2011 e oggi – dopo alcuni interventi di segno espansivo degli anni 2016-2019 – il legislatore è nuovamente intervenuto nel segno dell’inasprimento delle regole (l. 213/2023).

Un così stretto intreccio sul piano giuridico tra dimensione sociale ed economica non deve stupire. Legata com’è, per sua natura, a variabili finanziarioattuariali e, per il modello occupazionale, a variabili macro e micro-economiche, la tutela di pensione tecnicamente non può essere insensibile alla capienza dei mezzi finanziari sia delle singole gestioni sia dello Stato; e neanche la regolazione attuativa del diritto la può ignorare. Sicché il grado di soddisfacimento di questo diritto, determinato dal segno espansivo o restrittivo delle regole pensionistiche, è l’effetto di un dosaggio tra due interessi/funzioni pubbliche, quella economica e quella sociale, che il legislatore stabilisce, in ogni contesto storico, nell’esercizio della sua discrezionalità su tempi e modi di attuazione dei diritti sociali. Né di ciò la Corte costituzionale ha mai dubitato, limitando lo scrutinio delle legislazioni regressive al profilo della razionalità e ragionevolezza in rapporto alla finalità della tutela.

Quest’ultimo rilievo apre una prospettiva assai importante per il giudizio giuridico sulle riforme degli ultimi 30 anni, che non è esauribile prendendo atto del risultato in termini di sostenibilità finanziaria del sistema, raggiunto oggi e ipotecato per il futuro. Esso richiede una verifica condotta su altri due piani: quelli della sostenibilità giuridica e sociale non tanto dei singoli interventi di riforma in sé, quanto del grado di effettività del diritto sociale, che da essi risulta, in rapporto alla finalità della tutela secondo l’art. 38 della Costituzione, nel primo caso, e, nel secondo, in rapporto alla realtà della vita delle persone.

I profili di criticità che emergono da questa verifica non sono di poco conto. Sono tutti collegati ai due principali tratti di struttura del sistema, ossia i requisiti di accesso e i metodi di calcolo delle pensioni, e alle altre regole che, in vario modo, comunque determinano il momento del pensionamento – il computo della contribuzione ad esempio, le decorrenze, le soglie, gli accessi anticipati – e l’importo delle rendite – imponibili contributivi, massimali, istituti di riunificazione dei contributi, penalizzazioni, tra gli altri. E, all’esito di un esame anche solo poco approfondito di queste regole, è facile osservare che la conformità giuridica e la sostenibilità sociale delle pensioni oggi seguono due traiettorie opposte, quasi descrivendo, per il sistema pensionistico, un difetto di astrazione dalla realtà.

A partire dai presupposti di pensionamento, la progressiva elevazione dell’età di pensione mediante l’aggancio del requisito anagrafico alle variazioni dell’attesa di vita, ad esempio, è coerente con la finalità della tutela ex art. 38, co. 2 della Costituzione, perché lega la determinazione convenzionale dell’età in cui viene meno l’attitudine al lavoro (oggi 67 anni) con il dato statistico dell’allungamento della vita. Tuttavia, la regola, assolta nella prospettiva giuridica, non lo è nella prospettiva della sostenibilità sociale, perché l’indicatore statistico è neutro rispetto alla relazione tra salute ed età avanzata e alle differenze di longevità tra le persone, e può costringere la persona al lavoro in un tempo della vita che non ha più condizioni per essere attiva. Ciò che diviene rilevante anche nella prospettiva giuridica, emergendo qui profili di non ragionevolezza che vanificano la finalità del diritto ex art. 38, co. 2 della Costituzione. Ecco che, nell’attuale impossibilità di impiegare un indicatore che sintetizzi le variazioni dell’aspettativa di vita in buona salute, diviene fondamentale arricchire il ventaglio dei canali di prepensionamento e, anche, degli strumenti che facilitano il ritiro dal lavoro prima della maturazione dei requisiti di pensione, anche nella prospettiva del ricambio generazionale.

Analoghe considerazioni sollecita il requisito contributivo. Senz’altro in linea con la costruzione del diritto ex art. 38, co. 2 della Costituzione anche nella massima misura prevista per la vecchiaia anticipata, esso, calato nella realtà socioeconomica e giuridica del lavoro, che descrive spiccata flessibiltà/precarietà, ha un forte portato di esclusione, socialmente rilevante, per i riflessi che la discontinuità retributiva ha sulla storia contributiva individuale. Ed è certo che ciò contrasta con l’universalità selettiva della tutela, sollecitando rimedi che, in fondo, possono esaurirsi nella revisione degli strumenti già esistenti: gli istituti di riunificazione dei contributi, ad esempio, che ancora oggi non sono universalmente accessibili (almeno per il profilo delle gestioni di destinazione); ma anche l’estensione dell’ipotesi di pensionamento residuale, all’età di 71 anni, oggi limitata ai pensionati in regime contributivo puro. Difficile però praticare la via dei versamenti volontari oltre le ipotesi previste dalla legge o anche la determinazione individuale della sua misura, involgendo, questi temi, profili di totale ristrutturazione del sistema, oltre che profili di solidarietà intertemporale.

Il contesto sociale di discontinuità lavorativa è, poi, ciò che fa del metodo di calcolo delle pensioni, oggi contributivo, un elemento di elevata problematicità sociale. Calato in un contesto di discontinuità contributiva infatti, esso, si sa, può generare pensioni di importo basso, che se non escludono il lavoratore dal circuito previdenziale – per l’operare delle soglie di accesso ai trattamenti anticipati, ad esempio – possono essere assai prossime alle prestazioni di vecchiaia di natura assistenziale (art. 38, co. 1 della Costituzione).

Il tema della sostenibilità sociale qui è evidente, e riflette sul sistema contributivo almeno tre problematiche giuridiche:

  • il contrasto con l’universalità della tutela;
  • l’inadeguatezza della pensione per il profilo empirico;
  • una “ingiustizia sociale” come di quella equità pensionistica, stabilita dal sistema a ripartizione, che vuole una corrispondenza del sacrificio/ beneficio pensionistico tra generazioni compresenti di lavoratori pensionati.

Si tratta, tuttavia, di criticità che nell’astrazione giuridica il regime contributivo non ha, nemmeno se lo si confronta col diverso metodo retributivo e neanche rispetto all’adeguatezza: se la si intenda verificata nel carattere meritocratico che la pensione deve avere ex art. 38, co. 2 della Costituzione, infatti, i due metodi si equivalgono perché tengono conto entrambi, direttamente o indirettamente, della qualità e quantità del lavoro svolto nella vita attiva. Come dire che la reazione dell’ordinamento alla criticità sociale del metodo contributivo può assumere la forma di misure che garantiscono, ai lavoratori contributivi, una pari opportunità di pensione: nella forma di misure che attivano la solidarietà generale o previdenziale – anche la forma di pensione di garanzia.

*Associata di diritto del lavoro facoltà di Giurisprudenza Università di Napoli Federico II

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