CONTRIBUTI SPARSI, PENSIONI INCERTE: IL NODO DELLE CARRIERE “COMPLESSE”
di Michele Dalla Sega*
Come ogni anno, anche nel 2025 si torna a parlare di pensioni e delle possibili prospettive di riforma. Un film ormai tradizionale, che si sviluppa su proposte tecniche, tavoli di confronto tra governo e parti sociali ed efficaci slogan elettorali, e che poi puntualmente si traduce in pacchetti (sempre più stringenti) di misure sulla flessibilità in uscita dal sistema pensionistico e in
piccoli interventi di restyling normativo.
Non ha fatto eccezione rispetto a questo schema anche lo scorso anno, in cui si sono riscontrate, da una parte, alcune misure di dettaglio volte a favorire lo snellimento di determinate procedure previdenziali, come dimostrano gli interventi ad hoc della legge 13 dicembre 2024, n. 203 (c.d. collegato lavoro).
Dall’altra parte, l’ultima legge di bilancio (legge 30 dicembre 2024, n. 207) ha confermato il disegno ormai consolidato delle ultime leggi di stabilità, con la conferma transitoria delle misure sperimentali di accesso anticipato al pensionamento per alcune precise categorie di lavoratrici e lavoratori (quota 103, opzione donna e Ape sociale) e diversi interventi di contorno su specifici strumenti e meccanismi su cui si articola il nostro sistema, come dimostrano i provvedimenti su previdenza complementare, rivalutazione delle pensioni e gli incrementi straordinari delle pensioni
minime.
A fronte di questo scenario ormai costante, da più parti si segnala la visione di breve periodo di queste misure e la (conseguente) mancanza di provvedimenti strutturali, in grado di incidere sulle principali “storture” del nostro sistema pensionistico. Si pone al centro, in particolare, la necessità di nuove riforme in grado di incidere sulle pensioni future, considerate le difficoltà che incontrano i lavoratori e le lavoratrici più giovani a costruirsi un proprio futuro previdenziale, a fronte di contribuzioni basse e slittamenti dell’età pensionabile che si renderanno inevitabili a causa
dell’invecchiamento della popolazione.
In questo contesto, si sono inserite numerose proposte: dall’introduzione di una pensione di garanzia per i giovani agli inviti – più o meno convinti – a sviluppare il nostro “sonnacchioso” (come certifica costantemente la COVIP) secondo pilastro pensionistico, fino alla possibilità di introdurre nuove forme di riscatto agevolato per coprire buchi contributivi accumulati negli anni.
Si tratta di (possibili) interventi diversi per natura, ma accomunati dall’obiettivo di garantire trattamenti dignitosi ai pensionati di domani, soggetti a carriere lavorative discontinue e legati alle incertezze dell’applicazione integrale del sistema contributivo, che connette strutturalmente l’erogazione e l’importo dei trattamenti pensionistici futuri alla contribuzione accumulata nel corso degli anni.
La realtà del mondo del lavoro ci dice tuttavia che le criticità del nostro sistema non riguardano solo queste fasce più giovani della forza lavoro, ma investono anche una quota sempre più ampia di lavoratori e lavoratrici con percorsi professionali articolati, caratterizzati da transizioni tra settori, interruzioni, iscrizioni a gestioni diverse e versamenti talvolta non valorizzati.
Si tratta di carriere “complesse”, che non rientrano nei classici profili del precariato giovanile e che pongono criticità diverse. Vale la pena, in questa sede, di concentrare l’attenzione su alcuni di questi nodi problematici per comprendere le principali criticità e immaginare possibili prospettive di sviluppo.
I contributi sparsi
Un primo punto sul quale concentrare l’attenzione riguarda gli attuali meccanismi di raccordo tra le diverse gestioni pensionistiche, che rappresentano strumenti essenziali a supporto delle carriere “complesse”, visto che consentono (almeno sulla carta) di valorizzare congiuntamente i contributi versati presso fondi diversi.
Da un lato, nel nostro sistema è presente l’istituto del cumulo contributivo, che consente ai lavoratori di sommare i contributi versati in diverse gestioni previdenziali, permettendo l’accesso alla pensione con una sola liquidazione. Si tratta di un istituto relativamente recente – visto che è stato introdotto nel 2013 – e con un importante punto di forza: non prevede oneri economici a carico dei beneficiari. Le riforme degli ultimi anni ne hanno inoltre ampliato significativamente la platea dei destinatari, estendendo questo strumento, inizialmente pensato per i soli “contributivi puri”, anche ad altre categorie, compresi i liberi professionisti iscritti agli enti previdenziali privatizzati.
Restano tuttavia in vigore alcune importanti limitazioni che depotenziano la portata dello strumento, specie con riferimento a chi ha contributi “sparsi” tra gestioni pubbliche e casse professionali. Basti pensare alla regola prevista dall’articolo 1, comma 241, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che oltre a istituire il cumulo ne ha subito ristretto l’efficacia in determinate situazioni “miste”. In tali casi, infatti, per accedere in cumulo alla pensione di vecchiaia, è necessario maturare sia i requisiti anagrafici e contributivi più elevati tra tutte le gestioni coinvolte, sia quelli ulteriori (diversi da età e anzianità) previsti dalla gestione a cui si risulta da ultimo iscritti.
Il risultato è una liquidazione frazionata del trattamento pensionistico: prima la quota pubblica e poi, anche a distanza di anni, quella delle casse, che spesso prevedono requisiti più rigidi.
Regole ancora più complesse – che conseguentemente hanno determinato una progressiva perdita di appeal dello strumento – riguardano la totalizzazione. Anche questa consente, in modo gratuito, di valorizzare i contributi versati in più gestioni. Tuttavia, essa comporta il ricalcolo integrale del trattamento con il sistema contributivo, senza possibilità di mantenere le eventuali quote maturate con il retributivo (come invece avviene con il cumulo).
In generale, cumulo e totalizzazione non consentono l’accesso alle forme sperimentali di accesso anticipato al pensionamento, fatta eccezione per la facoltà di accedere alla pensione anticipata flessibile (c.d. quota 103) attraverso il cumulo.
Possibilità più ampie sono invece previste dallo strumento della ricongiunzione, che grazie al trasferimento materiale di tutti i contributi accantonati da una gestione a un’altra, consente ai lavoratori interessati di accedere alle specifiche modalità anticipate di pensionamento previste da alcune gestioni, nonché di valorizzare periodi coperti dal sistema retributivo e di incrementare l’importo finale dell’assegno. Allo stesso tempo, però, si tratta di un meccanismo oneroso, con costi significativi a carico dei beneficiari, soprattutto per i liberi professionisti.
In sintesi, le opzioni per far dialogare le diverse gestioni esistono, ma appaiono parzialmente disallineate rispetto alle esigenze di chi ha carriere frastagliate e gestioni multiple, finendo per produrre più incertezza che semplificazione. Di conseguenza, anche chi ha una contribuzione formalmente regolare, nella pratica non riesce a raggiungere un trattamento pensionistico coerente e integrato.
I contributi che non contano
I problemi, tuttavia, non si fermano qui: anche i contributi che vengono effettivamente versati possono, in certe condizioni, risultare inutilizzabili o non valorizzabili, incrementando ulteriormente le distorsioni che colpiscono le carriere “complesse”.
È il caso, in primis, dei versamenti sotto il minimale contributivo, che non danno diritto all’accredito dell’intero anno di anzianità contributiva e che, per questo, non possono essere utili né per maturare i requisiti pensionistici né per incrementare l’importo della prestazione. Una regola pensata (e sensata) per garantire un “minimo” di copertura pensionistica ai lavoratori iscritti ad una sola gestione, ma che rischia di penalizzare chi ha una contribuzione multipla (si pensi, a titolo di esempio, ad un professionista che versa sia in gestione separata che ad una cassa professionale) rendendo inutilizzabile parte dei contributi versati in modo regolare.
In quest’ottica, si avverte con forza l’esigenza di introdurre forme di versamento volontario “agevolato”, per consentire ai lavoratori di integrare quanto versato e raggiungere il minimale, così da ottenere la piena valorizzazione dell’annualità contributiva.
Il medesimo rischio di avere contributi che “non contano”, a ben vedere, emerge anche dalla disciplina attuale relativa ai periodi coincidenti, cioè quei periodi in cui il lavoratore ha svolto due o più attività contemporaneamente, versando contributi a più gestioni nello stesso arco temporale. È una prassi sempre più diffusa, per effetto della frammentazione dei percorsi professionali, ma che non trova adeguato riscontro negli strumenti attuali (cumulo, totalizzazione, ricongiunzione), che escludono esplicitamente la possibilità di valorizzare contributi versati in periodi sovrapposti.
Anche in questo caso, andrebbe ripensata la normativa, prevedendo forme di riconoscimento dei contributi coincidenti, così da riflettere con maggiore aderenza l’effettivo sforzo contributivo sostenuto da chi lavora in più forme o settori contemporaneamente.
Un ultimo cenno – sempre nell’ottica presentata ma in una prospettiva più generale – può essere dedicato alle interruzioni di carriera, che rappresentano un elemento strutturale nelle biografie lavorative contemporanee, ma che il sistema previdenziale continua a trattare, in molti casi, come vere e proprie “anomalie”. Basti pensare ai periodi di inattività per motivi personali, familiari o di transizione tra lavori, che molto spesso restano scoperti da contribuzione o accrediti figurativi.
Da qualche anno, strumenti come la pace contributiva (sperimentata una prima volta nel triennio 2019-2021 e poi reintrodotta, sempre in via transitoria, anche per il biennio 2024- 2025) permettono di recuperare questi vuoti, consentendo, a condizioni semplificate e agevolate, di recuperare ai fini pensionistici i buchi contributivi tra un lavoro e l’altro, nella misura massima di cinque anni anche non continuativi. Tuttavia, questo beneficio è riservato esclusivamente ai c.d. “contributivi puri”, ossia a chi non ha versamenti prima del 1996.
L’esclusione delle carriere miste – e dunque di molti lavoratori con percorsi lunghi ma non lineari – rappresenta oggi un limite evidente, che andrebbe superato con un’estensione dell’istituto anche a chi ha contribuzione precedente al 1996. Ampliare la possibilità di utilizzo dello strumento anche a queste carriere rappresenterebbe quindi un passaggio essenziale per avvicinare il sistema previdenziale alla varietà delle esperienze lavorative attuali, riconoscendo in misura più adeguata anche le discontinuità che caratterizzano molti percorsi professionali.
L’urgenza di una nuova “agenda” sulle pensioni
I casi appena presentati riguardano solo alcune tra le tante fattispecie problematiche che caratterizzano oggi il nostro sistema pensionistico: un sistema che, negli anni, è stato capace di unificare i tanti (troppi) regimi presenti e di armonizzare regole differenti, anche per garantirsi una sostenibilità finanziaria nel lungo periodo.
Tuttavia, questo percorso ha lasciato irrisolte numerose distorsioni che oggi rendono difficile costruire una posizione contributiva solida per chi ha carriere irregolari, anche a fronte di versamenti continui e lunghi nel tempo.
Si tratta di soggetti spesso invisibili al dibattito pubblico, che resta concentrato su figure più “tradizionali” o su slogan legati al tema della flessibilità in uscita. Eppure, sono sempre di più le persone che, pur avendo lavorato tanto e versato regolarmente, si trovano a dover fare i conti con trattamenti pensionistici frammentati, ritardati o ridotti.
È proprio su queste carriere “complesse”, fatte di contributi versati con regolarità ma distribuiti su più gestioni, attraversate da pause e da sovrapposizioni, che occorre oggi accendere un faro. Un sistema previdenziale equo e credibile dovrebbe infatti saper riconoscere e premiare il lavoro effettivo, anche quando non si presenta in forma continua e ordinata.
*Ricercatore Università di Modena e Reggio Emilia






